Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 1202 del 20/01/2011

Cassazione civile sez. trib., 20/01/2011, (ud. 25/10/2010, dep. 20/01/2011), n.1202

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PIVETTI Marco – Presidente –

Dott. MAGNO Giuseppe Vito Antonio – Consigliere –

Dott. BERNARDI Sergio – Consigliere –

Dott. DI IASI Camilla – rel. Consigliere –

Dott. VIRGILIO Biagio – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 6294-2006 proposto da:

CURATELA DEL FALLIMENTO IMPRESA PAGANO COSTRUZIONI DI PAGANO CLAUDIO

E VINCENZO SNC, in persona del Curatore pro tempore, elettivamente

domiciliato in ROMA VIA GREGORIO VII 384, presso lo studio

dell’avvocato MALIZIA ROBERTO, rappresentato e difeso dall’avvocato

CORTELLESSA DAVIDE, giusta delega a margine;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELL’ECONOMIA E FINANZE in persona del Ministro pro

tempore, AGENZIA DELLE ENTRATE in persona del Direttore pro tempore,

elettivamente domiciliati in ROMA VIA DEI PORTOGHESI 12, presso

l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che li rappresenta e difende ope

legis;

– controricorrenti –

avverso la sentenza n. 128/2004 della COMM. TRIB. REG. di NAPOLI,

depositata il 29/12/2004;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

25/10/2010 dal Consigliere Dott. CAMILLA DI IASI;

udito per il resistente l’Avvocato GIACOBBE, che si riporta;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

BASILE TOMMASO, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

IN FATTO E IN DIRITTO

1. La Curatela del Fallimento della Impresa Pagano Costruzioni di Pagano Claudio e Vincenzo s.n.c. propone ricorso per cassazione nei confronti del Ministero dell’Economia e delle Finanze e dell’Agenzia delle Entrate (che resistono con controricorso) e avverso la sentenza con la quale, in controversia concernente impugnazione di avviso di rettifica Iva relativo al 1989, la C.T.R. Campania, in riforma della sentenza di primo grado, riteneva la legittimità dell’avviso opposto rilevando che esso traeva origine da un accertamento di maggior reddito per l’anno 1989 regolarmente notificato alla società e che l’avviso de quo doveva ritenersi motivato, poichè riportava in dettaglio tutte le ragioni poste a base dell’accertamento nonchè l’iter seguito per giungere alla rettifica senza rimandare ad altri atti per l’individuazione dei criteri e dei parametri osservati.

2. Col primo motivo, deducendo omessa pronuncia e vizio di motivazione, la ricorrente sostiene che i giudici d’appello avrebbero omesso di affrontare la questione (posta nel ricorso introduttivo) concernente la circostanza che l’Ufficio Iva aveva nella specie fondato l’atto impositivo sulla estensione al ricorrente di un accertamento induttivo operato da altro Ufficio ai fini delle imposte dirette, così arbitrariamente estendendo la validità delle presunzioni poste a fondamento di un accertamento ai fini delle imposte dirette ad un accertamento ai fini Iva, ricavando presunzioni da pregresse presunzioni, peraltro ai sensi del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 54, senza considerare che per tale norma l’esistenza di operazioni imponibili non dichiarate o l’inesattezza delle dichiarazioni che danno diritto all’esenzione deve risultare in modo certo e diretto e non in via presuntiva. La ricorrente aggiunge che la motivazione dell’atto impositivo sarebbe inoltre manchevole perchè generica e riferentesi ad un accertamento valido ai fini delle imposte dirette, in cui si è applicata la media aritmetica semplice; precisa infine che non può nella specie assumere rilievo la mancata impugnazione del suddetto avviso relativo alle imposte dirette, non essendo stato lo stesso notificato ai sensi di legge al curatore fallimentare, con conseguente nullità ed inefficacia di tutti gli atti successivi.

Le censure esposte sono in parte (e sotto svariati profili) inammissibili e in parte infondate.

