Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 12032 del 19/06/2020

Cassazione civile sez. lav., 19/06/2020, (ud. 16/01/2020, dep. 19/06/2020), n.12032

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. NOBILE Vittorio – Presidente –

Dott. NEGRI DELLA TORRE Paolo – Consigliere –

Dott. BLASUTTO Daniela – Consigliere –

Dott. PATTI Adriano Piergiovanni – Consigliere –

Dott. PICCONE Valeria – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 27687-2018 proposto da:

PIQUADRO S.P.A., in persona del legale rappresentante pro tempore,

elettivamente domiciliata in ROMA, VIA PUBLIO ELIO 13/A, presso lo

studio dell’avvocato GIUSEPPE CASSIA, rappresentata e difesa

dall’avvocato VITTORIO MACRI’;

– ricorrente –

contro

D.A.G., elettivamente domiciliata in ROMA, PIAZZA CAVOUR,

presso la CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE,

rappresentata e difesa dall’avvocato ADA MARIA BARBANERA;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 801/2018 della CORTE D’APPELLO di BOLOGNA,

depositata il 26/07/2018, R.G.N. 402/2018;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

16/01/2020 dal Consigliere Dott. PICCONE VALERIA;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

CIMMINO ALESSANDRO, che ha concluso per il rigetto del ricorso;

udito l’Avvocato GIUSEPPE CASSIA per delega verbale avvocato VITTORIO

MACRI’;

udito l’Avvocato ADA MARIA BARBANERA.

Fatto

RITENUTO IN FATTO

1. Con sentenza in data 26 luglio 2018, la Corte d’Appello di Bologna, confermando la decisione resa in sede di opposizione dal locale Tribunale, ha respinto il reclamo avverso l’ordinanza che aveva ritenuto l’insufficienza della prova in ordine all’addebito disciplinare ascritto a D.A.G. dalla Piquadro S.p.A. inerente la fruizione abusiva dei permessi previsti dalla L. n. 104 del 1992, art. 33, comma 3; la Corte ha, quindi, confermato le tutele apprestate ai sensi del novellato L. n. 300 del 1970, art. 18, comma 4, disponendo la reintegrazione nel posto di lavoro della lavoratrice e la corresponsione di un’indennità risarcitoria pari a dodici mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto.

In particolare, il giudice di secondo grado, nel reputare congrua la motivazione del Tribunale, ha ritenuto che la relazione dell’agenzia investigativa da cui l’azienda aveva evinto che la lavoratrice non aveva prestato effettiva assistenza alla madre disabile durante il periodo di fruizione dei permessi, fornisse un quadro assolutamente lacunoso delle attività svolte dalla D.A., talchè non poteva reputarsi dimostrato che la dipendente avesse svolto attività incompatibili con l’assistenza.

1.1. Avverso tale pronunzia propone ricorso la Piquadro S.p.A., affidandolo a quattro motivi.

1.2. Resiste, con controricorso, D.A.G..

Diritto

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Con il primo motivo di ricorso si deduce la violazione dell’art. 2697 c.c., artt. 115 e 116 c.p.c., e L. n. 104 del 1992, art. 33, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, per avere la Corte d’Appello ritenuto le risultanze dell’investigazione, così come da essa accertate, prova inidonea, travisando, altresì, le risultanze testimoniali inerenti il comportamento della D.A. durante i permessi.

1.1. Con il secondo motivo si deduce ancora la violazione dell’art. 115 c.p.c., e art. 116 c.p.c., e L. n. 104 del 1992, art. 33, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 e 5, per aver la Corte d’Appello disatteso la prova costituita dalle ammissioni della D.A. in ordine al comportamento tenuto durante i permessi, avendo la stessa affermato di essere sempre rimasta “a disposizione della madre”.

1.2. Con il terzo motivo si deduce ancora la violazione dell’art. 2697 c.c., artt. 115 e 116 c.p.c., e L. n. 104 del 1992, art. 33, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3 per avere la Corte escluso che le risultanze d’investigazione, così come da essa accertate, e le ammissioni, costituissero prova idonea ad invertire l’onere della prova.

2. I tre motivi, tutti, peraltro, promiscuamente articolati, da esaminarsi congiuntamente per l’intima connessione, non possono trovare accoglimento.

2.1. Va premesso, con riguardo all’ancoramento delle censure all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, che non può prescindersi dalla previsione d’inammissibilità del ricorso per cassazione, ai sensi dell’art. 348 ter c.p.c., comma 5, che esclude che possa essere impugnata ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 la sentenza di appello “che conferma la decisione di primo grado”.

