Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 12083 del 08/05/2019

Cassazione civile sez. II, 08/05/2019, (ud. 25/10/2018, dep. 08/05/2019), n.12083

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ORICCHIO Antonio – Presidente –

Dott. ABETE Luigi – rel. Consigliere –

Dott. SCARPA Antonio – Consigliere –

Dott. DONGIACOMO Giuseppe – Consigliere –

Dott. OLIVA Stefano – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso n. 2934 – 2015 R.G. proposto da:

IMPRESA S.P. s.r.l. (già “Impresa S.P.

dell’ing. S.P. & C.” s.a.s.), – c.f. (OMISSIS) – in

persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente

domiciliata, con indicazione dell’indirizzo di posta elettronica

certificata, in Treviso, al viale Cairoli, n. 15, presso lo studio

dell’avvocato Guido Sartorato che la rappresenta e difende in virtù

di procura speciale in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

C.M., – c.f. (OMISSIS) – D.P.R.A. – c.f. (OMISSIS) –

elettivamente domiciliati in Roma, al viale Giulio Cesare, n. 14

A/4, presso lo studio dell’avvocato Gabriele Pafundi che

congiuntamente e disgiuntamente all’avvocato Antonio Prade li

rappresenta e difende in virtù di procura speciale in calce al

controricorso;

– controricorrenti –

avverso la sentenza della corte d’appello di Venezia n. 1564 dei

29.4/2.7.2014;

udita la relazione nella camera di consiglio del 25 ottobre 2018 del

consigliere Dott. Abete Luigi.

Fatto

MOTIVI IN FATTO ED IN DIRITTO

Con atto in data 9.6.2008 l'”Impresa S.P. dell’ing. S.P. & C.” s.a.s. citava a comparire innanzi al tribunale di Belluno C.M. e D.P.R.A..

Esponeva che, in accoglimento della domanda da essa attrice proposta con atto di citazione del 17.5.2001, il tribunale di Belluno con sentenza n. 523/2007 aveva condannato C.M. a pagarle la somma di Euro 319.208,63, oltre interessi e spese di lite.

Esponeva che con atto del 12.3.2002, successivamente alla notificazione della citazione in data 17.5.2001, C.M. aveva donato le quote indivise degli immobili di cui era comproprietario, alla moglie, D.P.R.A..

Esponeva che C.M. aveva nondimeno conservato la piena disponibilità delle quote donate, sicchè unico scopo del rogito datato 12.3.2002 era la sottrazione delle quote ad eventuali azioni esecutive.

Chiedeva accertarsi e dichiararsi la nullità e/o l’inesistenza e/o l’inefficacia, ai sensi e per gli effetti di cui agli artt. 1415 e 1416 c.c. o comunque per mancanza di causa, del rogito del 12.3.2002 con ogni susseguente ordine al competente conservatore dei registri immobiliari.

Si costituivano i convenuti.

Instavano per il rigetto dell’avversa domanda.

Respinta – con ordinanza del 12.2.2010 – l’istanza attorea di esibizione dei contratti di locazione registrati in data 12.6.1996 ed in data 11.12.1996 e del contratto di conto corrente intrattenuto da C.M. con “Unicredit Banca” s.p.a., con sentenza n. 343/2011 il tribunale di Belluno rigettava le domande dell’accomandita attrice.

Proponeva appello l'”Impresa S.P. dell’ing. S.P. & C.”. Si costituivano C.M. e D.P.R.A..

Con sentenza n. 1564 dei 29.4/2.7.2014 la corte d’appello di Venezia rigettava il gravame e condannava l’appellante alle spese del grado.

Evidenziava, tra l’altro, la corte che la società attrice aveva prospettato tardivamente, allorchè le preclusioni circa il thema decidendum erano già maturate, “le concrete modalità con cui il donante era rimasto nel godimento e nella disponibilità dei beni donati per poter, poi, vedersi accolte le istanze istruttorie sul punto” (così sentenza d’appello, pag. 9); che invero a tal fine non poteva reputarsi sufficiente la sola indicazione, di cui all’atto introduttivo, secondo cui il donante aveva mantenuto la libera e piena disponibilità delle quote donate.

Evidenziava ancora che la donazione ben poteva giustificarsi alla luce delle precarie condizioni di salute in cui all’epoca del rogito versava il C. e dell’originaria appartenenza di parte dei beni donati alla famiglia della D.P..

Avverso tale sentenza ha proposto ricorso l'”Impresa S.P. dell’ing. S.P. & C.” s.a.s.; ne ha chiesto sulla scorta di sette motivi la cassazione con ogni susseguente statuizione.

