Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 12035 del 17/05/2010

Cassazione civile sez. II, 17/05/2010, (ud. 14/04/2010, dep. 17/05/2010), n.12035

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SCHETTINO Olindo – Presidente –

Dott. PICCIALLI Luigi – rel. Consigliere –

Dott. MAZZACANE Vincenzo – Consigliere –

Dott. MIGLIUCCI Emilio – Consigliere –

Dott. CORRENTI Vincenzo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

M.R. (OMISSIS), quale acquirente del complesso

immobiliare ristorante “(OMISSIS)”, facente parte del Condominio il

“(OMISSIS)”, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA CLAUDIO

MONTEVERDI

15, presso lo studio dell’avvocato AGATI FRANCESCO, che la

rappresenta e difende unitamente agli avvocati RAFFAELE TOMMASINI,

TROJA SANDRO;

– ricorrente –

contro

CONDOMINIO IL (OMISSIS) (OMISSIS), in

persona dell’Amministratore C.R., elettivamente

domiciliata in ROMA, VIA LEVICO 9, presso lo studio dell’avvocato

FABRIZIO GIANCARLO, che la rappresenta e difende unitamente

all’avvocato BATTIATO GIACOMO;

– controricorrente –

e contro

SOCIETA’ IMMOBILIARE LOMBARDA GIA’ FROGESTIM SPA;

– intimato –

avverso la sentenza n. 90/2004 della CORTE D’APPELLO di CATANIA,

depositata il 31/01/2004;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

14/04/2010 dal Consigliere Dott. LUIGI PICCIALLI;

uditi gli Avvocato AGATI Francesco, TOMMASINI Raffaele, difensori

della ricorrente che hanno chiesto l’accoglimento del ricorso;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

MARINELLI Vincenzo che ha concluso per l’accoglimento del ricorso per

quanto di ragione.

 

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con atto di citazione notificato il 5.10.85 il condominio “(OMISSIS)” sito in (OMISSIS) citò a giudizio del Tribunale di Messina la società “Capotaormina” s.p.a. proprietaria di una delle unità immobiliari, adibita a ristorante denominato “(OMISSIS)”, del complesso, per il resto costituito da ventiquattro immobili adibiti ad uso abitativo, al fine di sentir dichiarare l’esistenza di un vincolo di natura reale, derivante dal regolamento contrattuale, comportante la necessaria destinazione a ristorante dei locali di proprietà della convenuta e, in subordinerei” l’ipotesi di insussistenza di tale vincolo, dichiararsi che a carico del condominio ed in favore dell’immobile suddetto non gravavano gli obblighi, segnatamente relativi all’uso per il transito ed il parcheggio della clientela del ristorante di alcune parti del condominio, indicati nel regolamento. La richiesta principale era giustificata dall’intento di opporsi al cambio di destinazione d’uso, da commerciale ad abitativo, in quanto aggravante impianti comuni e comportante un pregiudizievole incremento della densità abitativa del complesso, per cui la società aveva ottenuto una concessione comunale; quella subordinata, dall’assenza di un’attuale utilità nell’esercizio delle suddette facoltà di uso. Si costituì la convenuta resistendo alle domande, che furono entrambe rigettate dal Tribunale con sentenza del 7.2.90, appellata dal condominio, con resistenza della società appellata;tale decisione fu parzialmente riformata, all’esito della disposta consulenza tecnica, dalla locale Corte d’Appello, con sentenza dell’8.10.96, con la quale venne dichiarato estinto il diritto di servitù in favore del ristorante “(OMISSIS)” gravante, a norma degli artt. 6 e 9 del regolamento contrattuale, su alcuni beni del complesso. Ma a seguito del ricorso della società Capotaormina, resistito dal condominio, questa Corte, con sentenza n. 14601 del 28.12.99, in accoglimento del terzo ed assorbente motivo, cassava con rinvio alla Corte d’Appello di Catania la suddetta decisione, per malgoverno dell’art. 1074 c.c. e difetto di motivazione, nella parte in cui aveva ritenuto di poter dichiarare, indipendentemente dal decorso del ventennio e senza neppure accertare se si trattasse di un’ipotesi di quiescenza della servitù, estinto il relativo diritto sulla base di una supposta non irreversibile cessazione dell’utilitas.

