Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 12047 del 31/05/2011

Cassazione civile sez. lav., 31/05/2011, (ud. 29/03/2011, dep. 31/05/2011), n.12047

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MIANI CANEVARI Fabrizio – Presidente –

Dott. BANDINI Gianfranco – Consigliere –

Dott. ZAPPIA Pietro – Consigliere –

Dott. FILABOZZI Antonio – rel. Consigliere –

Dott. TRIA Lucia – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

EISMANN S.R.L., in persona del legale rappresentante pro tempore,

elettivamente domiciliata in ROMA, LUNGOTEVERE MICHELANGELO 9, presso

lo studio dell’avvocato MITTIGA ZANDRI PATRIZIA, che la rappresenta e

difende unitamente all’avvocato REGIS MAURO, giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

N.S., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA XX

SETTEMBRE 26, presso lo studio dell’avvocato GAGLIASSO LOREDANA, che

lo rappresenta e difende, giusta delega in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 50/2007 della CORTE D’APPELLO di TORINO,

depositata il 24/01/2007 r.g.n. 2129/05;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

29/03/2011 dal Consigliere Dott. ANTONIO FILABOZZI;

udito l’Avvocato MITTIGA ZANDRI PATRIZIA;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

BASILE Tommaso, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

N.S. ha convenuto in giudizio davanti al Tribunale di Torino la società Eismann srl chiedendo che venisse accertata l’esistenza tra le parti di un rapporto di lavoro subordinato avente ad oggetto lo svolgimento dell’attività di venditore a domicilio, con la condanna della convenuta alla corresponsione delle relative differenze retributive ed alla restituzione degli importi da essa trattenuti per l’uso dell’automezzo di proprietà aziendale.

Il Tribunale ha respinto la domanda con decisione che la Corte di Appello di Torino ha riformato, dichiarando l’esistenza tra le parti di un rapporto di lavoro subordinato dal giugno 1993 al gennaio 1999 e condannando la società alla conseguente regolarizzazione contributiva, nonchè alla restituzione degli importi trattenuti per l’uso dell’automezzo di proprietà aziendale. A tali conclusioni la Corte territoriale è pervenuta ritenendo che nell’attività di venditore a domicilio svolta dal N. nel periodo sopra indicato fossero ravvisabili gli elementi caratteristi ci del rapporto di lavoro subordinato, essendosi l’attività svolta con il pieno inserimento del lavoratore nell’organizzazione aziendale e l’assoggettamento dello stesso al potere di direzione e di controllo del datore di lavoro, con obbligo di osservare un preciso orario di lavoro, di attenersi alle indicazioni fornitegli dalla società circa i clienti da visitare e di segnalare le assenze con un giorno di anticipo.

Avverso tale sentenza ricorre per cassazione la società Eismann affidandosi a due motivi di ricorso cui resiste con controricorso il N..

La società ha depositato memoria ai sensi dell’art. 378 c.p.c..

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1.- Con il primo motivo la ricorrente denuncia errata applicazione delle norme in materia di valutazione dell’attendibilità delle prove testimoniali, formulando il seguente quesito di diritto: “è ammissibile, da parte del giudice di merito, l’utilizzo di risultanze testimoniali rese da soggetti che abbiano dichiarato, nel corso delle rispettive deposizioni, di aver già promosso, o di stare per promuovere, nei confronti di quella, tra le parti in causa, contro cui sono stati chiamati a deporre, un giudizio su questione analoga a quella intorno alla quale depongono? E’, poi, corretto, dal punto di vista logico-giuridico, motivare, intorno a questa, peraltro parzialmente riconosciuta, causa di inattendibilità, affermando che in ogni caso le deposizioni concordano?”.