C.M. e D.P.R.A. hanno depositato controricorso; hanno chiesto dichiararsi inammissibile o rigettarsi l’avverso ricorso con il favore delle spese del giudizio di legittimità.

La ricorrente – ora “Impresa S.P.” s.r.l. – ha depositato memoria. Del pari hanno depositato memoria i controricorrenti.

Con il primo motivo la ricorrente denuncia ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, la nullità della sentenza per violazione dell’art. 164 c.p.c., commi 4 e 5, art. 183 c.p.c., comma 7, e art. 187 c.p.c., comma 1.

Con il secondo motivo la ricorrente denuncia ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, la nullità della sentenza per violazione dell’art. 112 c.p.c. per omessa pronuncia.

Con il terzo motivo la ricorrente denuncia ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione e falsa applicazione dell’art. 164 c.p.c., commi 4 e 5, art. 183 c.p.c., comma 7, art. 187 c.p.c., comma 1 e art. 210 c.p.c..

Deduce, qualora si ritenga che la corte di merito abbia implicitamente condiviso le ragioni per le quali il tribunale ha respinto l’istanza di esibizione, ovvero l’abbia ritenuta, al pari del tribunale, indeterminata ed esplorativa, che, ai fini della specificità dell’istanza ex art. 210 c.p.c., è senz’altro sufficiente l’indicazione del solo nominativo di C.M., sicchè è irrilevante l’indicazione del nominativo degli altri contraenti e del contenuto dei contratti.

Deduce in pari tempo che la corte distrettuale contraddittoriamente, per un verso, ha opinato nel senso che la persistente disponibilità, da parte del C., dei beni donati “costituirebbe (se effettiva) un elemento decisivo per affermare la simulazione dedotta dall’attore” (così sentenza d’appello, pag. 9), per altro verso, ha opinato nel senso che è generica l’allegazione circa la perdurante disponibilità dei beni donati da parte del C..

Deduce inoltre che, così come ha prospettato in grado d’appello, la validità dell’iniziale atto di citazione ed il pieno ossequio al disposto dell’art. 163 c.p.c., comma 3, n. 4, sono fuor di contestazione, viepiù che nella fattispecie si verte in materia di diritti assoluti “autodeterminati”.

Deduce conseguentemente che l’allegazione della perdurante disponibilità dei beni donati da parte di C.M., quale riscontrata dalla loro concessione in locazione da parte dello stesso C., era di per sè bastevole e non vi era necessità alcuna di precisare i singoli fatti storici oggetto di prova; che dunque l’istanza di esibizione era senza dubbio da accogliere.

Con il quarto motivo la ricorrente denuncia ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, la nullità della sentenza per violazione dell’art. 164 c.p.c., commi 4 e 5, art. 183 c.p.c., comma 7 e art. 187 c.p.c., comma 1.

Con il quinto motivo la ricorrente denuncia ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione e falsa applicazione dell’art. 3 Cost., degli artt. 769, 1414, 1415 e 1417 c.c. e degli artt. 115,116,art. 164 c.p.c., commi 4 e 5, art. 183 c.p.c., comma 7, art. 187 c.p.c., comma 1.

Deduce che ha errato la corte territoriale a rigettare l’istanza di esibizione finalizzata alla dimostrazione della perdurante disponibilità dei beni da parte del C.; che d’altronde la stessa corte ha riconosciuto che la persistente disponibilità, costituirebbe, se effettiva, un elemento decisivo ai fini della prova della simulazione.

Deduce quindi che il giudice del merito era “obbligato ad ammettere” (così ricorso, pag. 29), a dar seguito all’istanza di esibizione.

Deduce invero che, pur ad assumere che C.M. abbia continuato ad abitare nella casa donata alla moglie, è del tutto abnorme che abbia concesso in locazione i beni donati ed abbia continuato a percepire i canoni di locazione.

Deduce infine che contrariamente all’assunto della corte di Venezia l’animus donandi è incompatibile con il perseguimento di scopi ulteriori, specie se si tratta dello scopo di porre i beni al riparo dalle pretese dei creditori.

Con il sesto motivo la ricorrente denuncia ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione o falsa applicazione degli artt. 769,1414,1415 e 1417 c.c. e degli artt. 115 e 117 c.p.c..

Con il settimo motivo la ricorrente denuncia ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione o falsa applicazione degli artt. 1362 c.c. e ss..