Riassunto il giudizio dal condominio, che proponeva in via principale domanda di estinzione per non uso ed in subordine di dichiarare “la stessa servitù quiescente e quindi non esercitabile”, costituitasi e resistendo la “Progestim” s.p.a. quale società incorporante l’originaria convenuta, con sentenza 30.12.03-31.1.04 la Corte d’Appello di Catania, ritenuta inammissibile la richiesta principale, in quanto domanda nuova proposta per la prima volta in sede di rinvio, accoglieva, nei termini di seguito precisati quella subordinata, e condannava la Progestim al pagamento dei due terzi delle spese di tutti i gradi del processo, compensandole per il resto. La corte etnea, premesso che nei precedenti gradi di merito non vi era stato alcun accenno da parte attrice al mancato uso della servitù, ma solo all’attuale mancanza di utilità ed all’aggravamento, dichiarava “ancora esistenti in favore del ristorante (OMISSIS), anche se in stato di quiescenza, le servitù gravanti sui beni condominiali indicati negli artt. 6 e 9 del Regolamento del Complesso condominiale, le quali potranno essere esercitate con esclusivo riferimento all’attività originariamente prevista nel citato Regolamento e fino alla maturazione della prescrizione ventennale”. I giudici di rinvio giustificavano quest’ultima statuizione con il rilievo che i locali della società Progestim, nonostante il progettato cambio di destinazione, erano di fatto rimasti nell’originaria consistenza, sicchè non poteva escludersi una futura riapertura del ristorante, mentre in assenza del decorso del ventennio non era configurabile l’estinzione della servitù e l’ipotesi della rinuncia volontaria da parte della società era rimasta sfornita di prova.

Avverso tale sentenza ha proposto ricorso per cassazione basato su sei motivi e successiva memoria illustrativa, la signora M. R., nella qualità di acquirente, per atto pubblico del 23.12.02.

dell’immobile adibito a ristorante “(OMISSIS)” ha resistito con controricorso, illustrato da successiva memoria, il condominio (OMISSIS); questa Corte ha disposto, con ordinanza ex art. 331 c.p.c., del 30.9.09 l’integrazione del contraddittorio nei confronti della società Progestim.

L’atto d’integrazione del contraddittorio è stato, quindi, dalla ricorrente notificato, entro il termine assegnato alla “Progestim p.a. oggi Immobiliare Lombarda s.p.a. “nella sua sede di Milano, che non si è costituita. La difesa della ricorrente ha, infine, depositato una seconda memoria illustrativa.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Nonostante l’invalidità, sotto un duplice profilo, dell’integrazione del contraddittorio, che è stata eseguita mediante notifica non nel domicilio elettivo del giudizio a quo, presso uno dei due legali che aveva rappresentato e difeso la società Progestim in grado di appello (sulla necessità che siffatte notificazioni siano eseguite presso tale domicilio, allorquando l’impugnazione sia stata proposta entro il termine annuale, così riattivando il rapporto processuale con conseguente ininfluenza del successivo decorsogli atto dell’integrazione ex art. 331 c.p.c., dell’anno dalla pubblicazione della sentenza agli effetti della notifica personale prevista dall’art. 330 u.c. c.p.c., v. tra le altre Cass. 110076/02, 5023/01, 966/83, 5004/79) e, per di più, senza in alcun modo documentare l’assunta identità tra la suddetta società, con sede in Torino, già parte in causa nel giudizio di rinvio, e quella diversamente denominata, corrente in Milano, presso la quale è stata eseguita la notifica, ritiene la Corte di dover tuttavia considerare ammissibile il ricorso, ancorchè i contraddittorio non sia stato esteso, nel presente giudizio, alla società Progestim.

Al caso di specie, infatti, ben si attaglia il principio, ormai costante nella giurisprudenza di questa Corte, secondo cui è valido il giudizio d’impugnazione svoltosi senza integrare il contraddittorio nei confronti dell’alienante del diritto controverso, ma con la partecipazione del successore a titolo particolare, allorquando il primo, non impugnando la sentenza, abbia dimostrato il suo disinteresse al gravame e l’altra parte (come nella specie il condominio resistente) non abbia formulato eccezioni al riguardo ed accettato il contraddittorio nei confronti della nuova parte, poichè tutti tali elementi integrano i presupposti per l’estromissione dal giudizio suddetto del precedente contraddittore, ex art. 111 c.p.c., comma 3, u.p., pur senza un formale provvedimento, con conseguente cessazione della qualità di litisconsorte necessario di tale parte originaria (tra le altre, v Cass. 6530/00, 19072/03, 10577/07, 8395/09).

Con il primo motivo di ricorso si deduce omessa o insufficiente motivazione su punto decisivo, per non aver la corte di rinvio in alcun modo motivato l’affermazione secondo cui le servitù esistenti a favore del complesso immobiliare “(OMISSIS)” avrebbero potuto essere nuovamente esercitate solo nell’ipotesi di ripresa dell’attività di ristorazione. La questione della natura “industriale” delle servitù, per essere l’utilitas “integrata dalla maggiore amenità e accessibilità del ristorante con conseguente incremento della clientela anche via mare”, come affermato dalla corte messinese nella sentenza d’appello, sarebbe rimasta impregiudicata, tenuto conto della natura assorbente, rispetto agli altri, del motivo di ricorso accolto da questa Corte.

