Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 12089 del 08/05/2019

Cassazione civile sez. II, 08/05/2019, (ud. 18/12/2018, dep. 08/05/2019), n.12089

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CORRENTI Vincenzo – Presidente –

Dott. BELLINI Ubaldo – Consigliere –

Dott. ABETE Luigi – rel. Consigliere –

Dott. CASADONTE Annamaria – Consigliere –

Dott. OLIVA Stefano – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso n. 29020 – 2015 R.G. proposto da:

B.M.T., – c.f. (OMISSIS), – S.N. – c.f.

(OMISSIS) – rappresentati e difesi in virtù di procura speciale in

calce al ricorso dall’avvocato Fiorenzo Cieri ed elettivamente

domiciliati in Roma, alla via Germanico, n. 96, presso lo studio

dell’avvocato Bruno Taverniti;

– ricorrenti –

contro

P.A., – c.f. (OMISSIS) – P.M. – c.f.

(OMISSIS) – PA.MA. – c.f. (OMISSIS) – rappresentati e

difesi in virtù di procura speciale in calce al controricorso

dall’avvocato Mario Galante ed elettivamente domiciliati in Roma,

alla via della Conciliazione, n. 44, presso lo studio dell’avvocato

Sara Vincenzi;

– controricorrente –

avverso la sentenza della corte d’appello de L’Aquila n. 1290 dei

2/12.12.2014;

udita la relazione nella camera di consiglio del 18 dicembre 2018 del

consigliere Dott. Luigi Abete.

Fatto

MOTIVI IN FATTO ED IN DIRITTO

Con ricorso ex art. 703 c.p.c. al tribunale di Vasto depositato il 24.10.2000 B.A.R., proprietaria e possessore di porzione d’immobile, con circostante corte, in contrada Mottagrossa di Vasto, esponeva che la sorella, B.M.T., proprietaria e possessore dell’altra porzione dello stesso immobile, ed il coniuge, S.N., avevano apposto nella corte comune una grata metallica verticale a mò di recinzione, un bancone in ferro ed altre masserizie, sì da occuparne la maggior parte in forma esclusiva; che risultavano impossibili il passaggio attraverso la corte e l’esecuzione dei lavori di rifacimento della copertura in cemento.

Chiedeva di essere reintegrata o, quantomeno, manutenuta nel possesso della corte con ordine alle controparti di ripristino dello status quo ante.

Resistevano B.M.T. e S.N..

Venivano sentite le parti ed ascoltati gli informatori.

Con provvedimento del 3.6.2002 il giudice denegava la tutela interdittale.

B.A.R. proponeva reclamo ex art. 669 terdecies c.p.c..

Resistevano B.M.T. e S.N..

Con ordinanza dei 21/25.3.2003 il collegio, in accoglimento del reclamo, faceva ordine ai reclamati di rimuovere la recinzione e qualsivoglia res idonea ad ostruire il passaggio attraverso la corte, di consegnare alla reclamante le chiavi di apertura e chiusura dei varchi apposti per l’accesso alla corte.

Nella fase di merito, escussi i testi hic et inde addotti, si costituivano P.A., P.M. e Pa.Ma., coniuge, il primo, figli, gli altri, di B.A.R., nelle more deceduta.

Con sentenza n. 267/2008 il tribunale di Vasto rigettava l’iniziale ricorso.

Proponevano appello A., M. e Pa.Ma..

Resistevano B.M.T. e S.N..

Con sentenza n. 1290 dei 2/12.12.2014 la corte d’appello de L’Aquila accoglieva il gravame, confermava le statuizioni di cui all’ordinanza ex art. 669 terdecies c.p.c. dei 21/25.3.2003 del tribunale di Vasto e, tra l’altro, regolava le spese del doppio grado.

Premetteva la corte che le dichiarazioni rese dagli informatori sentiti nel corso della fase a cognizione sommaria si prestavano ad esser, in guisa di elementi indiziari, liberamente valutate.

Premetteva altresì che la valenza degli esiti istruttori della fase sommaria non era inficiata nè dalla circostanza per cui nella fase a cognizione piena ci si era limitati all’escussione di taluni testimoni, già sentiti a sommarie informazioni, i quali avevano confermato le precedenti dichiarazioni, nè dall’ulteriore circostanza per cui la prova testimoniale in ordine all’esercizio del possesso, siccome articolata dalla ricorrente in spregio alle prescrizioni dell’art. 244 c.p.c., era stata dichiarata inammissibile.

