Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 11992 del 10/06/2016


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Cassazione civile sez. I, 10/06/2016, (ud. 27/04/2016, dep. 10/06/2016), n.11992

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SALVAGO Salvatore – Presidente –

Dott. GIANCOLA Maria Cristina – Consigliere –

Dott. SAMBITO Maria Giovanna – Consigliere –

Dott. VALITUTTI Antonio – Consigliere –

Dott. TERRUSI Francesco – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 27326-2014 proposto da:

IMPRESA C.R. & C. S.R.L., in persona del legale

rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA

PIAVE 52, presso l’avvocato VITA LUCREZIA VACCARELLA, che la

rappresenta e difende, giusta procura a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

T.L.A., elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE LIEGI

32, presso l’avvocato MARCELLO CLARICH, che la rappresenta e

difende unitamente all’avvocato ALESSANDRO GIADROSSI, giusta

procura a margine del controricorso;

COMUNE DI TRIESTE, in persona del Sindaco pro tempore, elettivamente

domiciliato in ROMA, VIA EMILIO DE’ CAVALIERI 11, presso l’avvocato

ALDO FONTANELLI, che lo rappresenta e difende unitamente agli

avvocati MARIA SERENA GIRALDI, MARITZA FILIPUZZI, giusta procura a

margine del controricorso;

S.A., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA PARIOLI 180,

presso l’avvocato SANINO MARIO, che la rappresenta e difende

unitamente all’avvocato SBISA’ GIUSEPPE, giusta procura a margine

del controricorso;

– controricorrente –

contro

ALLIANZ S.P.A., DROSSI UBERTO FORTUNA;

– intimati –

avverso la sentenza n. 371/2014 della CORTE D’APPELLO di TRIESTE,

depositata il 15.7.2014;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

27/04/2016 dal Consigliere Dott. FRANCESCO TERRUSI;

udito, per la ricorrente, l’Avvocato VITA LUCREZIA VACCARELLA che

ha chiesto l’accoglimento del ricorso;

udito, per il controricorrente COMUNE DI TRIESTE, l’Avvocato ALDO

FONTANELLI che ha chiesto il rigetto del ricorso;

udito, per la controricorrente S., l’Avvocato RICCARDO ARBIB,

con delega, che ha chiesto il rigetto del ricorso;

udito, per la controricorrente T., l’Avvocato CHIARA CARLI,

con delega avv. CLARICH che ha chiesto il rigetto del ricorso;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

CAPASSO Lucio, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Nell’anno 1999 il comune di Trieste appaltava alla C. R. & c. s.r.l. le opere di rifacimento del giardino pubblico “(OMISSIS)”, sulla base di un progetto redatto dall’arch.

T.L., nominata direttore dei lavori.

Con atto di citazione del dicembre 2005 la società conveniva in giudizio il comune committente, il direttore dei lavori, il responsabile del procedimento, arch. S.A., che aveva validato il progetto esecutivò e l’assessore pro tempore ai lavori pubblici D.U.F., onde sentirli condannare, previa risoluzione del contratto per inadempimento del comune, al pagamento del corrispettivo dei lavori e al risarcimento dei danni.

Avutasi la chiamata in causa anche della compagnia assicurativa Lloyd adriatico s.p.a., il tribunale di Trieste pronunciava la risoluzione del contratto per inadempimento del comune, che condannava al pagamento della somma di Euro 236.236,80 oltre accessori; rigettava ogni altra domanda.

Su gravame della società C. la corte d’appello di Trieste, per quanto in effetti ancora rileva, condannava il comune al pagamento dell’ulteriore complessiva somma di Euro 23.097,84, per le spese generali, la perdita di utili e il vincolo di macchinari e attrezzature, e rivedeva al rialzo anche la liquidazione di quanto era stato oggetto di una delle riserve dell’appaltatore, con il riconoscimento in suo favore dell’ulteriore somma di Euro 5.742,71.

Avverso la sentenza, depositata il 15-7-2014 e non notificata, la società C. ha proposto ricorso per cassazione affidato a nove mezzi, il terzo dei quali a sua volta articolato in tre censure.

Si sono costituiti con controricorso il comune di Trieste e gli arch.

T. e S..

Non hanno svolto difese D.F. e la Allianz s.p.a. (già Lloyd adriatico s.p.a.).

