Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 12022 del 10/06/2016


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Cassazione civile sez. VI, 10/06/2016, (ud. 11/05/2016, dep. 10/06/2016), n.12022

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE L

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CURZIO Pietro – Presidente –

Dott. ARIENZO Rosa – Consigliere –

Dott. FERNANDES Giulio – rel. Consigliere –

Dott. GARRI Fabrizia – Consigliere –

Dott. MANCINO Rossana – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 25510/2014 proposto da:

ANAS SPA, (OMISSIS), in persona del Direttore Centrale pro

tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, LARGO LEOPOLDO FREGOLI

8, presso lo studio dell’ Avvocato FABIO MASSIMO COZZOLINO, che la

rappresenta e difende, giusta delega a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

D.B.S., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA

CRESCEZIO 58, presso lo studio dell’avvocato BRUNO COSSU, che lo

rappresenta e difende unitamente agli avvocati SAVINA BOMBOI, GRAZIA

ANNA RIZZI, giusta procura a margine del controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 320/2014 della CORTE D’APPELLO di L’AQUILA del

3/4/2014, depositata il 6/5/2014;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

11/05/2016 dal Consigliere Dott. GIULIO FERNANDES;

udito l’Avvocato Cozzolino Fabio Massimo difensore del ricorrente

rinuncia al primo motivo del ricorso, prende atto delle decisioni

Sezione Unite, insiste per l’accoglimento del secondo motivo del

ricorso;

udito l’Avvocato Sergio Longhi con delega dell’Avvocato Bruno

Cossu difensore del resistente,si riporta agli scritti.

Fatto

FATTO E DIRITTO

La causa è stata chiamata all’adunanza in camera di consiglio dell’11 maggio 2016, ai sensi dell’art. 375 c.p.c. sulla base della seguente relazione redatta a norma dell’art. 380 bis c.p.c.:

“Con sentenza del 6 maggio 2014, la Corte di Appello di L’Aquila confermava la decisione del primo giudice che aveva accertato la nullità del termine apposto al primo dei vari contratti di lavoro a tempo determinato intercorsi tra D.B.S. e l’ANAS s.p.a. e relativo al periodo dal 17 marzo al 18 aprile 1998, disposto la conversione dello stesso in contratto di lavoro a tempo indeterminato, condannato la società al ripristino del rapporto di lavoro ed al pagamento dell’indennità L. 4 novembre 2010, n. 183, ex art. 32, comma 5, commisurata in 12 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto.

La Corte territoriale, in relazione agli unici capi della sentenza del primo giudice oggetto di gravame, rilevava: che correttamente il Tribunale aveva disatteso l’eccezione di decadenza cit. L. n. 183 del 2010, ex art. 32; che neppure era configurabile una ipotesi di scioglimento del rapporto per mutuo tacito consenso in considerazione del lungo lasso temporale intercorso tra la cessazione del quarto contratto a termine stipulato dalle parti (31 marzo 2001) ed il quinto (11 dicembre 2006) in quanto la mera inerzia serbata dal lavoratore in detto periodo, così come l’aver accettato senza riserve il TFR ed il libretto di lavoro nonchè l’aver prestato attività in favore di terzi non erano elementi idonei a provare la sussistenza di una volontà intesa alla risoluzione del rapporto.

Per la cassazione di tale decisione ha proposto ricorso l’ANAS s.p.a. affidato a due motivi.

Resiste con controricorso il D.B..

Con il primo motivo di ricorso si deduce violazione e falsa applicazione della cit. L. n. 183 del 2010, art. 32, comma 1 e del comma 1 bis del medesimo articolo introdotto del D.L. n. 225 del 2010, art. 2, comma 4, convertito in L. n. 10 del 2011, per avere la Corte di Appello erroneamente ritenuto applicabile alla fattispecie in esame il disposto di cui alla L. n. 183 del 2010, art. 32, citato comma 1 bis, evidenziandosi che, comunque, anche a voler ammettere l’applicabilità ai contratti a termine del predetto disposto normativo, il differimento al 31 dicembre 2011 del termine di impugnazione dei 60 giorni non poteva trovare applicazione per tutti quei contratti a tempo determinato cessati o per i quali era maturata la decadenza al 26 febbraio 2011.

Il motivo è infondato.

