Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 12014 del 16/05/2017


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Cassazione civile, sez. III, 16/05/2017, (ud. 15/03/2017, dep.16/05/2017),  n. 12014

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SPIRITO Angelo – Presidente –

Dott. SCARANO Luigi Alessandro – Consigliere –

Dott. RUBINO Lina – rel. Consigliere –

Dott. TATANGELO Augusto – Consigliere –

Dott. D’ARRIGO Cosimo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 12358-2014 proposto da:

LINUS SRL, in persona del legale rappresentante ed amministratore

unico nonchè liquidatore sig. T.L., elettivamente

domiciliata in ROMA, VIA CIPRO 77, presso lo studio dell’avvocato

GERARDO RUSSILLO, rappresentata e difesa dall’avvocato GIANFRANCO

CARDINALE giusta procura a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

A.A.M.;

– intimata –

avverso la sentenza n. 3644/2013 della CORTE D’APPELLO di NAPOLI,

depositata il 05/11/2013;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

15/03/2017 dal Consigliere Dott. LINA RUBINO.

Fatto

RAGIONI IN FATTO E IN DIRITTO DELLA DECISIONE

La Linus s.r.l. in persona del suo liquidatore propone un unico motivo di ricorso per cassazione nei confronti di A.A.M., + ALTRI OMESSI

Gli intimati resistono con controricorso.

La società conduttrice sosteneva di aver apportato all’immobile alcune modifiche autorizzate dal locatore fin dalla stipula del contratto, necessarie per poterlo adibire all’uso di palestra – centro di cura e riabilitazione oggetto della propria attività.

Il tribunale in prime cure liquidava in favore della ricorrente solo un modesto importo, ritenendo potessero essere prese in considerazione solo alcune modifiche eseguite dalla Linus s.r.l., e non anche quelle eseguite dalla precedente conduttrice Centro Eidon s.r.l., che se ne era accollato il costo. La corte d’appello confermava integralmente la decisione di primo grado ritenendo che dalle modifiche effettuate non discendesse un incremento del valore dell’immobile, essendo funzionalizzate solo a renderlo maggiormente idoneo all’uso che di esso intendeva fare il conduttore.

Con l’unico motivo di ricorso, la Linus deduce la violazione e falsa applicazione dell’art. 1592 c.c. e dei principi che regolano la necessità di indennizzare il conduttore per i miglioramenti apportati all’immobile locato. Contesta il percorso motivazionale della sentenza di appello che, aderendo alle conclusioni del c.t.u., ha escluso che tutta una serie di opere effettivamente realizzate nell’immobile fossero qualificabili come migliorie, escludendo cioè che avessero apportato all’immobile un aumento di valore, accrescendone in modo durevole il godimento, la produttività, la redditività. La ricorrente ribadisce che gli interventi eseguiti non su semplici arredi, ma su elementi della struttura fissa (quali l’apertura di un accesso per disabili) erano interventi necessari a mantenere l’immobile locato conforme alla sua destinazione d’uso a palestra e centro riabilitativo e non solo a renderla maggiormente fruibile per l’uso che intendeva farne il conduttore.

Il motivo è inammissibile.

La corte d’appello afferma che gli interventi eseguiti dal conduttore per rendere l’immobile maggiormente idoneo alla attività che intende esercitare all’interno di esso non sono di per sè riconducibili a migliorie anche se sono conformi con la destinazione d’uso dell’immobile stesso. Afferma che occorrerebbe a questo scopo che essi avessero i caratteri obiettivi delle migliorie, ovvero che si trattasse di opere che comportino per l’immobile un aumento di valore, accrescendone in modo durevole il godimento, la produttività, la redditività, senza presentare una propria individualità rispetto al bene con cui vanno ad incorporarsi (secondo quanto indicato da questa Corte: v. Cass. n. 13070 del 2004). Ciò detto, essa esclude, tramite giudizio in fatto, che molti degli interventi abbiano queste caratteristiche obiettive (pavimenti in pvc, pareti in cartongesso), e per altri ne esclude l’indennizzabilità per le loro modalità di esecuzione, che escludono un accrescimento di valore dell’immobile (opere eseguite senza autorizzazione, interventi sull’impianto elettrico non a norma, non distinguibili dall’impianto preesistente, addizioni con beni non a norma, quali la porta di sicurezza priva di certificazione).

La ricorrente ripercorre tutta la motivazione della corte d’appello, criticandola, ma in realtà tende a criticarne l’accertamento in fatto, e non la ricostruzione in diritto, sollecitando questa Corte ad una, in questa sede inammissibile, rivisitazione del giudizio sul fatto compiuto dal giudice di appello, ed inoltre essa appare largamente mirata verso una critica diretta delle conclusioni cui perviene il consulente tecnico, anch’essa del tutto inammissibile.

Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come al dispositivo.