La censura non merita accoglimento, poichè la suddetta natura, derivante dalla stretta correlazione tra l’attività imprenditoriale di ristorazione esercitata nell’immobile dominante e l’utilità della servitù, concepita secondo il titolo proprio in funzione del particolare vantaggio che il parcheggio della clientela e l’accesso al mare avrebbero assicurato a detta concreta attività, ha costituito il presupposto sulla base del quale la sentenza rescindente ha demandato al giudice di rinvio, sulla scorta della norma dettata dall’art. 1074 c.c. (secondo cui il solo venir meno dell’utilità non è sufficiente a determinare l’estinzione della servitù, se non sia anche decorso il termine ventennale di non esercizio), di accertare se il diritto reale de gito fosse effettivamente estinto per non uso ventennale, o semplicemente quiescente, con possibilità di reviviscenza, previa valutazione della concreta “situazione di fatto”. Ed al riguardo questa Corte, osservando (a pag. 5, pen. cpv)) che “in realtà non appare impraticabile l’ipotesi di riapertura del ristorante .. nè in fatto nè in diritto …”, ha chiaramente posto, quale punto fermo della vertenza, il dato secondo cui a tale attività era correlata l’utilitas della servitù in questione, sol rimettendo al giudice di rinvio il compito di accertare la concreta situazione di fatto, in relazione a quella “avvenuta trasformazione del fondo dominante, tale da rendere la funzione economico-sociale del bene incompatibile con quella anteatta” (v. pag. 5. primo cpv.), accertando se nella specie la cessazione dell’attività si fosse protratta per venti anni, fosse ancora attuale o fosse a sua volta venuta meno in relazione a quella non esclusa possibilità di ripresa. Non era pertanto necessario, da parte del giudice di rinvio, che in ipotesi di cassazione della sentenza precedente ex art. 360 c.p.c., n. 3, è vincolato anche ai presupposti di fatto e di diritto sulla base dei quali è stata pronunziata la decisione rescindente (tra le altre v. Cass. 11939/06, 22553/04, 14075/02, 11650/02, 9553702), un nuovo accertamento e, dunque, una specifica motivazione sulla particolare utilitas caratterizzante la servitù, costituendo quella, nella specie correlata alla particolare destinazione del fondo dominante, un necessario antecedente logico – giuridico del principio affermato nella pronunzia di legittimità e calato nel caso, alla stregua del quale la corte catanese avrebbe solo potuto stabilire se la servitù si fosse estinta o si trovasse soltanto in stato di quiescenza.

Con il secondo motivo si deduce omessa e insufficiente motivazione su punto decisivo per non avere la corte catanese spiegato perchè, pur in assenza di un mutamento dello stato dei luoghi, dovuto a fatto naturale o ad uno dei proprietari dei fondi, dominante o servente, tale da determinare “l’impossibilità di fatto di usare della servitù “ai sensi dell’art. 1074 c.c., la semplice decisione dei responsabili della società convenuta di sospendere l’attività di ristorazione avrebbe reso di fatto impossibile l’esercizio delle servitù o fatto venire meno la relativa utilità. Con il terzo motivo, al precedente strettamente connessoci deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 1074 c.c. e dell’art. 384 c.p.c., lamentando che la corte etnea, applicando erroneamente il principio di diritto contenuto nella pronunzia di legittimità, limitante, in osservanza al dettato della citata norma sostanziale, indagine al “mutamento della situazione dei luoghi” avrebbe indebitamente ravvisato la quiescenza della servitù nella temporanea cessazione dell’attività del ristorante, di per sè non integrante una oggettiva modifica dello stato di fatto, tale da comportare il venir meno dell’utilitas.

Neppure tali motivi, che per l’evidenziata correlazione vanno esaminati congiuntamente, meritano accoglimento.

Va anzitutto precisato che la pronunzia di legittimità non ha limitato l’indagine del giudice di merito alla sola valutazione della situazione dei luoghi, con stretto e materiale riferimento a quella topografica, bensì, coerentemente al dettato normativo, alla “situazione di fatto”, vale a dire alla presenza o meno di tutte quelle condizioni in considerazione delle quali, secondo il titolo, la servitù era stata costituita ed avrebbe potuto essere esercitata.