Occorre innanzitutto evidenziare che il vizio di motivazione ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5 può riguardare solo l’accertamento in fatto e non la motivazione in diritto della sentenza e che secondo la giurisprudenza di legittimità non ricorre il vizio di omessa pronuncia, nonostante la mancanza di espressa statuizione sul punto specifico, quando la decisione adottata comporti una statuizione implicita di rigetto sul medesimo, precisando che ad integrare gli estremi del vizio di omessa pronuncia non basta la mancanza di una espressa statuizione del giudice, essendo necessaria la totale pretermissione del provvedimento che si palesa indispensabile alla soluzione del caso concreto, e che deve pertanto escludersi l’omissione quando la decisione, adottata in contrasto con la pretesa fatta valere dalla parte, ne comporti il rigetto o la non esaminabilità pur in assenza di una specifica argomentazione (v.

Cass. n. 10636 del 2007).

Tanto premesso, giova inoltre in particolare precisare che dalla sentenza impugnata non risulta che la questione della estensione, da parte dell’Ufficio Iva, di un accertamento induttivo operato da altro Ufficio ai fini delle imposte dirette, con arbitraria estensione della validità di presunzioni poste a fondamento di un accertamento ai fini delle imposte dirette, dedotta nel motivo in esame, sia stata proposta in primo grado e riproposta in appello, ed è soprattutto da sottolineare che neppure la stessa ricorrente deduce in questa sede che la suddetta questione è stata riproposta in appello.

E’ inoltre da evidenziare, con riguardo al dedotto difetto di motivazione dell’avviso opposto, che la censura manca di autosufficienza, posto che, secondo la giurisprudenza di questo giudice di legittimità, il ricorrente che censuri la sentenza di una commissione tributaria regionale sotto il profilo della congruità del giudizio espresso in ordine alla motivazione di un avviso di accertamento – il quale non è atto processuale, bensì amministrativo, la cui motivazione, comprensiva dei presupposti di fatto e delle ragioni giuridiche che lo giustificano, costituisce imprescindibile requisito di legittimità dell’atto stesso -, è tenuto, riportare testualmente in ricorso, a pena di inammissibilità del medesimo, i passi della motivazione di detto atto che si assumono erroneamente interpretati o pretermessi dal giudice di merito, al fine di consentire alla Corte di cassazione di esprimere il suo giudizio sulla suddetta congruità esclusivamente in base al ricorso medesimo (v. Cass. n. 15867 del 2004).

Per quanto concerne la questione dell’omessa notifica dell’avviso di accertamento relativo alle imposte dirette, dalla sentenza impugnata non risulta che essa sia stata proposta in precedenza, e la ricorrente neppure precisa in ricorso quando e se tale questione sia stata posta nel merito, come avrebbe dovuto fare per sfuggire ad una declaratoria di inammissibilità per novità della questione medesima.

In ogni caso, i giudici d’appello nella sentenza impugnata hanno affermato che l’avviso opposto trae origine da un accertamento per le imposte dirette regolarmente notificato e divenuto definitivo perchè mai impugnato. A fronte di un simile accertamento in fatto sulla notifica e sulla definitività dell’avviso relativo alle imposte dirette, la ricorrente giammai avrebbe potuto limitarsi ad affermare che l’avviso suddetto non era stato notificato, ma avrebbe dovuto espressamente impugnare sul punto la sentenza di appello, quanto meno allegando di avere impugnato l’avviso non notificato unitamente all’atto successivo o comunque di aver dedotto la mancata notifica di tale avviso in occasione della impugnazione dell’atto successivo, precisando da quali documenti agli atti (non considerati dai giudici di appello) risultava la mancanza di notifica e la non definitività dell’avviso relativo alle imposte dirette e depositando detti documenti unitamente al ricorso ai sensi dell’art. 369 c.p.c., n. 4.

Col secondo motivo, deducendo violazione e falsa applicazione di norme di legge, la ricorrente sostiene che i giudici d’appello non avrebbero considerato che, come correttamente rilevato in primo grado, l’Ufficio II.DD. di Caserta aveva esercitato il suo potere di rettifica della dichiarazione dei redditi sulla base di dati e notizie raccolti non nei modi di cui al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 32 ed aveva applicato una percentuale di ricarico arbitraria, con un accertamento assolutamente privo di motivazione.

Le censure sono inammissibili perchè riferite non all’avviso opposto ma ad altro avviso che non solo non è stato impugnato in questa sede, ma risulta addirittura definitivo, sulla base di accertamento in fatto compiuto dai giudici d’appello e non adeguatamente censurato in questa sede.

