Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 12010 del 19/06/2020

Cassazione civile sez. trib., 19/06/2020, (ud. 06/02/2020, dep. 19/06/2020), n.12010

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CHINDEMI Domenico – Presidente –

Dott. FASANO Anna Maria – Consigliere –

Dott. LO SARDO Giuseppe – rel. Consigliere –

Dott. MONDINI Antonio – Consigliere –

Dott. PENTA Andrea – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 5889/2014 R.G., proposto da:

l’Agenzia delle Entrate, con sede in Roma, in persona del Direttore

Generale pro tempore, rappresentata e difesa dall’Avvocatura

Generale dello Stato, ove per legge domiciliata;

– ricorrente –

contro

Z.F., rappresentato e difeso dall’Avv. Isabella Vitale,

con studio in Bari, elettivamente domiciliato presso l’Avv. Claudio

Lucisano, giusta procura in margine al controricorso di costituzione

nel presente procedimento;

– controricorrente –

avverso la sentenza depositata dalla Commissione Tributaria Regionale

di Bari – Sezione Staccata di Lecce il 14 gennaio 2013 n.

20/23/2013, non notificata;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non

partecipata del 6 febbraio 2020 dal Dott. Lo Sardo Giuseppe;

Fatto

RILEVATO

CHE:

L’Agenzia delle Entrate ricorre per la cassazione della sentenza depositata dalla Commissione Tributaria Regionale di Bari – Sezione Staccata di Lecce il 14 gennaio 2013 n. 20/23/2013, non notificata, che, in controversia su impugnazione di un avviso di recupero per indebita fruizione del credito di imposta per incremento dell’occupazione (L. 23 dicembre 2000, n. 388, ex art. 7) in ordine agli anni 2001 e 2002, ha respinto l’appello proposto dalla stessa nei confronti di Z.F. avverso la sentenza depositata dalla Commissione Tributaria Provinciale di Brindisi il 31 settembre 2005 n. 12/03/05. La Commissione Tributaria Regionale ha riformato la decisione di prime cure sul presupposto che l’avviso di recupero del credito di imposta, in quanto forma di accertamento attinente all’illegittimità del suo utilizzo, non poteva essere emesso in pendenza del condono c.d. “tombale”. Z.F. si è costituito con controricorso.

Diritto

CONSIDERATO

CHE:

1. Con il primo motivo, si deduce violazione e falsa applicazione della L. 27 dicembre 2002, n. 289, art. 9, nonchè della L. 23 dicembre 2000, n. 388, art. 7, comma 4, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per aver erroneamente ritenuto che la definizione automatica della posizione fiscale del contribuente comportasse la preclusione di ogni accertamento tributario e, quindi, la decadenza dell’amministrazione finanziaria dal potere di recuperare il credito di imposta indebitamente fruito.

2. Con il secondo motivo, si denuncia violazione dell’art. 112 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, per aver omesso di pronunciarsi sull’eccezione riproposta in sede di appello dall’amministrazione finanziaria circa la recuperabilità del credito di imposta in ordine all’anno 2002 per la mancata definizione automatica.

RITENUTO CHE:

1. Il primo motivo è fondato, derivandone l’assorbimento del secondo motivo.

Questa Corte ha già avuto reiterata occasione di affermare che, in tema di condono fiscale, non è inibito all’erario l’accertamento diretto a dimostrare l’inesistenza del diritto a conseguirlo, atteso che il condono elide, in tutto o in parte, per sua natura, il debito fiscale, ma non opera sui crediti che il contribuente possa vantare nei confronti del fisco, che restano soggetti – sia nell’ipotesi di cui all’art. 9, che in quella minore di cui alla L. 27 dicembre 2002, n. 289, art. 15, in cui l’oggetto di definizione non è il tributo, ma la lite potenziale – all’eventuale contestazione da parte dell’ufficio (Cass., Sez. 5, 26 settembre 2014, n. 20433; Cass., Sez. 5, 8 aprile 2015, n. 6982; Cass., Sez. 5, 3 agosto 2016, n. 16157; Cass., Sez. 5, 4 novembre 2016, n. 22436).

Nessuna preclusione è, invero, in tal senso argomentabile, come ha chiarito il giudice delle leggi (Corte Cost., 27 luglio 2005 n. 340), dalla L. 27 dicembre 2002, n. 289, art. 9, commi 9 e 10, ove si afferma, rispettivamente, che la definizione automatica delle imposte non modifica l’importo degli eventuali rimborsi e crediti derivanti dalle dichiarazioni presentate ai fini delle imposte sui redditi e relative addizionali, dell’imposta sul valore aggiunto, nonchè dell’imposta regionale sulle attività produttive e determina la preclusione, nei confronti del dichiarante e dei soggetti coobbligati, di ogni accertamento tributario, vero che la prima va intesa nel senso che il condono non influisce di per sè sull’ammontare delle somme chieste a rimborso, non impone al contribuente la rinuncia al credito e non impedisce all’erario di accogliere tali richieste, allorchè la pretesa di rimborso sia riscontrata fondata e la seconda preclude, bensì, l’accertamento dei debiti tributari dei contribuenti che hanno ottenuto il condono, ma non impedisce l’accertamento dell’inesistenza dei crediti posti a base delle richieste di rimborso, data la natura propria del condono, che incide sui debiti tributari dei contribuenti e non sui loro crediti (Cass., Sez. 5, 4 novembre 2016, n. 22436). E’, dunque, palese l’errore di diritto in cui è incorso il giudice di appello ritenendo che gli effetti definitori del condono si comunichino anche ai crediti esposti in dichiarazione, “cristallizzando” la relativa pretesa ed impedendo l’esercizio di ogni azione accertatrice da parte del fisco.

2. Cassata perciò la sentenza impugnata, la causa non abbisogna di ulteriori accertamenti di fatto e può essere decisa nel merito ai sensi dell’art. 384 c.p.c., comma 2, mediante il rigetto del ricorso originario del contribuente.

3. Le spese seguono la soccombenza nel presente giudizio, mentre possono essere compensate per i gradi di merito, attesa la stabilizzazione del quadro interpretativo successivamente al ricorso.

P.Q.M.

La Corte accoglie il primo motivo, dichiara l’assorbimento del secondo motivo, cassa la sentenza impugnata e, decidendo nel merito, rigetta il ricorso originario del contribuente; compensa le spese dei giudizi di merito; condanna il contribuente alla rifusione del giudizio di legittimità in favore dell’amministrazione finanziaria, che liquida nella somma complessiva di Euro 1.400,00 per compensi, oltre spese prenotate a debito ed altri accessori di legge.

Così deciso in Roma, il 6 febbraio 2020.

Depositato in cancelleria il 19 giugno 2020

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