Come questa Corte ha avuto modo di affermare l’intervento attuato con il D.L. n. 225 del 2010, art. 2, comma 54 – nel testo integrato dalla Legge di Conversione n. 10 del 2011 – che ha introdotto della L. n. 183 del 2010, art. 32, il comma 1-bis, pur agendo direttamente soltanto in materia di licenziamenti, ha differito, quale effetto riflesso necessario, al 1 gennaio 2012 anche l’introduzione della disciplina delle decadenze nelle situazioni regolate nei commi 3 e 4 del citato art. 32, tra cui anche quelle afferenti al contratto a tempo determinato, posto che ha sospeso l’efficacia normativa di quel termine di decadenza di sessanta giorni strutturalmente diverso da quello previsto dall’abrogato testo della L. n. 604 del 1996, art. 6 che, disciplinato dal comma 1 del detto art. 32, era stato esteso alle ipotesi di cui ai successivi commi 3 e 4, per le quali, in precedenza, l’esercizio dell’azione giudiziaria non era soggetto ad alcuna impugnazione stragiudiziale a pena di decadenza. Ed infatti –

va qui ribadito – deve ritenersi che il citato comma 1 bis dell’art. 32, nel prevedere “in sede di prima applicazione” il differimento al 31 dicembre 2011 dell’entrata in vigore delle disposizioni relative al termine di sessanta giorni per l’impugnazione del licenziamento, riguardi tutti gli ambiti di novità di cui al novellato L. 15 luglio 1966, n. 604, art. 6. (Cass. nn. 22824/2015, 13563/2015, 2494/2015, 24233/2014, 9203/2014).

Pertanto, l’operatività del sistema delle decadenze prevista dalla L. n. 183 del 2010, art. 32 deve intendersi differita all’1 gennaio 2012 anche per i contratti a tempo determinato, tanto quelli conclusi ai sensi del D.Lgs. n. 368 del 2001, i cui termini non fossero ancora scaduti alla data di entrata in vigore del decreto “mille proroghe” (il 26 febbraio 2011), che tutti quei contratti il cui termine fosse già scaduto alla data di entrata in vigore della proroga rispetto ai quali però la decadenza non era ancora maturata sia quelli già conclusi alla data di entrata in vigore del Collegato Lavoro e stipulati anche in base alla normativa vigente prima del D.Lgs. n. 368 del 2001, per i quali il termine di decadenza era comunque decorso prima dell’entrata in vigore della L. n. 10 del 2011 (sul punto: Cass. 13563/2015 e 2494/2015 cit.).

Con il secondo motivo viene dedotta violazione e falsa applicazione degli artt. 1372, 1175 e 1375 c.c., avendo il giudice del gravame rigettato l’eccezione di definitivo scioglimento del rapporto per tacito mutuo consenso dei contraenti senza considerare alcuni elementi valorizzabili costituiti dall’inerzia del lavoratore protratta per alcuni anni, dalla mancata formulazione di qualsivoglia contestazione al momento della scadenza del contatto, dalla restituzione del libretto di lavoro, dall’accettazione incondizionata del TFR e delle competenze finali.

Il motivo è manifestamente infondato.

Come questa Corte ha più volte affermato “nel giudizio instaurato ai fini del riconoscimento della sussistenza di un unico rapporto di lavoro a tempo indeterminato, sul presupposto dell’illegittima apposizione al contratto di un termine finale ormai scaduto, affinchè possa configurarsi una risoluzione del rapporto per mutuo consenso, è necessario che sia accertata – sulla base del lasso di tempo trascorso dopo la conclusione dell’ultimo contratto a termine, nonchè del comportamento tenuto dalle parti e di eventuali circostanze significative – una chiara e certa comune volontà delle parti medesime di porre definitivamente fine ad ogni rapporto lavorativo” (v, Cass. 1011-2008 n. 26935, Cass. 28-9-2007 n. 20390, Cass. 17-12-2004 n. 23554, nonchè più di recente, Cass. 18-11-2010 n. 23319, Cass. 11-32011 n. 5887, Cass. 4-8-2011 n. 16932). La mera inerzia del lavoratore dopo la scadenza del contratto a termine, quindi, “è di per sè insufficiente a ritenere sussistente una risoluzione del rapporto per mutuo consenso” (v. Cass. 15-11-2010 n. 23057, Cass. 11-3-2011 n. 5887), mentre “grava sul datore di lavoro”, che eccepisca tale risoluzione, “l’onere di provare le circostanze dalle quali possa ricavarsi la volontà chiara e certa delle parti di volere porre definitivamente fine ad ogni rapporto di lavoro” (v.

