Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 12015 del 06/05/2021

Cassazione civile sez. I, 06/05/2021, (ud. 22/03/2021, dep. 06/05/2021), n.12015

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SCOTTI Umberto Luigi Cesare Giuseppe – Presidente –

Dott. PARISE Clotilde – Consigliere –

Dott. PAZZI Alberto – rel. Consigliere –

Dott. DOLMETTA Aldo Angelo – Consigliere –

Dott. OLIVA Stefano – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso n. 13901/2019 proposto da:

M.A., elettivamente domiciliato in Roma, Piazza Dei Consoli

n. 62, presso lo studio dell’Avvocato Enrica Inghilleri, che lo

rappresenta e difende giusta procura speciale in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

Ministero dell’Interno, in persona del Ministro pro tempore,

domiciliato in Roma, via dei Portoghesi n. 12, presso l’Avvocatura

Generale dello Stato, che lo rappresenta e difende ope legis;

– controricorrente –

avverso il decreto del Tribunale di Roma depositato il 19/3/2019;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

22/3/2021 dal Cons. Dott. Alberto Pazzi.

 

Fatto

RILEVATO

che:

1. Il Tribunale di Roma, con decreto del 19 marzo 2019, rigettava il ricorso proposto da M.A., cittadino del Bangladesh, avverso il provvedimento emesso dalla locale Commissione territoriale di diniego di riconoscimento della protezione internazionale.

Il Tribunale – fra l’altro e per quanto qui di interesse – riteneva credibile il racconto del migrante, il quale aveva dichiarato di essersi allontanato dal paese di origine per sfuggire a minacce e aggressioni dello zio, il quale non era stato soddisfatto della divisione dell’eredità del padre e intendeva impossessarsi della casa dove il M. viveva con genitori e fratelli.

Ciò nonostante escludeva che potessero essere riconosciuti sia lo status di rifugiato, in mancanza delle ragioni legittimanti, sia la protezione sussidiaria, perchè la storia narrata configurava una vicenda familiare e di giustizia ordinaria non riconducibile ai presupposti di tale forma di protezione, tenuto conto, peraltro, che la polizia aveva fornito soccorso ed era difficilmente configurabile il concreto timore che si verificassero ulteriori ritorsioni.

Le informazioni internazionali disponibili, inoltre, non restituivano rispetto al paese di provenienza l’immagine di un luogo colpito da violenza endemica al punto che la sola presenza sul territorio potesse costituire un rischio per l’incolumità, dovendosi di conseguenza escludere il riconoscimento della protezione sussidiaria D.Lgs. n. 251 del 2007, ex art. 14, lett. c).

Nè sussistevano i presupposti per l’attribuzione della protezione umanitaria, in considerazione del fatto che il migrante disponeva in patria di un reddito sufficiente a garantirgli una vita dignitosa e del raggiungimento di un livello non elevato di integrazione all’interno del paese ospitante.

2. Per la cassazione di tale decreto ha proposto ricorso M.A., prospettando due motivi di doglianza, ai quali ha resistito con controricorso il Ministero dell’Interno.

Diritto

CONSIDERATO

che:

3. Il primo motivo di ricorso prospetta la violazione e falsa applicazione degli artt. 1 A della Convenzione di Ginevra, D.Lgs. n. 251 del 2007, artt. 3, 5 e 14, D.Lgs. n. 25 del 2008, artt. 8 e 11, oltre che un vizio di motivazione, in quanto il Tribunale, senza alcun approfondimento e analisi della specifica situazione personale del ricorrente, aveva erroneamente omesso di ravvisare elementi idonei a ritenere che il M., in caso di rimpatrio, avrebbe corso il rischio effettivo di subire un grave danno.

Il collegio di merito aveva anche tralasciato di verificare se in concreto gli episodi di violenza generalizzata e diffusa presenti in tutto il Bangladesh avessero raggiunto un livello tale da compromettere i diritti fondamentali alla vita, al lavoro e alla salute del richiedente asilo.

