Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 12023 del 17/05/2010

Cassazione civile sez. I, 17/05/2010, (ud. 20/04/2010, dep. 17/05/2010), n.12023

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CARNEVALE Corrado – Presidente –

Dott. PICCININNI Carlo – Consigliere –

Dott. ZANICHELLI Vittorio – Consigliere –

Dott. CULTRERA Maria Rosaria – Consigliere –

Dott. DIDONE Antonio – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

Banca Intesa s.p.a. in persona del rappresentante legale,

elettivamente domiciliato in Roma, Via L. Bissolati 76, presso l’avv.

SPINELLI GIORDANO Tommaso, che la rappresenta e difende giusta delega

in atti;

– ricorrente –

contro

Fallimento Telelido s.r.l. in persona del curatore, elettivamente

domiciliato in Roma, Via Germanico 172, presso l’avv. OZZOLA Massimo,

che lo rappresenta e difende giusta delega in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza della Corte d’appello di Roma n. 5018/04 del

22.11.2004.

Udita la relazione della causa svolta nella Pubblica udienza del

20.4.2010 dal Relatore Cons. Dott. Carlo Piccininni;

Uditi gli avv. Spinelli per la ricorrente e Silvagni con delega per

il fallimento;

Udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

RUSSO Libertino Alberto, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

 

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con atto di citazione del 30.12.1998 il fallimento Telelido s.r.l.

conveniva in giudizio davanti al Tribunale di Roma la Sanpaolo IMI s.p.a., per sentir dichiarare l’inefficacia ai sensi della L. Fall., art. 67, comma 2, delle rimesse per L. 350.000.000 affluite sul conto corrente intestato alla società, nell’anno antecedente la dichiarazione di fallimento.

La banca, costituitasi, eccepiva innanzitutto l’inammissibilità della domanda, per essere intervenuta l’ammissione del credito al passivo e ne chiedeva comunque nel merito il rigetto o, subordinatamente, l’accoglimento in misura più contenuta.

Il tribunale, ritenendo non provata la “scientia decoctionis” da parte della banca, respingeva la domanda con decisione che, impugnata, veniva riformata dalla Corte di appello, che conseguentemente condannava la Sanpaolo IMI a pagare al fallimento la somma di Euro 170.813,74, oltre interessi.

In particolare la Corte territoriale, dopo aver premesso di dover tener conto, nella sua valutazione, delle qualità professionali del creditore e della sua struttura organizzativa, rilevava che l’onere probatorio del fallimento doveva considerarsi assolto sulla base della documentazione prodotta in primo grado, dalla quale emergevano:

a) onerosissimi indebitamenti (tre miliardi e mezzo, quattro e uno e mezzo, rispettivamente risultanti dai bilanci relativi agli anni 1993, 1994, 1995) nei periodi antecedenti alle rimesse in questione (riguardanti il periodo 23.2 – 5.6.1996); b) la scopertura del conto corrente ben oltre il fido; c) l’intervenuta revoca di quest’ultimo il giorno successivo all’incasso dell’ultima rimessa del 6.6.1996; d) l’esistenza di procedure, anche esecutive, pendenti nei confronti della Telelido. Avverso la decisione Sanpaolo IMI, che successivamente veniva incorporata da Banca Intesa s.p.a., proponeva ricorso per cassazione affidato ad un solo motivo, cui resisteva con controricorso il fallimento. Entrambe le parti depositavano infine memoria. La controversia veniva quindi decisa all’esito dell’udienza pubblica del 20.4.2010.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Con il motivo di impugnazione la Banca Intesa ha denunciato violazione della L. Fall., art. 67, comma 2, artt. 2697, 2727 e 2729 c.c., nonchè vizio di motivazione, per aver la Corte territoriale ritenuto provata la conoscenza dello stato di insolvenza della Telelido da parte di esso ricorrente sulla base di presunzioni semplici (quindi non gravi, nè precise, nè concordanti) e attraverso un iter logico giuridico contraddittorio.

La prova della conoscenza dell’insolvenza, gravante sul curatore, dovrebbe infatti “avere per oggetto la concreta situazione psicologica del terzo e non già la mera conoscibilità oggettiva dello stato di insolvenza”, e potrebbe essere fornita anche mediante presunzioni, purchè gravi, precise e concordanti.

Nella specie, viceversa, la detta conoscenza sarebbe stata desunta da una pretesa maggiore possibilità di conoscenza delle condizioni economiche dei clienti da parte degli istituti bancari.

Inoltre, quanto ai bilanci, da una parte non vi sarebbe prova della relativa trasmissione alla banca e, dall’altra, la lettura avrebbe dovuto essere di diverso segno poichè dal bilancio al 31.12.1994, approvato il 30.4.1995 e depositato il 28.5.1995 (in epoca successiva, quindi, alla linea di credito di L. 70.000.000 concessa il 15.2.1995) si evincerebbe un utile di esercizio di L. 15.376.985;

quanto alle procedure esecutive, in realtà sarebbe stata una e priva di pubblicità, perchè mobiliare, per di più successiva al giugno 1996; quanto infine agli sconfinamenti oltre il fido, si sarebbe trattato di superamenti contenuti, tollerati per effetto delle fiducia riposta dalla banca nell’imprenditore.

La censura è infondata.

In proposito va premesso che è incontestato il carattere solutorio delle rimesse in questione e che il solo punto in contestazione riguarda l’esistenza o meno della prova della conoscenza dell’insolvenza dell’imprenditore da parte della banca.

Alla stregua della consolidata giurisprudenza di questa Corte, a tal fine non è sufficiente dare dimostrazione della conoscibilità dell’insolvenza, essendo viceversa necessario fornire prova dell’effettiva conoscenza di questa, pur desumibile da elementi presuntivi.

Ciò precisato, va osservato che la Corte di appello ha ritenuto raggiunta la detta prova sulla base di tre elementi di fatto, individuati nei numerosissimi indebitamenti risultanti dai bilanci della società, nei consistenti sconfinamenti oltre il fido che determinavano una revoca nel giorno successivo all’incasso dell’ultima rimessa, nell’esistenza di procedure esecutive, elementi poi valutati ed interpretati alla luce delle qualità professionali del creditore.

Tale valutazione rientra nell’ambito del giudizio di merito, è sorretta da motivazione immune da vizi logici e non è pertanto sindacabile in questa sede di legittimità.

Per di più la censura in questione appare viziata sul piano dell’autosufficienza poichè le indicazioni fattuali richiamate dalla Corte territoriale (quali le gravissime perdite risultanti dai bilanci, l’esistenza delle procedure esecutive e degli sconfinamenti) sono state contrastate con semplici affermazioni non suffragate dai necessari riscontri relativi ai contenuti asseritamente difformi, alla corretta acquisizione della documentazione di segno contrario nell’incarto processuale, alle modalità ed ai tempi della relativa produzione.

Conclusivamente il ricorso deve essere rigettato, con condanna del ricorrente, soccombente, al pagamento delle spese processuali del giudizio di legittimità, liquidate in dispositivo.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali del giudizio di legittimità, liquidate in Euro 7.200,00 di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre alle spese generali e agli accessori di legge.

Così deciso in Roma, il 20 aprile 2010.

Depositato in Cancelleria il 17 maggio 2010

 

 

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