Deduce che è privo di qualsivoglia supporto probatorio ed è comunque irragionevole l’assunto della corte d’appello, secondo cui l’animus donandi rinviene riscontro nelle precarie condizioni di salute del donante alla data del rogito e nell’originaria appartenenza di parte dei cespiti donati alla famiglia di D.P.R.A..

I motivi di ricorso sono tutti strettamente connessi. Se ne giustifica perciò l’esame contestuale. In ogni caso tutti i motivi sono destituiti di fondamento.

Ovviamente il controllo di legittimità demandato a questa Corte, eccettuate l’ipotesi della cosiddetta revisio per saltum e l’ipotesi di cui all’art. 348 ter c.p.c., comma 3, ha per oggetto la sola decisione di appello e non anche la decisione di primo grado e le considerazioni che la sorreggono (cfr. Cass. 7.6.2002, n. 8265; Cass. sez. lav. 18.7.1989, n. 3367; Cass. 6.2.1989, n. 722). Difatti la sentenza di secondo grado assorbe e sostituisce quella resa in primo grado, ancorchè si limiti a confermarla (cfr. Cass. 7.6.2002, n. 8265).

Tanto si rimarca con specifico riferimento al rilievo a tenor del quale la ricorrente ha inteso contestare altresì “i motivi che hanno portato in primo grado il Tribunale di Belluno a rigettare la (…) domanda” (così memoria della ricorrente, pag. 1).

Si rimarca poi, con precipuo riferimento all’omissione di pronuncia denunciata con il secondo motivo, che la mancata ammissione di un mezzo istruttorio si traduce eventualmente in un vizio di motivazione della sentenza, deducibile in cassazione ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 (cfr. Cass. sez. lav. 22.7.2004, n. 13730; Cass. (ord.) 7.3.2017, n. 5654).

Si rimarca al contempo che un cospicuo filone dell’elaborazione giurisprudenziale di questa Corte è nel senso che il rigetto da parte del giudice di merito dell’istanza di esibizione proposta al fine di acquisire al giudizio documenti ritenuti indispensabili dalla parte (nella specie, buste paga del lavoratore relative a rapporto con un terzo) non è sindacabile in Cassazione, poichè, trattandosi di strumento istruttorio residuale, utilizzabile soltanto quando la prova del fatto non sia acquisibile “aliunde” e l’iniziativa non presenti finalità esplorative, la valutazione della relativa indispensabilità è rimessa al potere discrezionale del giudice di merito e non necessita neppure di essere esplicitata nella motivazione, il mancato esercizio di tale potere non essendo sindacabile neppure sotto il profilo del difetto di motivazione (cfr. Cass. sez. lav. 23.2.2010, n. 4375; Cass. sez. lav. 25.10.2013, n. 24188; Cass. 29.10.2010, n. 22196, secondo cui il provvedimento di cui all’art. 210 c.p.c. è espressione di una facoltà discrezionale rimessa al prudente apprezzamento del giudice di merito, che non è tenuto ad indicare le ragioni per le quali ritiene di avvalersi, o no, del relativo potere, il cui mancato esercizio non può, quindi, formare oggetto di ricorso per cassazione, neppure sotto il profilo del difetto di motivazione; Cass. 2.2.2006, n. 2262, secondo cui l’ordine di esibizione della prova costituisce l’espressione di una facoltà discrezionale che l’art. 210 c.p.c., comma 1 rimette al prudente apprezzamento del giudice di merito, che non è tenuto a specificare le ragioni per le quali egli ritiene di avvalersene; il mancato esercizio di detta facoltà non può essere pertanto oggetto di ricorso per cassazione, neppure sotto il profilo del difetto di motivazione).

Non si nega in verità che altro filone giurisprudenziale opina nel senso che i provvedimenti, positivi o negativi, emessi dal giudice di merito sulla richiesta di esibizione ex art. 210 c.p.c., sono censurabili in sede di legittimità se non sorretti da motivazione sufficiente; che, segnatamente, con particolare riferimento alla denegata ammissione del mezzo di prova, il diniego si traduce in un vizio della sentenza, qualora, in sede di controllo – sotto il profilo logico – formale e della correttezza giuridica – dell’esame e della valutazione compiuti dal giudice di merito, risulti che il ragionamento svolto sia incompleto, incoerente o irragionevole, sempre che il mezzo di prova richiesto e non ammesso sia diretto alla dimostrazione di punti decisivi della controversia (cfr. Cass. sez. lav. 17.3.2010, n. 6439; Cass. sez. lav. 19.5.2009, n. 11603).