La doglianza, inoltre, denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 5, comma 6 T.U.I. e D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 32, comma 3, giacchè il Tribunale, nel disattendere la richiesta di riconoscimento della misura di protezione minore, si era limitato a un generico riferimento all’insussistenza di seri motivi che la giustificassero, senza tener conto dell’assenza di tutela dei diritti umani fondamentali o della situazione di grave instabilità politica e sociale attualmente presente in Bangladesh.

4. Il motivo risulta, nel suo complesso, inammissibile.

4.1 Il Tribunale ha escluso in primo luogo che la vicenda narrata fosse astrattamente riconducibile al rifugio e ai motivi ad esso sottesi, non essendo state prospettate situazioni persecutorie ricollegate a motivi di appartenenza a etnia, associazione, credo politico e religioso ovvero correlate a tendenze e stili di vita personali.

Sul punto nessuna censura è stata proposta, dovendosi di conseguenza constatare che le critiche con cui si lamenta il mancato riconoscimento della situazione persecutoria prevista dalla Convenzione di Ginevra manchino di confrontarsi con la decisione impugnata e non indichino alcuna specifica ragione per la quale la stessa debba considerarsi errata.

4.2 Rispetto alla vicenda personale raccontata dal migrante il Tribunale, pur giudicando verosimile il racconto, ha ritenuto che lo stesso non integrasse i presupposti per ravvisare il pericolo di subire un danno grave in caso di rimpatrio, non solo perchè la storia narrata configurava una “vicenda familiare e di giustizia ordinaria che nulla ha a che vedere con la protezione internazionale”, ma anche perchè la polizia aveva fornito protezione quando l’aggressione era stata denunciata e comunque era “difficilmente configurabile” la possibilità “di subire ulteriori ritorsioni”.

Si tratta di accertamenti che, oltre a non essere stati censurati tutti e specificamente, rientrano nel giudizio di fatto demandato al giudice di merito e non possono essere rivisti in questa sede di legittimità attraverso una diversa lettura dei fatti di causa.

4.3 La giurisprudenza di questa Corte è ferma nel ritenere che “ai fini del riconoscimento della protezione sussidiaria, a norma del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c), la nozione di violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato, interno o internazionale, in conformità con la giurisprudenza della Corte di giustizia UE (sentenza 30 gennaio 2014, in causa C-285/12), deve essere interpretata nel senso che il conflitto armato interno rileva solo se, eccezionalmente, possa ritenersi che gli scontri tra le forze governative di uno Stato e uno o più gruppi armati, o tra due o più gruppi armati, siano all’origine di una minaccia grave e individuale alla vita o alla persona del richiedente la protezione sussidiaria. Il grado di violenza indiscriminata deve aver pertanto raggiunto un livello talmente elevato da far ritenere che un civile, se rinviato nel Paese o nella regione in questione correrebbe, per la sua sola presenza sul territorio, un rischio effettivo di subire detta minaccia” (Cass. 18306/2019).

E’ dunque dovere del giudice verificare, avvalendosi dei poteri officiosi di indagine e informazione di cui al D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, comma 3, se una simile situazione di esposizione a pericolo per l’incolumità fisica indicata dal ricorrente, astrattamente riconducibile alla situazione di rischio tipizzata dalla norma, sia effettivamente sussistente nel paese nel quale dovrebbe essere disposto il rimpatrio, sulla base di un accertamento che deve essere aggiornato al momento della decisione (Cass. 17075/2018).

Il Tribunale si è ispirato a simili criteri, prendendo in esame una serie informazioni aggiornate al dicembre 2017 sulla situazione esistente in Bangladesh e traendone argomento per escludere l’esistenza di una violenza endemica al punto che la sola presenza sul territorio possa costituire un rischio per l’incolumità.

Ora, l’accertamento della situazione di “violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale”, che sia causa per il richiedente di una sua personale e diretta esposizione al rischio di un danno grave a mente del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, implica un apprezzamento di fatto rimesso al giudice del merito, non censurabile in sede di legittimità al di fuori dei limiti di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 (Cass. 32912/2019, Cass. 32064/2018, Cass. 30105/2018, Cass. 13712/2012).