La tesi sostenuta, secondo cui solo i mutamenti dello stato dei luoghi, dovuti a fatti naturali o umani, avrebbero spiegato rilevanza ai fini dell’art. 1074 c.c., risulta ingiustificatamente limitativa, non tenendo conto che, come pur si è precisato nella sentenza rescindente, l’eventuale sopravvenuta trasformazione del fondo dominante avrebbe dovuto essere presa in considerazione in relazione alla “funzione economico – sociale del bene”, onde stabilire se la stessa, così come prevista nel titolo, fosse durata per il tempo necessario a far estinguere .la servitù o soltanto e di fatto temporaneamente verificatasi, si da dar luogo alla situazione di quiescenza.

In altri termini, anche in cospetto di una situazione, che sotto i profili naturale e topogratico, sia rimasta immutata, nel caso in cui l’utilitas sia stata prevista in funzione di una specifica modalità di utilizzazione del fondo dominante, in cospetto di una stasi di quest’ultima per un’apprezzabile durata di tempo (ancorchè non protratta per un ventennio, nè irreversibile), si verifica una situazione di fatto comportante il venir meno dell’utilità e pertanto, quel particolare stato, la “quiescenza”, del diritto di servitù in costanza del quale, come questa Corte ha avuto modo di precisare, le facoltà di esercizio del diritto reale in questione restano sospese, considerato che, se il titolare potesse continuare ad esercitarlo, pur in assenza della specifica utilitas connotante la servitù, verrebbe così ad esercitare un diritto diverso da quello originario (v. Cass. 1854/06, 10018/97).

Con il quarto motivo si lamenta che, in violazione degli artt. 99 e 112 c.p.c., la corte di rinvio abbia accolto una domanda, quella di declaratoria di quiescenza della servitù, che la parte attrice non avrebbe mai proposto in precedenza, introducendola soltanto “in maniera ambigua e capziosa” nell’atto di riassunzione. Con il quinto motivo si deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c., per vizio di ultra petizione, essendo stata addirittura accolta una richiesta mai proposta dalla controparte, quella di dichiarare le servitù previste dal regolamento esercitabili solo con esclusivo riferimento all’attività di ristorante.

I motivi, strettamente connessi, sono privi di fondamento.

La parte attrice aveva infatti chiesto, fin dal primo grado, la dichiarazione di estinzione (erroneamente accolta dalla corte messinese per il solo fatto del cambio di destinazione del fondo dominante, comportante il venir meno dell’utilità) delle servitù conseguentemente, la declaratoria di non esercitabilità delle stesse. Rispetto a tale domanda quella di dichiarare lo stato di “quiescenza” (per l’ipotesi, di accertata temporanea cessazione dell’utilitas), peraltro imposta ex art. 384 c.p.c., dalla pronunzia di legittimità, quale sola alternativa alla pronunzia di estinzione (per il diverso caso di accertata protrazione per un ventennio del non uso), rappresentava con tutta evidenza un minus, logicamente e giuridicamente compreso, relativamente sia al petitum, sia alla causa petendi (vale a dire alla prospettazione dei fatti giuridicamente rilevanti dedotti a sostegno della domanda) nella suddetta più ampia e radicale pretesa; analogamente, la dichiarazione di temporanea non esercitabilità era da considerarsi, per il medesimo principio logico- giuridico, compresa nella più ampia richiesta di definitiva inibizione all’esercizio del diritto reale in contestazione.

Infondato è, infine, anche l’ultimo motivo, con il quale si censura, per violazione e falsa, applicazione dell’art. 91 c.p.c., la condanna della Progestim al rimborso dei due terzi delle spese di tutte i gradi del giudizio, per il resto compensate, senza tener conto del rigetto di tutte le altre richieste della parte attrice.

I giudici di rinvio, con incensurabile valutazione discrezionale di merito e senza incorrere in malgoverno del principio della soccombenza dettato dal sopra citato articolo (che, per costante indirizzo della giurisprudenza di questa Corte è violato solo nei casi in cui la parte totalmente vittoriosa sia condannatala pur in parte, al pagamento delle spese: v. tra le tante, Cass. 4201/02, 12295/01, 8532/00) hanno ritenuto di contenere nella misura di un terzo la compensazione, ex art. 92 c.p.c., comma cit., delle spese, in ragione del non integrale accoglimento delle richieste di parte attrice, al riguardo tenendo conto dell’esito complessivo e Finale della controversia e del principio di causalità, posto a base dell’art. 91 c.p.c., considerato che all’origine della lite vi era stata prestata di esercizio delle servitù in questione, anche in temporanea assenza dell’utilità connotante le stesse.

Il ricorso va, conclusivamente, respinto, con condanna della ricorrente alle spese del presente giudizio.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al rimborso, in favore del resistente, delle spese del presente giudizio, liquidate in complessivi Euro 3.200,00 di cui Euro 200,00 per esborsi.

Così deciso in Roma, il 14 aprile 2010.

Depositato in Cancelleria il 17 maggio 2010

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