Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 12048 del 31/05/2011

Cassazione civile sez. lav., 31/05/2011, (ud. 29/03/2011, dep. 31/05/2011), n.12048

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MIANI CANEVARI Fabrizio – Presidente –

Dott. BANDINI Gianfranco – Consigliere –

Dott. ZAPPIA Pietro – Consigliere –

Dott. FILABOZZI Antonio – rel. Consigliere –

Dott. TRIA Lucia – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

P.P., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA G.

PISANELLI 2, presso lo studio dell’avvocato FELSANI MARIA CECILIA,

rappresentato e difeso dall’avvocato STORACE ISIDE giusta delega in

atti;

– ricorrente –

contro

FANTASYLAND S.A.S.;

– intimata –

avverso la sentenza n. 209/2006 della CORTE D’APPELLO di GENOVA,

depositata il 31/03/2006 r.g.n. 1045/04;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

29/03/2011 dal Consigliere Dott. ANTONIO FILABOZZI;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

BASILE Tommaso, che ha concluso per l’inammissibilità o in subordine

rigetto.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

P.P. ha convenuto in giudizio davanti al Tribunale di San Remo la Fantasyland sas esponendo di aver lavorato presso l’Agenzia di viaggi di quest’ultima come impiegata, rivestendo anche il ruolo di direttore tecnico, dapprima con un contratto di collaborazione coordinata e continuativa e successivamente con un contratto di lavoro subordinato, in realtà prestando la propria attività lavorativa sempre alle dipendenze e sotto le direttive del titolare dell’impresa, e di avere subito nel corso del rapporto di lavoro, a causa delle sue richieste di regolarizzazione del rapporto stesso, una serie di comportamenti vessatori e ostili tendenti alla sua completa emarginazione professionale e al progressivo isolamento dai colleghi, comportamenti per i quali aveva sofferto di disturbi sia fisici che psichici. Ha chiesto quindi la condanna del datore di lavoro al risarcimento del danno biologico, del danno alla vita di relazione e del danno morale.

Il Tribunale ha respinto la domanda ritenendo che non fosse emersa la prova di un atteggiamento persecutorio nei confronti della dipendente. Anche l’appello proposto dalla P. è stato respinto dalla Corte di Appello di Genova, che ha ritenuto che non fosse stata raggiunta la prova di un tale atteggiamento persecutorio.

Avverso tale sentenza ricorre per cassazione P.P. affidandosi a cinque motivi di ricorso. L’intimata non ha svolto attività difensiva.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1.- Con il primo motivo la ricorrente deduce l’omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto controverso decisivo per il giudizio, sull’assunto che la Corte territoriale avrebbe ritenuto come circostanza pacifica che nel periodo iniziale si fosse instaurato tra le parti un rapporto di lavoro autonomo, laddove la ricorrente aveva dedotto di avere sempre svolto attività di lavoro dipendente, come, del resto, era chiaramente emerso all’esito dell’attività istruttoria svolta nel giudizio di primo grado.

2.- Con il secondo motivo la ricorrente lamenta omessa valutazione complessiva delle prove e relativo vizio di motivazione, sul rilievo che il giudice di appello avrebbe omesso di valutare nel loro complesso gli episodi posti a fondamento della domanda, omettendo altresì di prendere in considerazione le risultanze della consulenza tecnica d’ufficio disposta in primo grado, che aveva confermato l’esistenza dei disturbi psichici denunciati dalla ricorrente, pur negando il nesso causale tra tali disturbi e l’attività lavorativa svolta.

3.- Con il terzo motivo si denuncia violazione o falsa applicazione dell’art. 2087 c.c., formulando il seguente quesito di diritto: “la responsabilità del datore di lavoro per violazione della personalità morale del lavoratore può sussistere anche in conseguenza di uno (o più) atti lesivi della dignità e del decoro personale e professionale dello stesso pur in difetto di un disegno persecutorio finalizzato ad espellere il dipendente (fattispecie di mobbing)?”.