Ciò nonostante, pur in questi termini l’iter motivazionale che sorregge il dictum della corte di merito risulta in toto ineccepibile sul piano della correttezza giuridica ed assolutamente congruo ed esaustivo. Viepiù in rapporto della novella formulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 applicabile alla fattispecie ratione temporis (la sentenza della corte veneziana è stata depositata il 2.7.2014), e nel segno della pronuncia n. 8053 del 7.4.2014 delle sezioni unite di questa Corte.

Si rimarca innanzitutto che il vizio di motivazione per omessa ammissione della prova testimoniale o di altra prova può essere denunciato per cassazione solo nel caso in cui essa abbia determinato l’omissione di motivazione su un punto decisivo della controversia e, quindi, ove la prova non ammessa ovvero non esaminata in concreto sia idonea a dimostrare circostanze tali da invalidare, con un giudizio di certezza e non di mera probabilità, l’efficacia delle altre risultanze istruttorie che hanno determinato il convincimento del giudice di merito, di modo che la “ratio decidendi” venga a trovarsi priva di fondamento (cfr. Cass. (ord.) 7.3.2017, n. 5654; Cass. sez. lav. 22.7.2004, n. 13730, secondo cui la mancata ammissione di un mezzo istruttorio si traduce in un vizio di motivazione della sentenza, deducibile in cassazione ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, quando il vizio emerga dal ragionamento posto alla base della decisione (che risulti incompleto o illogico o contraddittorio) ed il ricorrente indichi specificamente le circostanze di fatto oggetto della prova ed il nesso di causalità tra la mancata ammissione e la decisione, al fine di consentire al giudice di legittimità il controllo sulla decisività della prova non ammessa).

Evidentemente in siffatta proiezione non ha valenza la prospettazione della ricorrente secondo cui, “assunti tutti i mezzi di prova rilevanti, si valuterà in sede decisoria quale circostanza di fatto assuma più rilevanza, tenendo conto di tutti gli indizi complessivamente introdotti” (così ricorso, pag. 29).

Evidentemente nella medesima proiezione, ai fini del riscontro della decisività dell’istanza di esibizione, risulta alquanto evanescente la prospettazione della ricorrente secondo cui, “qualora Unicredit Banca s.p.a. dimetta il contratto di conto corrente, si potrà verificare che detto conto corrente era intestato a C. e D.P. e si potrà collegare poi tale circostanza al fatto che la signora D.P. ha sottoscritto un nuovo e diverso contratto di conto corrente con lo stesso Istituto di Credito solo dopo che era intervenuta la sentenza che condanna il C.” (così ricorso, pag. 31).

Si rimarca altresì, in ordine agli asseriti profili di contraddizione (cfr. ricorso pag. 25), che nel vigore del nuovo testo dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 non è più configurabile il vizio di contraddittoria motivazione della sentenza, atteso che la norma suddetta attribuisce rilievo solo all’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che sia stato oggetto di discussione tra le parti, non potendo neppure ritenersi che il vizio di contraddittoria motivazione sopravviva come ipotesi di nullità della sentenza ai sensi del n. 4 del medesimo art. 360 c.p.c. (cfr. Cass. (ord.) 6.7.2015, n. 13928).

Si rimarca inoltre (con precipuo riferimento al quinto motivo) che, in materia di ricorso per cassazione, la violazione dell’art. 115 c.p.c. può essere dedotta come vizio di legittimità solo denunciando che il giudice ha dichiarato espressamente di non dover osservare la regola contenuta nella norma, ovvero ha giudicato sulla base di prove non introdotte dalle parti, ma disposte di sua iniziativa fuori dei poteri officiosi riconosciutigli, e non anche che il medesimo, nel valutare le prove proposte dalle parti, ha attribuito maggior forza di convincimento ad alcune piuttosto che ad altre (cfr. Cass. 10.6.2016, n. 11892). Ed, analogamente, che la violazione dell’art. 116 c.p.c. (norma che sancisce il principio della libera valutazione delle prove, salva diversa previsione legale) è idonea ad integrare il vizio di cui all’art. 360 c.p.c., n. 4 solo quando il giudice di merito disattenda tale principio in assenza di una deroga normativamente prevista, ovvero, all’opposto, valuti secondo prudente apprezzamento una prova o risultanza probatoria soggetta ad un diverso regime (cfr. Cass. 10.6.2016, n. 11892).