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1 – Col primo motivo, deducendo violazione e falsa applicazione dell’art. 161 c.p.c., comma 1, artt. 342 e 112 c.p.c., la società lamenta che l’impugnata sentenza, prioritariamente esaminando l’ultimo motivo di appello che aveva denunziato un’omissione motivazionale del primo giudice per la apodittica recezione delle conclusioni della c.t.u., abbia dichiarato l’inammissibilità della doglianza con motivazione sibillina, avulsa da un esame contenutistico e dalla richiesta di rinnovazione della consulenza, e integrante, in contrasto con le norme richiamate, il vizio di omessa pronuncia.

Il motivo va disatteso.

La corte d’appello di Trieste ha dichiarato inammissibile la censura in quella sede prospettata osservando che l’appellante non aveva evidenziato alcun vizio che non rientrasse nel principio di conversione e di assorbimento delle nullità in motivi di gravame ai sensi dell’art. 161 c.p.c., comma 1.

Una tale affermazione integra la pronuncia, che dunque non può considerarsi omessa.

Non è dato riscontrare, a mezzo di essa, la violazione processuale eccepita dalla ricorrente con gli ulteriori riferimenti agli artt. 342 e 161 c.p.c..

Il cuore del problema, per quanto la stessa ricorrente riferisce, era consistito nell’avere il tribunale prestato acritica adesione alla c.t.u. di cui, in appello, veniva chiesta la rinnovazione.

Può convenirsi che la risposta a tal riguardo fornita dalla corte d’appello sia stata criptica, ma va osservato che al fondo della stessa si rinviene comunque la decisione di non disporre una nuova indagine tecnica in luogo di quella espletata in primo grado.

La decisione, anche implicita, di non disporre una nuova indagine tecnica non è sindacabile in sede di legittimità qualora gli elementi di convincimento per disattendere la richiesta di rinnovazione della consulenza formulata da una delle parti siano stati tratti dalle risultanze probatorie già acquisite e ritenute esaurienti dal giudice (v. per tutte Sez. 1^ n. 25569-10, Sez. 3^ 1477414). La regola valutativa è invero opposta a quella implicitamente ritenuta dalla ricorrente: il giudice di merito, ove intenda disporre una nuova c.t.u., è tenuto a motivare adeguatamente le ragioni che lo conducono a ignorare o a sminuire i dati risultanti dalla relazione già in atti; mentre non vale il contrario, rispondendo tale esigenza a ragioni di economia processuale e di contenimento dei costi del giudizio, oltre che al rispetto del canone di ragionevole durata (cfr. ex aliis Sez. lav. n. 18410-13, Sez. 3^ 20125-15).

– Col secondo motivo la ricorrente denunzia la violazione e falsa applicazione degli artt. 100 e 112 c.p.c., per avere la corte d’appello dichiarato inammissibile, per difetto di interesse, la doglianza avverso la decisione del tribunale nella parte in cui, statuendo la risoluzione del contratto per inadempimento del comune, aveva nel contempo attribuito inadempienze anche all’impresa.

Il motivo è in parte inammissibile e in parte infondato.

E’ inammissibile a misura del fatto che la ricorrente non identifica neppure in questa sede quale sarebbe stato l’interesse concreto sotteso alla doglianza, una volta appurato che il tribunale aveva giustappunto accolto la sua domanda di risoluzione. Essa lamenta che il giudice d’appello abbia, in nome della condotta non collaborativa dell’impresa nel periodo di vigenza dell’appalto, rigettato la domanda di danni extracontrattuali. Ma va osservato che il motivo dichiarato inammissibile non era stato calibrato sulla reiezione di simile domanda, ma sulla attribuzione di inadempienze reciproche;

sicchè non è dato comprendere quale sia il legame logico tra la citata sottolineatura e la questione sottostante.

Il motivo è invece infondato nel riferimento a una presunta omissione di pronuncia della corte d’appello, chiaro essendo che la pronuncia è stata adottata proprio a mezzo della declaratoria di inammissibilità.

3. – Col terzo mezzo la ricorrente propone, in unico contesto tre censure, variamente articolate.

4. – La prima di questa attiene alla violazione e falsa applicazione dell’art. 28 Cost. e del D.P.R. n. 3 del 1957, artt. 22 e 23 e art. 116 c.p.c., nonchè all’omesso esame di fatto decisivo oggetto di discussione tra le parti, relativamente alla statuizione con la quale la corte d’appello ha escluso la responsabilità extracontrattuale della T. e della S..

La censura è sotto tutti i profili inammissibile.

L’impugnata sentenza ha rigettato l’appello della società appaltatrice nella parte afferente la presunta responsabilità extracontrattuale della T. e della S. – la prima quale progettista e direttore dei lavori, la seconda quale responsabile del procedimento presso il comune.