Col terzo motivo, deducendo falsa applicazione di norme di legge, la ricorrente sostiene che non possono considerarsi legittimi gli accertamenti che non tengono conto della diversità di presupposti e criteri impositivi tra le diverse imposte ed inoltre che nella sentenza i giudici d’appello non avevano fornito alcuna “spiegazione” in ordine alla percentuale del 20% applicata dall’Ufficio accertatore presuntivamente e arbitrariamente, non essendo condivisibile l’applicazione della percentuale di ricarico sul totale indistinto dei costi, comprensivi degli ammortamenti e delle spese generali.

La censura è in parte infondata e in parte inammissibile.

Deve innanzitutto evidenziarsi che correttamente l’Ufficio Iva ha tenuto conto di quanto emergente dall’avviso di accertamento in tema di imposte dirette (da ritenersi definitivo sulla base dell’accertamento in fatto operato dai giudici di appello e, come già rilevato, non adeguatamente censurato in questa sede), posto che la giurisprudenza di questo giudice di legittimità in tema di Iva ha ripetutamente affermato che l’infedeltà della dichiarazione, per cui l’ufficio procede a rettifica, è fra l’altro desunta, ai sensi de D.P.R. n. 633 del 1972, art. 54, comma 2, dai dati e dalle notizie raccolti nei modi previsti dal precedente art. 51, che fra le modalità ammesse comprende (comma 2, n. 5) la richiesta di tali dati e notizie, anche riguardanti un singolo contribuente, ad organi e amministrazioni dello Stato, con la conseguenza che, qualora l’infedeltà della dichiarazione venga accertata, come nella specie, a seguito di segnalazione dell’ufficio delle imposte dirette, che a sua volta aveva effettuato accertamento nei confronti del medesimo contribuente, nessuna altra indagine in ordine ad essa è tenuta a svolgere l’ufficio IVA, disponendo dei concreti elementi necessari per affermare l’infedeltà, acquisiti in conformità alla legge, senza necessità di presumerla come sarebbe, peraltro, ammissibile in astratto ai sensi dell’art. 54, comma 2, ultima frase o di procedere ad ulteriori indagini (v. Cass. n. 1319 del 2007), ed inoltre che l’applicazione diretta dei principi costituzionali di uguaglianza, legalità, imparzialità amministrativa e capacità contributiva comporta che, anche in difetto di un’espressa previsione legislativa, il valore accertato dall’Amministrazione finanziaria ai fini applicativi di un’imposta (nella specie, l’IRPEF) vincola la stessa Amministrazione anche in riferimento all’applicazione di altri tributi (nel caso, l’IVA), ove i fatti economici siano i medesimi e le singole leggi d’imposta non stabiliscano differenti criteri di valutazione (v. Cass. n. 19321 del 2006).

Tanto premesso, deve rilevarsi che la censura in esame è generica e priva di autosufficienza giacchè si limita a dedurre la mancata considerazione delle diversità di criteri e presupposti tra le diverse imposte ma non riporta in ricorso (come avrebbe dovuto nel rispetto del principio di autosufficienza) nè deposita unitamente al ricorso (come previsto a pena di improcedibilità dall’art. 369 c.p.c., n. 4) l’avviso opposto indicando come e perchè in detto avviso l’Ufficio Iva non abbia tenuto conto dei differenti presupposti e criteri concernenti gli accertamenti relativi alle diverse imposte.

E’ inoltre appena il caso di evidenziare che la censura relativa alla mancanza di “spiegazione” circa la percentuale del 20% applicata dall’Ufficio è assolutamente generica, posto che in essa non si chiarisce neppure se tale percentuale sia stata applicata nell’avviso opposto ovvero nell’avviso relativo alle imposte dirette, e peraltro non si chiarisce se e quando tale specifica questione sia stata in precedenza proposta ai giudici di merito, non risultando tale circostanza dalla sentenza impugnata.

Per tutto quanto sopra esposto il ricorso deve essere rigettato. Le spese seguono la soccombenza.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente alle spese del presente giudizio di legittimità che liquida in Euro 1.700,00 di cui Euro 1.500,00 per onorari, oltre spese generali e accessori di legge.

Così deciso in Roma, il 25 ottobre 2010.

Depositato in Cancelleria il 20 gennaio 2011

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