Si rimarca ulteriormente, a riscontro della coerenza, della ragionevolezza e della esaustività della motivazione dell’impugnato dictum in punto di irrilevanza, di ininfluenza dell’istanza di esibizione, che la corte distrettuale ha esplicitato in ogni caso (“ad ogni modo”), che, “anche se, effettivamente, risultasse provato che il donante è rimasto nella disponibilità materiale dei beni donati (per avervi continuato a vivere e farne uso), ciò troverebbe facile spiegazione nel rapporto di coniugio che lo legava alla donataria” (così sentenza d’appello, pag. 10). Ed ha soggiunto che “anche l’eventuale esistenza di contratti di locazione di beni donati e il pagamento dei relativi canoni su di conto comune dei coniugi, nonchè l’eventuale versamento in un conto comune dei coniugi del prezzo della vendita di uno dei beni donati trovano spiegazione nel rapporto di coniugio e nell’obbligo per entrambi i coniugi di concorrere ai bisogni della famiglia” (così sentenza d’appello, pagg. 10 – 11).

In tal guisa a nulla vale addurre che “in seguito all’atto di donazione non è mutato in alcun modo il rapporto (giuridico e di fatto) tra il donante e il bene donato” (così ricorso, pag. 30).

In tal guisa a nulla vale addurre – con specifico riferimento alla prima ratio decidendi (“come correttamente indicato dal giudice di primo grado (…) in violazione del regime delle preclusioni in tema di deduzione dei fatti costitutivi delle pretese azionate in giudizio”: così sentenza d’appello, pagg. 9 – 10) – che “l’atto di citazione ha soddisfatto anche i requisiti di cui all’art. 163 c.p.c., n. 4, ed allora si sarebbero dovute ammettere le istanze istruttorie tempestivamente svolte” (così ricorso, pag. 26) (qualora la decisione di merito si fondi su di una pluralità di ragioni, tra loro distinte e autonome, singolarmente idonee a sorreggerla sul piano logico e giuridico, la ritenuta infondatezza delle censure mosse ad una delle “rationes decidendi” rendè inammissibili, per sopravvenuto difetto di interesse, le censure relative alle altre ragioni esplicitamente fatte oggetto di doglianza, in quanto queste ultime non potrebbero comunque condurre, stante l’intervenuta definitività delle altre, alla cassazione della decisione stessa: cfr. Cass. 14.2.2012, n. 2108).

In tal guisa a nulla vale addurre, onde escludere il carattere esplorativo delle istanze di esibizione, che “sono stati indicati con precisione i documenti che si chiede di acquisire ed altresì lo scopo per il quale detti documenti devono essere esaminati” (così ricorso, pag. 24).

Si rimarca ancora che è congrua e non è abnorme la puntualizzazione della corte territoriale secondo cui l’animus donandi non è incompatibile con finalità ulteriori, che evidentemente hanno valenza di meri motivi della donazione.

Si rimarca infine che il sesto ed il settimo motivo di ricorso si correlano al rilievo motivazionale chiaramente operato – ed espressamente qualificato – dalla corte lagunare ad abundantiam.

Cosicchè è sufficiente il riferimento all’insegnamento di questa Corte a tenor del quale, in sede di legittimità sono inammissibili, per difetto di interesse, le censure rivolte avverso argomentazioni contenute nella motivazione della sentenza impugnata e svolte “ad abundantiam” o costituenti “obiter dicta”, poichè esse, in quanto prive di effetti giuridici, non determinano alcuna influenza sul dispositivo della decisione (cfr. Cass. sez. lav. 22.10.2014, n. 22380; Cass. sez. lav. 22.11.2010, n. 23635).

In dipendenza del rigetto del ricorso la società ricorrente va condannata a rimborsare ai controricorrenti le spese del presente giudizio di legittimità. La liquidazione segue come da dispositivo.

Si dà atto della sussistenza dei presupposti perchè, ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, la società ricorrente sia tenuta a versare un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione a norma dell’art. 13, comma 1 bis medesimo D.P.R..

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso; condanna l'”Impresa S.P.” s.r.l. (già “Impresa S.P. dell’ing. S.P. & C.” s.a.s.) a rimborsare ai controricorrenti, C.M. e D.P.R.A., le spese del presente giudizio di legittimità, che si liquidano nel complesso in Euro 7.200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre rimborso forfetario delle spese generali nella misura del 15%, i.v.a. e cassa come per legge; ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della società ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della sez. seconda civ. della Corte Suprema di Cassazione, il 25 ottobre 2018.

Depositato in Cancelleria il 8 maggio 2019

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