Lo ha fatto perchè nessuna prova era stata fornita in ordine a una loro attività dolosamente preordinata ad arrecare all’impresa esecutrice un danno ingiusto, e perchè l’ipotizzato comportamento improntato a colpa non aveva travalicato l’ambito delle mansioni loro affidate dal comune.

Soltanto al comune, dunque, dovevano essere riferite le conseguenze della condotta addebitata alle due dipendenti sul piano della responsabilità risarcitoria.

Avverso tale statuizione la ricorrente viene a sostenere la generale applicabilità del T.U. n. 3 del 1957 anche al personale degli enti locali.

Ma è tesi irrilevante, dal momento che quanto osservato dalla corte territoriale circa l’improprietà del richiamo al T.U. del 1957, perchè a suo dire applicabile solo ai dipendenti dello Stato, non è entrato a far parte della ratio decidendi. La locuzione di esordio della corrispondente frase che compare nella motivazione – “a prescindere dall’osservare come (..)” – evidenzia essersi trattato di un mero obiter dictum.

Quanto invece alla specifica anzidetta ratio decidendi, la ricorrente censura la sentenza perchè “ha ritenuto l’assenza di prova che l’attività dei convenuti fosse animata da intento doloso”, in tale prospettiva essendosi ammantata “del vizio di omessa pronuncia, in violazione dell’art. 112 c.p.c., per non aver accertato se tale condotta, ipoteticamente non dolosa, fosse tuttavia il portato di una colpa grave”; colpa che la ricorrente reputa non esclusa dalla formale non esorbitanza dall’ambito delle mansioni assegnate.

La censura è inammissibile perchè il vizio di omessa pronuncia suppone l’omesso esame di una domanda o di un’eccezione introdotta in causa, non anche asserite omissioni valutative di circostanze valutabili a fini di prova.

Sul crinale di siffatta distinzione va sottolineata la differenza col vizio di motivazione (v. per tutte Sez. 5^ n. 25761-14, Sez. 6^-3 n. 25714-14), differenza che resta rilevante anche in rapporto agli attuali più stringenti limiti dettati, quanto all’art. 360 c.p.c., n. 5, dalla novella di cui al D.L. n. 83 del 2012, come conv. in L. n. 134 del 2012.

Infine, sempre nel medesimo contesto, la ricorrente sostiene che la corte d’appello, ritenendo non provato l’intento doloso delle convenute senza altrimenti supportare tale lapidaria affermazione, sia incorsa anche nella violazione dell’art. 116 c.p.c..

Per questa parte la censura è inammissibile, in quanto surrettiziamente intesa a sindacare il merito della valutazione probatoria.

L’art. 116 c.p.c. prescrive come regola generale quella secondo cui il giudice deve valutare le prove secondo prudente apprezzamento, a meno che la legge non disponga altrimenti.

L’asserita violazione di tale norma, rilevante ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 4, non può costituire mezzo per la revisione del giudizio di fatto.

Essa è concepibile solo se il giudice di merito valuti una determinata prova, o una risultanza probatoria, per la quale l’ordinamento non prevede uno specifico criterio di valutazione diverso dal suo prudente apprezzamento, pretendendo di attribuirle un altro e diverso valore (per esempio, il valore di prova legale);

oppure se il giudice dichiara di valutare secondo prudente apprezzamento una prova o una risultanza soggetta ad altra regola, così falsamente applicando e, quindi, violando la norma in discorso oltre che quelle che presiedono alla valutazione secondo il diverso criterio della prova medesima (cfr. Sez. 3^ n. 26965-07, n. 20112-09, Sez. lav. n. 13960-14).

La circostanza, invece, che il giudice abbia male esercitato il prudente apprezzamento della prova, trascurando specifiche circostanze di fatto, è censurabile solo sul versante della motivazione, coi limiti peraltro oggi caratterizzanti tale vizio ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5.

Nel caso di specie la ricorrente ha solo genericamente enunciato la mancata valutazione di elementi di prova, senza neppure specificamente delinearli in prospettiva di autosufficienza, e soprattutto ha confuso l’ambito dell’attuale sindacato indiretto della corte quanto alla questione di fatto.

Tale sindacato è riferibile solo al fatto storico di riferimento, e non a singoli elementi istruttori, così come indicato dalla sezioni unite di questa corte a proposito del nuovo testo dell’art. 360 c.p.c., n. 5, (cfr. Sez. un. n. 8053-14).