Cass. 2-12-2002 n. 17070 e fra le altre, Cass. 1- 2-2010 n. 2279).

Tale principio, del tutto conforme al dettato di cui agli artt. 1372 e 1321 c.c., va ribadito anche in questa sede, così confermandosi l’indirizzo prevalente ormai consolidato, basato in sostanza sulla necessaria valutazione dei comportamenti e delle circostanze di fatto, idonei ad integrare una chiara manifestazione consensuale tacita di volontà in ordine alla risoluzione del rapporto, non essendo all’uopo sufficiente il semplice trascorrere del tempo e neppure la mera mancanza, seppure prolungata, di operatività del rapporto.

Orbene nella fattispecie la Corte d’Appello ha rilevato che la società non aveva dedotto alcuna circostanza significativa rispetto al mero decorso del tempo precisando che all’accettazione senza riserve del TFR e del libretto di lavoro, l’aver prestato attività lavorativa “medio tempore” non poteva essere attribuito alcuna valenza indicativa della volontà dismissiva del rapporto ciò anche in considerazione del fatto che le scelte del lavoratore condizionate dalla speranza (o timore) di essere (o non essere) richiamato a lavorare presso l’ANAS. Tale accertamento di fatto, compiuto dalla Corte di merito, risulta aderente al principio sopra richiamato e resiste alle censure della società ricorrente che, in sostanza, si incentrano genericamente sulla proposizione di una diversa lettura delle menzionate circostanze di fatto che già in svariate decisioni di questa Corte sono state ritenute non significative nel senso della esistenza di una volontà dismissiva del rapporto.

Alla luce di quanto esposto, si propone il rigetto del ricorso, con ordinanza, ai sensi dell’art. 375 c.p.c., n. 5″.

Sono seguite le rituali comunicazioni e notifica della suddetta relazione, unitamente al decreto di fissazione della presente udienza in Camera di consiglio.

L’ANAS ha depositato memoria ex art. 380 bis c.p.c..

Alla odierna udienza il difensore della società ha dichiarato di rinunciare al primo motivo di ricorso.

Ciò detto, osserva il Collegio che, con riferimento al secondo motivo di ricorso, le argomentazioni esposte nella memoria ex art. 380 bis c.p.c., non valgono a scalfire il contenuto della riportata relazione che risulta essere conforme alla giurisprudenza assolutamente prevalente di questa Corte.

Pertanto, il ricorso va rigettato.

Le spese del presente giudizio, per il principio della soccombenza, sono poste a carico della ricorrente e vengono liquidate come da dispositivo con attribuzione agli avv.ti Grazia Anna Rizzi, Bruno Cossu e Savina Bomboi per dichiarato anticipo fattone.

Sussistono i presupposti per il versamento, da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, previsto dal D.P.R. 30 maggio, art. 13, comma 1 quater, introdotto dalla L. legge 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17 (legge di stabilità 2013). Tale disposizione trova applicazione ai procedimenti iniziati in data successiva al 30 gennaio 2013, quale quello in esame, avuto riguardo al momento in cui la notifica del ricorso si è perfezionata, con la ricezione dell’atto da parte del destinatario (Sezioni Unite, sent. n. 3774 del 18 febbraio 2014). Inoltre, il presupposto di insorgenza dell’obbligo del versamento, per il ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, non è collegato alla condanna alle spese, ma al fatto oggettivo del rigetto integrale o della definizione in rito, negativa per l’impugnante, del gravame (Cass. n. 10306 del 13 maggio 2014).

PQM

La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente alle spese del presente giudizio liquidate in Euro 100,00 per esborsi, Euro 3.000,00 per compensi professionali, oltre rimborso spese forfetario nella misura del 15% con attribuzione agli avv.ti Grazia Anna Rizzi, Bruno Cossu e Savina Bomboi.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, il 11 maggio 2016.

Depositato in Cancelleria il 10 giugno 2016

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