Relativamente, poi, alla denunziata violazione dell’art. 2697 c.c., va rilevato che, per consolidata giurisprudenza di legittimità, (ex plurimis, Sez. III, n. 15107/2013) la doglianza relativa alla violazione del precetto di cui all’art. 2697 c.c. è configurabile soltanto nell’ipotesi in cui il giudice abbia attribuito l’onere della prova ad una parte diversa da quella che ne risulta onerata secondo le regole dettate da quella norma e che tale ipotesi non ricorre nel caso di specie, gravando sulla ricorrente la prova della legittima irrogazione della sanzione espulsiva in ragione della infrazione perpetrata.

Per quanto concerne la dedotta lesione degli artt. 115 e 116 c.p.c., va ribadito che in tema di ricorso per cassazione una questione di violazione e falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., non può porsi per una erronea valutazione del materiale istruttorio compiuta dal giudice di merito, ma, rispettivamente, solo allorchè si alleghi che quest’ultimo abbia posto a base della decisione prove non dedotte dalle parti, ovvero disposte di ufficio al di fuori dei limiti legali, o abbia disatteso, valutandole secondo il suo prudente apprezzamento, delle prove legali, ovvero abbia considerato come facenti piena prova, recependoli senza apprezzamento critico, elementi di prova soggetti, invece, a valutazione (cfr., ex plurimis, Cass. 27.12.2016 n. 27000; Cass. 19.6.2014 n. 13960).

2.2. Va, poi, evidenziato che la ricorrente, pur denunciando, apparentemente, una violazione di legge, chiede, in realtà, alla Corte di pronunciarsi sulla valutazione di fatto compiuta dal giudice in ordine alle prove offerte dalla società con riguardo alla sussistenza dell’infrazione e le argomentazioni da essa sostenute si limitano a criticare sotto vari profili la valutazione compiuta dalla Corte d’Appello, con doglianze intrise di circostanze fattuali mediante un pervasivo rinvio ad attività asseritamente compiute nelle fasi precedenti ed attinenti ad aspetti di mero fatto tentandosi di portare di nuovo all’attenzione del giudice di legittimità una valutazione di merito, inerente il contenuto dell’accertamento operato in sede investigativa e ritenuto inadeguato da parte della Corte territoriale, e, cioè, l’indagine concernente il compimento dell’infrazione da parte della lavoratrice nel non attendere alla assistenza alla propria madre in relazione ai permessi accordatile.

In particolare, in ordine alla deduzione secondo cui le risultanze istruttorie avrebbero dovuto comportare un’inversione dell’onere della prova che, quindi, avrebbe dovuto gravare sulla lavoratrice, va sottolineato che la Corte fornisce, invece, congrua ed,adeguata motivazione circa la perdurante permanenza, in capo al datore di lavoro, dell’onus probandi in ordine alla legittimità del licenziamento intimato, conformemente alla regola generale ed alla consolidata giurisprudenza di legittimità in tema di procedimento disciplinare.

Va poi evidenziato che, pur veicolandosi la censura sotto il profilo dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, in realtà si mira ad ottenere una diversa valutazione degli accadimenti, così come ricostruiti, e che la Corte, la quale si sofferma a lungo sulla ricostruzione spazio – temporale delle attività compiute dalla dipendente, ha reputato lacunosamente accertati dall’Agenzia investigativa, onde condurre a ritenere sussistente la legittimità del licenziamento intimato.

In particolare, la Corte ha escluso che la “pochezza” delle risultanze investigative potesse integrare un quadro indiziario di una certa significatività nell’ambito di un ragionamento presuntivo ex art. 2729 c.c., essendo piuttosto emerso che la D.A. svolgeva una serie di attività a vantaggio dell’anziana madre non implicanti necessariamente la permanenza presso l’abitazione della stessa, alla luce delle risultanze istruttorie acquisite, per la configurabilità delle deduzioni di parte reclamante in termini di mere illazioni e congetture prive di riscontro, escludendo la ipotizzabilità di qualsivoglia inversione dell’onere della prova.

La Corte ha anche valutato la vicenda alla luce della giurisprudenza di legittimità in tema di sussistenza di uno stretto nesso causale fra fruizione dei permessi ex Lege 104 e assistenza atteso che in essa si fa sempre riferimento ad ipotesi, ritenute difformi rispetto a quella di specie, in cui vi è sempre la prova diretta o indiretta dell’assenza di assistenza e/o dello svolgimento da parte dell’utilizzatore dei permessi di attività incompatibili con la prestazione della stessa (Cfr. fra le più recenti, Cass. n. 19850 del 2019, ma, negli stessi termini, Cass. n. 4984/2014, Cass. n. 8784/2015; Cass. n. 5574/2016, Cass. n. 5574/2016; Cass. n. 9217/2016, cui si possono aggiungere, fra le altre, Cass. n. 17968/2016).