2.- Con il secondo motivo si deduce errata applicazione degli artt. 2094 e 2222 c.c., in particolare degli indici finalizzati ad individuare il carattere della subordinazione, nonchè errata disapplicazione del dato testuale adottato contrattualmente dalle parti, sull’assunto che la Corte d’Appello non avrebbe compiuto un’opera rigorosa di valutazione di tutti gli elementi fattuali posti al suo esame, soffermandosi solo su alcuni di essi e trascurandone altri, e si propone il seguente quesito di diritto: “è corretto, dal punto di vista logico – giuridico, occuparsi della ricerca di alcuni soltanto, tra gli indici rivelatori del carattere subordinato di un rapporto di lavoro, trascurando elementi che attestino la presenza di indici di senso contrario, omettendo, quindi, una valutazione ponderata del peso reciproco degli indici stessi, ed omettendo di applicare, in assenza di univocità, il dato testuale del nomen iuris che le parti abbiano contrattualmente attribuito al rapporto?”.

3.- Il primo motivo è infondato. Questa Corte ha ripetutamente affermato che, in tema di prova, spetta in via esclusiva al giudice di merito il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di assumere e valutare le prove, di controllarne l’attendibilità e la concludenza, di scegliere tra le complessive risultanze del processo quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad esse sottesi, assegnando prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova acquisiti, nonchè di escludere anche attraverso un giudizio implicito la rilevanza di una prova, dovendosi ritenere, a tal proposito, che egli non sia tenuto ad esplicitare, per ogni mezzo istruttorio, le ragioni per cui lo ritenga irrilevante ovvero ad enunciare specificamente che la controversia può essere decisa senza necessità di ulteriori acquisizioni (cfr. ex plurimis, Cass. n. 16499/2009). Per quanto riguarda la valutazione della prova testimoniale, si è precisato che la valutazione delle risultanze delle prove e il giudizio sull’attendibilità dei testi e sulla credibilità di alcuni invece che di altri, come la scelta, tra le varie risultanze probatorie, di quelle ritenute più idonee a sorreggere la motivazione, involgono apprezzamenti di fatto riservati al giudice di merito, il quale è libero di attingere il proprio convincimento da quelle prove che ritenga più attendibili, senza essere tenuto ad un’esplicita confutazione degli altri elementi probatori non accolti, anche se allegati dalle parti (Cass. n. 42/2009, Cass. n. 21412/2006, Cass. n. 4347/99, Cass. n. 3498/94). Anche la valutazione della sussistenza o meno dell’interesse che da luogo ad incapacità a testimoniare, ai sensi dell’art. 246 c.p.c., è rimessa – così come quella inerente all’attendibilità dei testi e alla rilevanza delle deposizioni – al giudice di merito, ed è insindacabile in sede di legittimità se congruamente motivata (Cass. n. 1188/2007, Cass. n. 1101/2006, Cass. n. 15526/2000, Cass. n. 13567/99). Tale interesse non si identifica con l’interesse di mero fatto, che un testimone può avere a che venga decisa in un certo modo la controversia in cui esso è stato chiamato a deporre, pendente fra altre parti, ma identica a quella vertente tra lui ed un altro soggetto, e ciò anche se quest’ultimo sia, a sua volta, parte del giudizio in cui al deposizione deve essere resa (Cass. n. 9650/2003, Cass. n. 8605/95). Ne consegue che la circostanza che penda una diversa, anche se analoga, controversia tra un teste e una delle parti in causa non vale a determinare la sussistenza di un interesse del teste nella causa nella quale deve deporre, nè comporta di per sè la sua incapacità a testimoniare o l’inutilizzabilità della testimonianza assunta (Cass. n. 9832/98, Cass. n. 1887/97), mentre la valutazione delle risultanze della prova testimoniale e il giudizio sull’attendibilità del teste involgono, come già detto, un apprezzamento di fatto riservato al giudice di merito (Cass. n. 9652/2003).

Non si è discostata da tali principi la Corte territoriale con l’affermazione che “la maggior parte” dei testimoni, colleghi di lavoro del N., aveva dichiarato di avere in corso o di avere intenzione di promuovere una causa analoga nei confronti della società Eismann, ma che tale circostanza non diminuiva il grado di attendibilità dei testimoni medesimi, data la univocità delle loro dichiarazioni e la mancanza di precise elementi di segno opposto nelle altre deposizioni.