4.- Con il quarto e il quinto motivo di ricorso si denunciano omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione in ordine alla domanda di risarcimento del danno per violazione dell’art. 2087 c.c., sottolineando che l’esistenza della responsabilità del datore di lavoro, nel caso in esame, era stata invocata e doveva riconoscersi anche come fondata sulla violazione dell’art. 2043 c.c., non potendo dubitarsi che i fatti indicati dalla ricorrente costituissero, al tempo stesso, violazione di obblighi contrattualmente gravanti sul datore di lavoro, ex art. 2087 c.c., e violazione del precetto del neminem laedere gravante sulla generalità dei consociati, ex art. 3043 c.c. 5.- Il ricorso è infondato. Come questa Corte ha già precisato (cfr. Cass. n. 3785/2009), per mobbing si intende una condotta del datore di lavoro o del superiore gerarchico, sistematica e protratta bel tempo, tenuta nei confronti del lavoratore nell’ambiente di lavoro, che si risolve in sistematici e reiterati comportamenti ostili che finiscono per assumere forme di prevaricazione o di persecuzione psicologica, da cui può conseguire la mortificazione morale e l’emarginazione del dipendente, con effetto lesivo del suo equilibrio fisio – psichico e del complesso della sua personalità.

Ai fini della configurabilità della condotta lesiva del datore di lavoro sono, pertanto, rilevanti: a) la molteplicità di comportamenti di carattere persecutorio, illeciti o anche leciti se considerati singolarmente, che siano stati posti in essere in modo miratamente sistematico e prolungato contro il dipendente con intento vessatorio; b) l’evento lesivo della salute o della personalità del dipendente; c) il nesso eziologico tra la condotta del datore o del superiore gerarchico e il pregiudizio all’integrità psico – fisica del lavoratore; d) la prova dell’elemento soggettivo, cioè dell’intento persecutorio. La domanda di risarcimento del danno proposta dal lavoratore per il mobbing subito è soggetta a specifica allegazione e prova in ordine agli specifici fatti asseriti come lesivi (Cass. n. 19053/2005). Cass. 6 marzo 2006, n. 4774 ha poi ritenuto che l’illecito del datore di lavoro nei confronti del lavoratore consistente nell’osservanza di una condotta protratta nel tempo e con le caratteristiche della persecuzione finalizzata all’emarginazione del dipendente (c.d. mobbing) – che rappresenta una violazione dell’obbligo di sicurezza posto a carico dello stesso datore dall’art. 2087 c.c. – si può realizzare con comportamenti materiali o provvedimentali dello stesso datore di lavoro indipendentemente dall’inadempimento di specifici obblighi contrattuali previsti dalla disciplina del rapporto di lavoro subordinato. La sussistenza della lesione del bene protetto e delle sue conseguenze deve essere verificata – procedendosi alla valutazione complessiva degli episodi dedotti in giudizio come lesivi – considerando l’idoneità offensiva della condotta del datore di lavoro, che può essere dimostrata, per la sistematicità e durata dell’azione nel tempo, dalle sue caratteristiche oggettive di persecuzione e discriminazione, risultanti specificamente da una connotazione emulativa e pretestuosa, anche in assenza della violazione di specifiche norme attinenti alla tutela del lavoratore subordinato.

Nella specie, la Corte territoriale ha preso in esame l’insieme dei comportamenti del datore di lavoro dedotti come lesivi dalla ricorrente, escludendone ogni intento persecutorio o emulativo, sia con riferimento agli episodi collegati, secondo l’assunto, all’insorgenza delle “prime manifestazioni patologiche sia con riferimento agli episodi successivi, osservando, quanto a questi ultimi, che dalle risultanze istruttorie non era emersa l’esistenza di comportamenti connotati da carattere persecutorio nei confronti della dipendente e che gli unici episodi, comunque marginali ed isolati, rispetto ai quali poteva essere espresso un giudizio di biasimo (lancio dello stipendio sul tavolo, consegna della retribuzione in un sacco di monetine) si erano verificati “in tempi di molto successivi all’inizio della manifestazione delle patologie, quando la P. non andava più a lavorare e si recava in agenzia solo per ritirare lo stipendio …”, sì che, valutate tutte le circostanze sopra indicate, doveva escludersi che fosse stata raggiunta la prova di un atteggiamento emarginante, discriminatorio o persecutorio nei confronti della lavoratrice.