5. – Sempre nel terzo motivo di ricorso la società ulteriormente denunzia la violazione e falsa applicazione degli artt. 2699 e 2700 cod. civ. e del R.D. n. 350 del 1895, art. 27 e del D.P.R. n. 554 del 1999, art. 155 in relazione alla ritenuta inammissibilità della querela di falso proposta in via incidentale nei confronti dei documenti contabili redatti dalle due dipendenti.

Il motivo è parzialmente inammissibile perchè preventivamente suppone un sindacato di fatto in ordine al contenuto degli atti provenienti dalle convenute T. e S.; atti che la corte d’appello – con accertamento di fatto a essa istituzionalmente riservato – ha stabilito caratterizzati da semplici giudizi di ordine tecnico, poi rivelatisi errati.

Di conseguenza è anche infondato, in quanto la querela di falso non è esperibile avverso il documento che venga impugnato al fine di contestare aspetti del contenuto ideologico estranei ai limiti segnati dall’art. 2700 c.c., come appunto i semplici giudizi formulati all’esito di verifiche debitamente attestate (v. Sez. 1^ n. 695999, Sez. 3^ 12834-99).

L’atto pubblico, ai sensi dell’art. 2700 c.c., prova fino a querela di falso la provenienza di esso, gli atti compiuti dal pubblico ufficiale e i fatti che attesti essere avvenuti alla sua presenza. Ma non prova l’esattezza delle valutazioni del pubblico ufficiale medesimo.

Ove non si intenda contrastare l’attività immediatamente richiesta, percepita e constatata dal pubblico ufficiale nello svolgimento della funzione, ma appunto l’esattezza di sue conseguenti valutazioni, non vi è tema per la querela di falso.

6. – Infine, sempre nel terzo motivo, è dedotta la violazione e falsa applicazione degli artt. 2697, 2727 e 2729 c.c. relativamente alla statuizione con la quale la corte d’appello ha disatteso la domanda risarcitoria per danni conseguenti alla interdizione dell’impresa dalla partecipazione a successive gare indette dal comune di Trieste.

Questa censura è inammissibile per genericità, avendo la corte d’appello disatteso la domanda in quanto priva di supporto probatorio, non essendo stato neppure allegato quali fossero gli appalti pubblici dalla cui partecipazione l’impresa era stata esclusa.

Si tratta di una valutazione di pieno merito alla quale la ricorrente nulla di specifico oppone, salvo continuare a dolersi della asserita preclusione a non meglio indicate gare di appalto nel quinquennio successivo.

7. – Col quarto mezzo la società, deducendo violazione e falsa applicazione degli artt. 1362, 1363, 1364 e 1366 c.c., in relazione al D.P.R. n. 1063 del 1962, art. 16 e omesso esame di fatto decisivo, reputa errata la sentenza d’appello per aver escluso il diritto dell’impresa alla restituito in integrum, in ordine all’equivalente di tutti i costi sostenuti per eseguire i lavori, inclusi quelli maggiori, imprevisti e imprevedibili, sostenuti a causa del diverso e più lungo Iter inteso ad approvvigionare il cantiere; nello specifico, per maggiori oneri di trasporto e per alcuni chiusini di ghisa e tubazioni di pvc. Il motivo è inammissibile per incoerenza rispetto alle affermate violazioni normative, avendo la corte d’appello disatteso la pretesa sul rilievo che le spese di trasporto erano a carico dell’appaltatore finanche in base all’assunto rischio d’impresa.

Quanto ai chiusini, ai getti di calcestruzzo e alle tubazioni, l’impugnata sentenza ha disatteso la domanda in parte affermando già comprese le relative voci nel prezzo pattuito e in altra parte sostenendo difettare la prova di quanto eseguito.

Si tratta di valutazioni di pieno merito, congruamente motivate e insindacabili in questa sede.

8. – Egualmente inammissibile è il quinto mezzo, con cui si denunzia l’omesso esame di fatti decisivi, e segnatamente di emergenze istruttorie, a proposito della reiezione dei motivi settimo, ottavo e decimo dell’appello.

La ricorrente non tiene conto dei limiti di deduzione del vizio motivazionale in cassazione così come delineati nella citata decisione delle sezioni unite della corte (Sez. un. n. 8053-14).

E’ stato definitivamente chiarito che l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sè, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il “fatto storico”, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorchè la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie.

9. – Col sesto mezzo la società denunzia la violazione dell’art. 310 c.p.c., comma 2, e del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 21 oltre che il vizio di motivazione, per avere la corte d’appello erroneamente rigettato il quattordicesimo motivo di gravame col quale era stata chiesta la rifusione del danno conseguente al protratto e inoperoso vincolo dei macchinari e delle attrezzature di cui era stato dotato il cantiere per l’esecuzione dei lavori.