Al presente giudizio è applicabile ratione temporis l’art. 385 c.p.c., comma 4, a norma del quale “quando pronuncia sulle spese (..) la Corte, anche d’ufficio, condanna (..) la parte soccombente al pagamento, a favore della controparte, di una somma, equitativamente determinata, non superiore al doppio dei massimi tariffari, se ritiene che essa ha proposto il ricorso o vi ha resistito anche solo con colpa grave”.

Tale norma è stata infatti aggiunta dal D.Lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, art. 13 e, per espressa previsione dell’art. 27, comma 2 medesimo decreto, si applica ai ricorsi per cassazione proposti avverso le sentenze pubblicate a decorrere dalla data di entrata in vigore del decreto medesimo, avvenuta il 2 marzo 2006.

L’art. 385 c.p.c., comma 4, è stato abrogato dalla L. 18 giugno 2009, n. 69, art. 46, comma 20.

Tuttavia, per espressa previsione della stessa L. n. 69 del 2009, art. 58 “le disposizioni della presente legge che modificano il codice di procedura civile (..) si applicano a i giudizi instaurati dopo la data della sua entrata in vigore”, vale a dire dopo 4 luglio 2009.

Nel presente giudizio è pertanto applicabile catione temporis l’art. 385 c.p.c., comma 4, (come già ritenuto da Sez. 3, Sentenza n. 22812 del 07/10/2013, in motivazione), in quanto:

(a) il ricorso per cassazione ha ad oggetto una sentenza pronunciata dopo il 2 marzo 2006;

(b) essendo il giudizio in primo grado iniziato prima del 4 luglio 2009, ad esso non si applica l’abrogazione dell’art. 385 c.p.c., comma 4, disposta dalla L. n. 69 del 2009.

V’è solo da aggiungere, per completezza, che il precetto già contenuto nell’art. 385 c.p.c., comma 4, per i giudizi introdotti dopo il 4 luglio 2009 non è stato soppresso, ma semplicemente trasferito nell’art. 96 c.p.c., comma 3 come novellato dalla citata L. n. 69 del 2009, art. 45, comma 12. Scelta, quest’ultima, la quale palesa la evidente volontà del legislatore non solo di tenere fermo il principio medesimo, ma anzi di rafforzarlo, spostando la relativa previsione in una disposizione di carattere generale ed applicabile a qualsiasi tipo di giudizio.

Agire o resistere in giudizio con mala fede o colpa grave vuoi dire azionare la propria pretesa, o resistere a quella avversa, con la coscienza dell’infondatezza della domanda o dell’eccezione; ovvero senza aver adoperato la normale diligenza per acquisire la coscienza dell’infondatezza della propria posizione.

Nel caso di specie, il ricorrente ha proposto un ricorso inammissibile, nel quale pone in discussione il completo accertamento in fatto contenuto nella sentenza di appello e già nel giudizio di primo grado, segno di una pretesa palesemente infondata cercando di indurre la Corte ad effettuare un terzo giudizio di merito.

Da ciò deriva che delle due l’una: o il ricorrente – e per lui il suo legale, del cui operato ovviamente il ricorrente risponde, nei confronti della controparte processuale, ex art. 2049 c.c. – ben conosceva l’insostenibilità della propria impugnazione, ed allora ha agito sapendo di sostenere una tesi infondata, ovvero non ne era al corrente, ed allora ha tenuto una condotta altrettanto biasimevole e gravemente colposa, consistita nel non essersi adoperato con la exacta diligentia esigibile (in virtù del generale principio desumibile dall’art. 1176 c.c., comma 2) da chi è chiamato ad adempiere una prestazione professionale altamente qualificata quale è quella dell’avvocato in generale, e dell’avvocato cassazionista in particolare.

La ricorrente va, dunque, condannata di ufficio ai sensi dell’art. 385 c.p.c., comma 4, al pagamento in favore della parte intimata, in aggiunta alle spese di lite, d’una somma equitativamente determinata a titolo di risarcimento del danno.

Tale somma va determinata assumendo a parametro di riferimento l’importo delle spese dovute alla parte vittoriosa per questo grado di giudizio, e nella specie può essere fissata in via equitativa ex art. 1226 c.c. nell’importo di Euro 8.000, oltre interessi legali dalla data di pubblicazione della presente ordinanza.

Atteso che il ricorso per cassazione è stato proposto in tempo posteriore al 30 gennaio 2013, ed in ragione della soccombenza della ricorrente, la Corte, ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte della ricorrente di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

PQM

La Corte dichiara inammissibile il ricorso. Pone a carico della ricorrente le spese di giudizio sostenute dai controricorrenti, che liquida in complessivi Euro 8.200,00, di cui 200,00 per spese, oltre contributo spese generali ed accessori.

Liquida a carico della ricorrente un ulteriore importo di Euro 8.000,00 ex art. 385 c.p.c., comma 4.

Dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte della ricorrente di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale.

Motivazione semplificata.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Corte di cassazione, il 15 marzo 2017.

Depositato in Cancelleria il 16 maggio 2017

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