Indi evidenziava che dalle dichiarazioni rese in sede di libero interrogatorio da B.A.R. e dagli informatori escussi in fase sommaria si desumeva che l’iniziale ricorrente o coloro da costei incaricati mai avevano richiesto autorizzazione alcuna, onde accedere alla corte per raccogliere quanto vi fosse caduto o collocato; che dunque la ricorrente e i suoi familiari utilizzavano la corte e ne facevano un uso, “per quanto non continuativo, conforme alla destinazione propria e tipica del bene” (così sentenza d’appello, pag. 4).

Evidenziava inoltre che nessun riscontro probatorio era stato acquisito della tolleranza addotta dagli iniziali resistenti, nè a tal fine erano sufficienti “i rapporti di vicinato e parentela, tenuto conto delle asperità che caratterizzavano le relazioni familiari tra le due sorelle B.” (così sentenza d’appello, pag. 5).

Evidenziava ancora che sussisteva lo spoglio lamentato; che invero l’apposizione della grata metallica e parimenti la collocazione di oggetti ingombranti impedivano l’accesso ed il transito alla corte ed attraverso la corte; che del resto “il cancelletto collocato nella grata era stato bloccato con una vite” (così sentenza d’appello, pag. 5).

Evidenziava infine che l’intenzionalità del lamentato spoglio era avvalorata dalla reiterazione delle condotte denunciate pur in epoca successiva alla pronuncia dell’ordinanza ex art. 669 terdecies c.p.c..

Avverso tale sentenza B.M.T. e S.N. hanno proposto ricorso; ne hanno chiesto sulla scorta di tre motivi la cassazione con ogni susseguente statuizione anche in ordine alle spese di lite.

A., M. e Pa.Ma. (eredi di B.A.R.) hanno depositato controricorso; hanno chiesto dichiararsi inammissibile o rigettarsi l’avverso ricorso con il favore delle spese del giudizio di legittimità.

I ricorrenti hanno depositato memoria.

Del pari hanno depositato memoria i controricorrenti.

Con il primo motivo i ricorrenti denunciano ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 4, la violazione e falsa applicazione dell’art. 113 c.p.c., comma 1, art. 115 c.p.c. e art. 703 c.p.c. e ss..

Deducono che la corte di merito ha, in ordine al riscontro del possesso in capo all’iniziale ricorrente, valutato in maniera illegittima l’efficacia probatoria delle dichiarazioni rese, senza il vincolo del giuramento, dagli informatori escussi nella fase a cognizione sommaria, elevando – siffatte dichiarazioni – nella fase a cognizione piena, al rango di dichiarazioni testimoniali.

Deducono quindi che “dall’inefficacia ed inutilizzabilità delle dichiarazioni rese dagli informatori nella fase cautelare del giudizio possessorio (…) discende il vizio di motivazione (…) della sentenza impugnata” (così ricorso, pag. 16), “non avendo i testi escussi nella fase di merito dichiarato alcunchè (…) sul possesso esercitato dalla originaria ricorrente (…) sullo spazio circostante il fabbricato” (così ricorso, pag. 18).

Con il secondo motivo i ricorrenti denunciano ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3, 4 e 5, la violazione e falsa applicazione degli artt. 113,115,244 e 246 c.p.c..

Deducono che l’originaria ricorrente ed i suoi eredi non hanno dato prova del possesso preteso sulla corte asseritamente comune.

Deducono segnatamente che, in dipendenza della declaratoria di inammissibilità – siccome in spregio all’art. 244 c.p.c. – della prova testimoniale articolata in ordine al preteso possesso dall’originaria ricorrente, i testimoni escussi nella fase a cognizione piena, per un verso, si sono limitati a confermare le dichiarazioni – inutilizzabili nella fase a cognizione piena – rese in veste di informatori nella fase a cognizione sommaria, per altro verso, hanno riferito “circostanze e fatti non attinenti allo ius possessionis ed agli altri presupposti della tutela possessoria, ma solo a circostanze attinenti al presunto spoglio” (così ricorso, pag. 20).