Il motivo è inammissibile per incoerenza rispetto alle affermate violazioni normative e, in ogni caso, perchè suppone un sindacato di fatto, avendo la corte d’appello prioritariamente affermato al netto di altre motivazioni che la c.t.u. aveva evidenziato l’impossibilità di ricostruire a distanza di tempo dalla dismissione del cantiere quali e quanti fossero stati i macchinari e le attrezzature effettivamente impiegate.

10. – Col settimo mezzo la ricorrente denunzia la violazione e falsa applicazione degli artt. 1453 e 1458 c.c. e della L. n. 109 del 1994, artt. 16, 17 e 18 per avere la corte territoriale rigettato il sedicesimo motivo di gravame attinente al ristoro delle spese sostenute per la redazione della progettazione esecutiva disposta dalla direzione dei lavori con ordine di servizio n. 1 del 2000.

Il motivo è prioritariamente inammissibile per difetto di autosufficienza, avendo la corte d’appello affermato che la questione non era stata denunciata in primo grado con la dovuta specificità. E la ricorrente non ha riportato nel suo ricorso, neppure per tratto saliente, come in concreto il detto profilo era stato in effetti prospettato dinanzi al tribunale.

11. – L’ottavo mezzo denunzia la violazione dell’art. 1206 c.c., in relazione all’art. 1223 c.c., riguardo alla statuizione con la quale la corte territoriale ha disatteso il diciassettesimo motivo d’appello con cui era stato invocato il risarcimento del danno correlato alla maggiore onerosità dell’esecuzione dei lavori di rifacimento del giardino, in conseguenza delle particolari e deficitarie condizioni organizzative determinate da ordini contraddittori delle due dipendenti T. e S..

Anche questo motivo è inammissibile.

La corte d’appello ha respinto la tesi della società perchè “a tratti di difficile comprensione” e perchè in ogni caso non provata nell’an, in base agli accertamenti svolti dal c.t.u.

La seconda valutazione è di pieno merito ed è anche assorbente.

Di essa la ricorrente si limita a chiedere una semplice rivisitazione, ovviamente non consentita in sede di legittimità.

12. – Infine col nono motivo la società denunzia la violazione e falsa applicazione dell’art. 310 c.p.c. e la violazione delle norme sulle opere pubbliche prescriventi, a carico del direttore dei lavori, l’obbligo di predisporre la contabilità.

Siffatta ultima doglianza è tesa peraltro a contrastare la statuizione con cui la corte territoriale ha respinto il diciannovesimo motivo d’impugnazione, con cui era stata censurata un’omissione di pronuncia del tribunale sulla domanda di rimborso delle spese di c.t.u. in precedente giudizio instaurato tra le medesime parti.

La corte d’appello ha disatteso la domanda perchè quel giudizio si era estinto per inattività delle parti, donde le spese dovevano rimanere a carico delle parti che le avevano anticipate.

La ricorrente sostiene che la corte non avrebbe fatto corretta applicazione dell’art. 310 c.p.c., in quanto le prove raccolte nel giudizio estinto erano state poste a fondamento della successiva decisione di primo grado, la quale si era basata su una (nuova) c.t.u. che tuttavia aveva fatto propri gli accertamenti di quella espletata nell’ambito del giudizio estinto.

Il motivo è totalmente infondato e anzi addirittura eccentrico rispetto alla disciplina normativa evocata. La circostanza che il giudice possa trarre argomenti di prova dal materiale istruttorio –

ivi compresa una c.t.u. – raccolto nell’ambito del giudizio estinto (art. 310 c.p.c., comma 3) nulla toglie al fatto che le spese di quel giudizio estinto restino a carico delle parti che le hanno anticipate. Ed è pretestuoso il tentativo di ottenere una rivisitazione del criterio distributivo delle spese del giudizio estinto nel contesto del nuovo giudizio successivamente instaurato tra le medesime parti.

13. – Tutto quanto esposto comporta il rigetto del ricorso.

Al rigetto consegue la condanna della ricorrente alle spese processuali nei confronti di tutte le parti costituite in questa sede.

PQM

La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente alle spese processuali, che liquida, per ciascuna parte costituita, in Euro 6.200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre accessori e rimborso forfetario di spese generali nella percentuale di legge.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della sezione prima civile, il 27 aprile 2016.

Depositato in Cancelleria il 10 giugno 2016

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