Le contrarie affermazioni della società ricorrente, secondo cui la concordanza delle deposizioni non eliminerebbe di per sè i dubbi relativi alla credibilità di queste ultime, si risolvono nella contestazione diretta (inammissibile in questa sede) del giudizio di merito, giudizio che risulta motivato in modo sufficiente e logico con riferimento, come sopra detto, sia alla univocità delle dichiarazioni rese dai testimoni che alla mancanza di elementi di segno contrario rinvenibili nelle altre deposizioni; anche perchè la società ricorrente non ha riportato in ricorso il contenuto integrale delle deposizioni di cui si discute, limitandosi in definitiva ad una critica che si risolve in una mera contrapposizione rispetto alla valutazione di merito operata dalla Corte d’appello, inidonea a radicare un deducibile vizio di legittimità di quest’ultima.

4.- Il secondo motivo deve ritenersi inammissibile per mancanza dei requisiti prescritti dall’art. 366 bis c.p.c., applicabile ratione temporis alla fattispecie in esame.

5.- Ai sensi dell’art. 366 bis c.p.c., applicabile ai ricorsi per cassazione proposti avverso le sentenze e gli altri provvedimenti pubblicati a decorrere dalla data di entrata in vigore del D.Lgs. n. 40 del 2006, e quindi anche al ricorso in esame, nei casi previsti dall’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 1), 2), 3) e 4), l’illustrazione di ciascun motivo si deve concludere, a pena d’inammissibilità, con la formulazione di un quesito di diritto, che deve essere idoneo a far comprendere alla S.C., dalla lettura del solo quesito, inteso come sintesi logico – giuridica della questione, l’errore di diritto asseritamente compiuto dal giudice di merito e quale sia, secondo la prospettazione del ricorrente, la regola da applicare (Cass. n. 8463/2009). Per la realizzazione di tale finalità, il quesito deve contenere la riassuntiva esposizione degli elementi di fatto sottoposti al giudice di merito, la sintetica indicazione della regola di diritto applicata dal giudice a quo e la diversa regola di diritto che, ad avviso del ricorrente, si sarebbe dovuto applicare alla fattispecie. Nel suo contenuto, inoltre, il quesito deve essere caratterizzato da un sufficienza dell’esposizione riassuntiva degli elementi di fatto ad apprezzare la sua necessaria specificità e pertinenza e da una enunciazione in termini idonei a consentire che la risposta ad esso comporti univocamente l’accoglimento o il rigetto del motivo al quale attiene (Cass. n. 5779/2010, Cass. n. 5208/2010).

Anche nel caso in cui venga dedotto un vizio di motivazione (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), l’illustrazione del motivo deve contenere, a pena d’inammissibilità, la “chiara indicazione del fatto controverso in relazione al quale la motivazione si assume omessa o contraddittoria, ovvero le ragioni per le quali la dedotta insufficienza della motivazione la rende inidonea a giustificare la decisione”. Ciò comporta, in particolare, che la relativa censura deve contenere un momento di sintesi (omologo del quesito di diritto) che ne circoscriva puntualmente i limiti, in maniera da non ingenerare incertezze in sede di formulazione del ricorso e di valutazione della sua ammissibilità. Al riguardo, inoltre, non è sufficiente che tale fatto sia esposto nel corpo del motivo o che possa comprendersi dalla lettura di questo, atteso che è indispensabile che sia indicato in una parte del motivo stesso, che si presenti a ciò specificamente e riassuntivamente dedicata (cfr.

ex plurimis, Cass. n. 8555/2010, Cass. sez. unite n. 4908/2010, Cass. n. 16528/2008, Cass. n. 8897/2008, Cass. n. 16002/2007).