Questa Corte ha poi affermato, in tema di congedo straordinario del D.Lgs. n. 151 del 2001, ex art. 42, comma 5, che l’assistenza che legittima il beneficio in favore del lavoratore, pur non potendo intendersi esclusiva al punto da impedire a chi la offre di dedicare spazi temporali adeguati alle personali esigenze di vita, deve comunque garantire al familiare disabile in situazione di gravità di cui alla L. n. 104 del 1992, art. 3, comma 3, un intervento assistenziale di carattere permanente, continuativo e globale (Cass. n. 19580/2019 cit.).

Nondimeno, essa ha precisato che soltanto ove venga a mancare del tutto il nesso causale tra assenza dal lavoro ed assistenza al disabile, si è in presenza di un uso improprio o di un abuso del diritto ovvero di una grave violazione dei doveri di correttezza e buona fede sia nei confronti del datore di lavoro che dell’ente assicurativo che genera la responsabilità del dipendente (ancora Cass. n. 19580/2019 cit.).

La Corte, d’altro canto, nel dar conto della giurisprudenza di legittimità che richiede che i permessi vengano fruiti in coerenza con la loro funzione ed in presenza di un nesso causale con l’attività di assistenza, ha fatto corretta applicazione delle regole di giudizio che presiedono a tale ambito escludendo il difetto di buona fede ed il disvalore sociale connesso all’abusivo esercizio del permesso atteso che, secondo il suo giudizio, l’atteggiamento della lavoratrice non è stato quello di profittare del permesso per attendere ad attività di proprio esclusivo interesse.

3. Va infine rimarcato che, premesso che attiene alla violazione di legge la deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge, implicando necessariamente una attività interpretativa della stessa, nella specie, la piana lettura delle modalità di formulazione delle censure ed il riferimento ad una diversa valutazione dei mezzi istruttori, di spettanza esclusiva del giudice di merito, induce ad escludere, ictu oculi, la deduzione di una erronea sussunzione nelle disposizioni normative mentovate della fattispecie considerata, apparendo, invece, chiarissima l’istanza volta ad ottenere una inammissibile rivalutazione del merito della vicenda.

4. Per quanto riguarda, poi, il quarto motivo di ricorso, con cui si deduce la violazione dell’art. 2697 c.c., artt. 115 e 116 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, per aver la Corte omesso di esaminare i tempi di svolgimento di attività incompatibili con l’assistenza, oltre a ribadirsi l’inammissibilità della censura ex art. 348 ter, va rilevato che, comunque, si tratta di una valutazione di fatto totalmente sottratta al sindacato di legittimità, in quanto, in seguito alla riformulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, disposto dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54 col, lett. b), convertito con modificazioni nella L. 7 agosto 2012, n. 134, che ha limitato la impugnazione delle sentenze in grado di appello o in unico grado per vizio di motivazione alla sola ipotesi di “omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti”, con la conseguenza che, al di fuori dell’indicata omissione, il controllo del vizio di legittimità rimane circoscritto alla sola verifica della esistenza del requisito motivazionale nel suo contenuto “minimo costituzionale” richiesto dall’art. 111 Cost., comma 6, ed individuato “in negativo” dalla consolidata giurisprudenza della Corte -formatasi in materia di ricorso straordinario- in relazione alle note ipotesi (mancanza della motivazione quale requisito essenziale del provvedimento giurisdizionale; motivazione apparente; manifesta ed irriducibile contraddittorietà; motivazione perplessa od incomprensibile) che si convertono nella violazione dell’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4), e che determinano la nullità della sentenza per carenza assoluta del prescritto requisito di validità (fra le più recenti, Cass. n. 23940 del 2017).

4.1. D’altro canto, come chiarito dalla giurisprudenza di questa Corte (Cass. sez. unite 7 aprile 2014, n. 8053) deve trattarsi di un fatto storico, principale o secondario, decisivo per il giudizio che sia stato oggetto di discussione tra le parti, non integrando di per sè l’omesso esame di elementi istruttori il vizio di omesso esame quando il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice come è avvenuto nel caso di specie, nel quale, anzi, la Corte ha esaminato, ampiamente e con motivazione immune da vizi logici, tutti gli accadimenti temporali anche relativamente agli intervalli di tempo di non espletamento materiale dell’assistenza;

5. Alla luce delle suesposte argomentazioni, quindi, il ricorso deve essere respinto.

5.1. Le spese seguono la soccombenza e vanno liquidate come in dispositivo.

5.2. Sussistono i presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, art. 1 -bis, se dovuto.

PQM

La Corte respinge il ricorso. Condanna la parte ricorrente alla rifusione, in favore della parte controricorrente, delle spese di lite, che liquida in complessivi Euro 5000,00 per compensi e 200,00 per esborsi, oltre spese generali al 15% e accessori di legge. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, da atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma dell’art. 1 bis dello stesso art. 13, se dovuto.

Così deciso in Roma, il 16 gennaio 2020.

Depositato in Cancelleria il 19 giugno 2020

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