Si tratta di una valutazione di fatto, devoluta al giudice del merito, non censurabile nel giudizio di cassazione in quanto comunque assistita da motivazione sufficiente e non contraddittoria; anche perchè la ricorrente non ha riportato in ricorso il contenuto delle deposizioni testimoniali delle quali assume essere stato omesso ogni esame (tranne quello di una deposizione, che tuttavia non appare decisiva ai fini della collocazione temporale degli episodi di cui si discute) e non ha neppure indicato quali sarebbero gli elementi che la Corte territoriale avrebbe trascurato di esaminare (in conseguenza della erronea interpretazione degli atti di causa, denunciata con il primo motivo) e che avrebbero dovuto orientare la decisione in senso diverso, sicchè le censure espresse nei primi due motivi di ricorso – al di là della loro corretta impostazione in diritto circa la definizione dei comportamenti che possono integrare in astratto la fattispecie del mobbing – rimangono poi confinate ad una mera contrapposizione rispetto alla valutazione di merito operata dalla Corte d’appello, inidonea a radicare un deducibile vizio di motivazione di quest’ultima. Deve ribadirsi, al riguardo, che, come è stato più volte affermato da questa Corte, la deduzione di un vizio di motivazione della sentenza impugnata con ricorso per cassazione conferisce al giudice di legittimità non il potere di riesaminare il merito dell’intera vicenda processuale sottoposta al suo esame, bensì la sola facoltà di controllo, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico – formale, delle argomentazioni svolte dal giudice di merito, al quale spetta, in via esclusiva, il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di assumere e valutare le prove e di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad esse sottesi, senza essere tenuto ad un’esplicita confutazione degli altri elementi probatori non accolti, anche se allegati dalle parti. Il vizio di omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione denunciabile con ricorso per cassazione ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5, ricorre, dunque, soltanto quando nel ragionamento del giudice di merito sia riscontrabile il mancato o insufficiente esame di punti decisivi della controversia, prospettati dalle parti o rilevabili d’ufficio, ovvero un insanabile contrasto tra le argomentazioni adottate, tale da non consentire l’identificazione del procedimento logico-giuridico posto a base della decisione, mentre tale vizio non si configura allorchè il giudice di merito abbia semplicemente attribuito agli elementi valutati un valore e un significato diversi dalle aspettative e dalle deduzioni di parte (cfr. ex plurimis Cass. n. 10657/2010, Cass. n. 9908/2010, Cass. n. 27162/2009, Cass. n. 16499/2009, Cass. n. 13157/2009, Cass. n. 6694/2009, Cass. n. 42/2009, Cass. n. 17477/2007, Cass. n. 15489/2007, Cass. n. 7065/2007, Cass. n. 1754/2007, Cass. n. 14972/2006, Cass. n. 17145/2006, Cass. n. 12362/2006, Cass. n. 24589/2005, Cass. n. 16087/2003, Cass. n. 7058/2003, Cass. n. 5434/2003, Cass. n. 13045/97, Cass. n. 3205/95).

6.- Il primo ed il secondo motivo vanno, pertanto, rigettati.

7.- Anche il terzo motivo, con il quale, sostanzialmente, si contesta una non corretta interpretazione delle domande formulate con l’atto introduttivo e della normativa in esso richiamata, deve essere respinto. Invero, anche a prescindere dalla pur di per sè assorbente considerazione che la ricorrente non riporta puntualmente nel ricorso per cassazione il contenuto integrale dell’atto introduttivo (non essendo sufficiente il richiamo di alcuni passi del ricorso ex art. 414 c.p.c. o la riproduzione in forma indiretta dello stesso atto contenuta nelle premesse del ricorso per cassazione), nè gli esatti termini in cui la domanda è stata riproposta in appello, va rilevato che nel ricorso non vengono neppure indicate le norme che la Corte territoriale avrebbe violato nell’interpretazione di una domanda che pure, anche secondo la ricorrente, era diretta a sostenere la sussistenza del mobbing e che negli stessi termini, a quanto si legge nella motivazione della sentenza impugnata, sarebbe stata riprodotta nel grado di appello; e tutto ciò senza considerare che l’interpretazione della domanda e l’apprezzamento della sua ampiezza, oltre che del suo contenuto, costituiscono, anche nel giudizio di appello, ai fini della individuazione del devolutum, un tipico apprezzamento di fatto riservato al giudice del merito e, pertanto, insindacabile in sede di legittimità, se non sotto il profilo dell’esistenza, sufficienza e logicità della motivazione (Cass. n. 20373/2008, Cass. n. 19475/2005).

8.- Al rigetto del terzo motivo consegue logicamente l’assorbimento del quarto e del quinto motivo, con i quali si deduce il difetto di motivazione in ordine alla domanda di risarcimento del danno con riferimento alla responsabilità sia contrattuale che extracontrattuale, trattandosi di motivi che ripropongono, sotto diverso profilo, le stesse censure del motivo precedente e che incorrono, dunque, per come formulati, negli stessi rilievi.

9.- Il ricorso va quindi rigettato.

10.- Stante il mancato svolgimento di attività difensiva da parte dell’intimata, non deve provvedersi in ordine alle spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.

LA CORTE rigetta il ricorso; nulla sulle spese.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 29 marzo 2011.

Depositato in Cancelleria il 31 maggio 2011

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