La critica in esame, sotto le spoglie dell’asserita violazione di legge, cerca invece di sovvertire nel merito l’esito dell’esame dei rapporti internazionali apprezzati dal Tribunale, malgrado l’accertamento del verificarsi di una situazione di violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato, interno o internazionale, rilevante a norma del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c), costituisca un apprezzamento di fatto di esclusiva competenza del primo giudice non rivedibile nè rinnovabile avanti a questa Corte.

4.4 La riconosciuta situazione generale del paese (di persistente instabilità e costante fermento del clima politico, con scontri fra il partito al potere e quelli di opposizione, stando all’accertamento del giudice di merito) non giustificava poi, di per sè, il riconoscimento della protezione umanitaria.

In vero il riconoscimento del diritto al permesso di soggiorno per ragioni umanitarie, quale misura atipica e residuale, è il frutto della valutazione della specifica condizione personale di particolare vulnerabilità del richiedente.

Ne consegue che a tal fine non è sufficiente la mera allegazione delle condizioni generali del paese di origine a cui non si accompagni l’indicazione di come siffatta situazione influisca sulle condizioni personali del richiedente asilo provocando una particolare condizione di vulnerabilità.

5. Il secondo motivo di ricorso lamenta, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, l’omesso esame di fatti decisivi per il giudizio e discussi fra le parti, oltre che il vizio di motivazione: il Tribunale avrebbe offerto “una lettura travisata, quindi omissiva, di fatti decisivi”, costituiti dalla gravità dei pericoli in cui sarebbe incorso il M. nel paese di origine, dal fatto che i gravi crimini riferiti non erano stati puniti ed erano endemici, in assenza di una reale tutela da parte dello Stato, dalla presumibile riconducibilità del ricorrente, per la gravità dello scontro fra opposte fazioni della stessa famiglia, a una condizione di bersaglio primario degli autori delle violenze e dalla gravità della situazione di sicurezza interna del paese.

6. Il motivo è inammissibile.

Rispetto alle circostanze indicate la doglianza lamenta non tanto un omesso esame (o un esame non argomentato), ma un esame non conforme alla lettura che l’odierno ricorrente vorrebbe dare delle emergenze processuali; interpretazione, questa, che tuttavia non è coerente nè con la censura sollevabile ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, che consente di dolersi dell’omissione dell’esame di un fatto controverso e decisivo per il giudizio e non della valorizzazione di tale fatto in un senso differente da quello voluto dalla parte, nè con la denuncia di un vizio di motivazione – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, in relazione all’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4, che è volta a rappresentare l’esistenza di una motivazione intrinsecamente inidonea ad assolvere la funzione di rappresentare il ragionamento seguito dal giudice per la formazione del proprio convincimento e rendere così percepibile il fondamento della decisione.

La critica in esame si riduce, invece, a un tentativo di offrire una diversa lettura delle emergenze processuali, la cui cernita e valutazione competono esclusivamente al giudice di merito e possono essere sindacate in questa sede di legittimità soltanto sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico-formale delle argomentazioni svolte dal giudice di merito; peraltro l’errore di valutazione delle prove, consistente nel ritenere una fonte di prova dimostrativa o meno del fatto che con essa si intendeva provare, non è sindacabile avanti a questa Corte, non essendo previsto dalla tassonomia dei vizi denunciabili con il ricorso per cassazione di cui all’art. 360 c.p.c. (Cass. 9356/2017).

7. Per tutto quanto sopra esposto, il ricorso deve essere dichiarato inammissibile.

Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo.

PQM

La Corte dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al rimborso delle spese del giudizio di cassazione, che liquida in Euro 2.100 oltre a spese prenotate a debito.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, ove dovuto.

Così deciso in Roma, il 22 marzo 2021.

Depositato in Cancelleria il 6 maggio 2021

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