Con il terzo motivo i ricorrenti denunciano ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 4, la violazione ed erronea applicazione dell’art. 2729 c.c. e dell’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4; l’illogicità, la contraddittorietà e l’erroneità della motivazione; l’omesso esame.

Deducono che la corte distrettuale ha attribuito valenza indiziaria alle dichiarazioni rese dagli informatori escussi nella fase a cognizione sommaria, quantunque nè confortate nè corroborate da ulteriori elementi di prova, anzi quantunque smentite dalle circostanze riferite dalla stessa B.A.R. nel corso del suo interrogatorio.

Deducono d’altra parte che sia dal titolo prodotto dall’originaria ricorrente sia dalla relazione tecnica risulta che la corte è di esclusiva proprietà di B.M.T..

I motivi di ricorso sono strettamente connessi; il che ne giustifica la disamina contestuale; i motivi tutti comunque sono destituiti di fondamento.

Per nulla si giustifica la prospettazione dei ricorrenti secondo cui la corte de L’Aquila ha illegittimamente “elevato a rango di prova testimoniale le sommarie informazioni, raccolte nella fase cautelare” (così ricorso, pag. 14).

La corte abruzzese invero ha legittimamente valutato nella fase a cognizione piena in chiave indiziaria gli esiti istruttori emersi nella fase a cognizione sommaria (“occorre premettere che nei procedimenti possessori le sommarie informazioni (…) sono idonee a fornire elementi indiziari liberamente valutabili dal giudice”: così sentenza d’appello, pag. 3).

Del resto questa Corte spiega che “la sentenza emessa all’esito del procedimento possessorio – che decide sul c.d. merito possessorio – ben può basarsi solo sugli elementi raccolti nella fase di sommaria cognizione allorchè gli elementi acquisiti in tale fase consentano al giudice di definire la causa (…)” (così in motivazione Cass. 20.1.2009, n. 1386); e che “nei procedimenti possessori (…) le sommarie informazioni fornite dai testi nella prima fase del giudizio ai sensi dell’art. 689 c.p.c., comma 1, sono idonee a fornire elementi indiziari liberamente valutabili dal giudice, cioè elementi di prova, ai quali il giudice, in sede di decisione del merito, può fare ricorso per la formazione del suo convincimento” (così in motivazione Cass. 20.1.2009, n. 1386. Si veda anche Cass. 29.10.1974, n. 3286, secondo cui le sommarie informazioni sono idonee a fornire indizi che il giudice valuta liberamente e che possono concorrere alla formazione del suo convincimento quando siano gravi, precise e concordanti).

Di conseguenza per nulla si giustifica il preteso vizio “in ordine a tutto quanto dedotto (…), dalla lett. a) alla lett. i), nella motivazione della sentenza impugnata” (così ricorso, pag. 16).

In pari tempo la piena legittimità della valutazione – operata dalla corte d’appello – delle risultanze istruttorie della fase a cognizione sommaria sottrae valenza all’assunto dei ricorrenti – specificamente veicolato dal secondo motivo – secondo cui B.A.R. ed i suoi eredi non avrebbero dato prova del possesso dell’area circostante il fabbricato, giacchè le dichiarazioni rese dai testi escussi nel corso della fase a cognizione piena sarebbero di mera conferma delle inutilizzabili dichiarazioni rese dagli stessi testi in veste di meri informatori nel corso della fase a cognizione sommaria.

A nulla vale dunque addurre che “il teste Z.G. ( S.) interrogato, in qualità di teste, all’udienza del 13.12.2005, anch’egli si limitava a riconfermare solo quanto riferito in sede di sommarie informazioni rese evidentemente nella fase sommaria e prive di qualsiasi efficacia probatoria” (così ricorso, pag. 20).

A nulla vale dunque addurre che nessun teste “ha riferito di aver visto, almeno una volta, la ricorrente sullo spazio oggetto di lite (…) limitandosi solo a confermare quanto già dichiarato durante le sommarie informazioni (…) e, quindi, privo di efficacia probatoria” (così ricorso, pag. 21).