6.- Questa Corte ha più volte ribadito che, nel vigore dell’art. 366 bis c.p.c., non può ritenersi sufficiente – perchè possa dirsi osservato il precetto di tale disposizione – la circostanza che il quesito di diritto possa implicitamente desumersi dall’esposizione del motivo di ricorso, nè che esso possa consistere o ricavarsi dalla formulazione del principio di diritto che il ricorrente ritiene corretto applicarsi alla specie. Una siffatta interpretazione della norma positiva si risolverebbe, infatti, nella abrogazione tacita dell’art. 366 bis, secondo cui è invece necessario che una parte specifica del ricorso sia destinata ad individuare in modo specifico e senza incertezze interpretative la questione di diritto che la S.C. è chiamata a risolvere nell’esplicazione della funzione nomofilattica che la modifica di cui al D.Lgs. n. 40 del 2006 ha inteso valorizzare (Cass. n. 5208/2010, Cass. n. 20409/2008). E’ stato altresì precisato che il quesito deve essere formulato in modo tale da consentire l’individuazione del principio di diritto censurato posto dal giudice a quo alla base del provvedimento impugnato e, correlativamente, del principio, diverso da quello, la cui auspicata applicazione da parte della S.C. possa condurre a una decisione di segno inverso; ove tale articolazione logico-giuridica mancasse, infatti, il quesito si risolverebbe in una astratta petizione di principio, inidonea sia a evidenziare il nesso tra la fattispecie e il principio di diritto che si chiede venga affermato, sia ad agevolare la successiva enunciazione di tale principio a opera della S.C. in funzione nomofilattica. Il quesito, pertanto, non può consistere in una mera richiesta di accoglimento del motivo o nell’interpello alla S.C. in ordine alla fondatezza della censura, ma deve costituire la chiave di lettura delle ragioni esposte e porre la S.C. in condizione di rispondere a esso con la enunciazione di una regula iuris che sia, in quanto tale, suscettibile di ricevere applicazione in casi ulteriori rispetto a quello sottoposto all’esame del giudice che ha pronunciato la sentenza impugnata (Cass. sez. unite n. 27368/2009); per gli stessi motivi, il quesito di diritto non può mai risolversi nella generica richiesta rivolta alla S.C. di stabilire se sia stata violata o meno una certa norma, nemmeno nel caso in cui il ricorrente intenda dolersi dell’omessa applicazione di tale norma da parte del giudice di merito, e deve investire la ratio decidendi della sentenza impugnata, proponendone una alternativa e di segno opposto (Cass. n. 1285/2010, Cass. n. 4044/2009).

7.- Nella specie, il quesito formulato da parte ricorrente a chiusura del secondo motivo, come sopra riportato, non risulta in alcun modo adeguato a recepire l’iter argomentativo che supporta le relative censure, in quanto non individua in alcun modo il principio di diritto posto dal giudice a quo alla base del provvedimento impugnato, nè propone un principio diverso e alternativo rispetto a quello applicato dal giudice di merito, ma si limita inammissibilmente ad una generica richiesta rivolta a questa Corte per stabilire se, nell’indagine volta ad accertare il carattere subordinato o meno di un determinato rapporto di lavoro, sia corretto, dal punto di vista logico – giuridico, privilegiare l’esame di “alcuni” soltanto tra gli indici rilevanti ai fini della qualificazione del rapporto, trascurandone altri di segno contrario – ed omettendo così una valutazione ponderata degli indici stessi e, tra questi, della qualificazione del rapporto compiuta dalle parti – senza indicare tuttavia quali sarebbero gli elementi la cui importanza sarebbe stata sopravvalutata dal giudice di merito, quali gli elementi trascurati e quale il “peso” che dovrebbe attribuirsi in concreto agli uni e agli altri nella vicenda in esame.

Di qui l’inammissibilità del secondo motivo.

8.- Il ricorso deve quindi essere respinto.

9.- Le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza.

P.Q.M.

LA CORTE rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio liquidate in Euro 20,00 oltre Euro 2.500,00 per onorari, oltre IVA, CPA e spese generali.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 29 marzo 2011.

Depositato in Cancelleria il 31 maggio 2011

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