Per altro verso – con precipuo riferimento al terzo motivo – è indubitabile che il convincimento del giudice in ordine al raggiungimento della prova di un fatto può fondarsi anche su una sola presunzione semplice, purchè grave e precisa, in quanto il requisito della concordanza ricorre solo nel caso di concorso tra più circostanze presuntive (cfr. Cass. 8.4.2009, n. 8484; Cass. 4.5.1999, n. 4406). Ed inoltre che la valutazione della rilevanza di siffatto unico elemento indiziario – nell’ambito del processo logico applicato in concreto – non è sindacabile in sede di legittimità, purchè sia sorretta da motivazione adeguata e logicamente non contraddittoria (cfr. Cass. 4.5.1999, n. 4406).

Nei termini testè enunciati – termini alla cui stregua le censure veicolate dal terzo mezzo di impugnazione si qualificano essenzialmente in rapporto alla previsione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 termini alla cui stregua inoltre le medesime censure sono da vagliare propriamente nel solco della novella formulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 e nel segno della pronuncia n. 8053 del 7.4.2014 delle sezioni unite di questa Corte – l’iter motivazionale che sorregge il dictum della corte distrettuale risulta – pur in parte qua – in toto ineccepibile sul piano della correttezza giuridica ed assolutamente congruo ed esaustivo.

Si tenga conto che la corte di merito ha avuto cura di specificare ulteriormente che “i convenuti (nella comparsa di costituzione e nell’interrogatorio libero di S.N.) non avevano negato una sia pure saltuaria (…) utilizzazione della corte da parte della ricorrente medesima” (così sentenza d’appello, pagg. 3 – 4. Al riguardo cfr. Cass. 11.11.1997, n. 11119, secondo cui, per la conservazione del possesso, non occorre la materiale continuità dell’uso, nè l’esplicazione di continui e concreti atti di godimento e di esercizio del possesso, ma è sufficiente che la cosa anche in relazione alla sua natura e destinazione economico – sociale possa ritenersi rimasta alla virtuale disponibilità del possessore potendo il possesso essere mantenuto anche “solo animo”, purchè il soggetto abbia la possibilità di ripristinare il “corpus”, quando lo voglia; Cass. 15.12.1984, n. 6578).

Al contempo, allorchè i ricorrenti assumono che le dichiarazioni rese dagli informatori sarebbero addirittura smentite dalla dichiarazioni rese da B.A.R. – la quale ammetteva “l’utilizzo sporadico (…) dell’area in questione al fine di recuperare oggetti caduti” (cfr. ricorso, pag. 24) – e si dolgono dell’omessa valutazione, quali argomenti di prova, del titolo di proprietà e della relazione tecnica a firma del geometra L.P., evidentemente prospettano la distorta ed erronea valutazione delle risultanze di causa.

E nondimeno il cattivo esercizio del potere di apprezzamento delle prove non legali da parte del giudice di merito non dà luogo ad alcun vizio denunciabile con il ricorso per cassazione, non essendo inquadrabile nel paradigma dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, nè in quello del precedente n. 4, disposizione che – per il tramite dell’art. 132 c.p.c., n. 4, – dà rilievo unicamente all’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante (cfr. Cass. 10.6.2016, n. 11892).

Si badi, da ultimo, che nel vigore del nuovo testo dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, non è più configurabile il vizio di contraddittoria motivazione della sentenza, atteso che la norma suddetta attribuisce rilievo solo all’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che sia stato oggetto di discussione tra le parti, non potendo neppure ritenersi che il vizio di contraddittoria motivazione sopravviva come ipotesi di nullità della sentenza ai sensi del medesimo art. 360 c.p.c., n. 4 (cfr. Cass. (ord.) 6.7.2015, n. 13928).

B.M.T. e S.N., giacchè soccombenti, vanno in solido condannati a rimborsare ai controricorrenti le spese – liquidate come da dispositivo – del presente giudizio di legittimità.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, si dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione ai sensi dell’art. 13, comma 1 bis D.P.R. cit..

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso; condanna in solido i ricorrenti, B.M.T. e S.N., a rimborsare ai controricorrenti, P.A., P.M. e Pa.Ma. (eredi di B.A.R.), le spese del presente giudizio di legittimità, che si liquidano nel complesso in Euro 2.200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre rimborso forfetario delle spese generali nella misura del 15%, i.v.a. e cassa come per legge; ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione ai sensi dell’art. 13, comma 1 bis D.P.R. cit..

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della sez. seconda civ. della Corte Suprema di Cassazione, il 18 dicembre 2018.

Depositato in Cancelleria il 8 maggio 2019

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