Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 11989 del 31/05/2011

Cassazione civile sez. trib., 31/05/2011, (ud. 16/03/2011, dep. 31/05/2011), n.11989

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PIVETTI Marco – Presidente –

Dott. PERSICO Mariaida – Consigliere –

Dott. FERRARA Ettore – rel. Consigliere –

Dott. SAMBITO Maria Giovanna Concetta – Consigliere –

Dott. CARACCIOLO Giuseppe – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 25566/2006 proposto da:

R.A., elettivamente domiciliata in ROMA VIA GIOVANNI

PAISIELLO, 15, presso lo studio dell’avvocato BELLOMO GIOVANNI,

rappresentata e difesa dall’avvocato DAMASCELLI Antonio, giusta

delega in calce;

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE UFFICIO DI BARI (OMISSIS) in persona del

Direttore

pro tempore, AGENZIA DELLE ENTRATE in persona del Direttore pro

tempore, elettivamente domiciliati in ROMA VIA DEI PORTOGHESI 12,

presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che li rappresenta e

difende ope legis;

– controricorrenti –

avverso la sentenza n. 69/2005 della COMM. TRIB. REG. di BARI,

depositata il 30/12/2005;

udita la relazione della causa svolta nella Pubblica udienza del

16/03/2011 dal Consigliere Dott. ETTORE FERRARA;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

SEPE Ennio Attilio, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con ricorso alla C.T.P. di Bari R.A., esercente attività di parrucchiera, impugnava l’avviso di accertamento notificatole dall’Agenzia delle Entrate relativamente all’anno 1996 per la rettifica del reddito imponibile ai fini Irpef, S.S.N. e Contributo per l’Europa, nonchè del volume di affari ai fini Iva, in quanto non adeguati alle risultanze dei parametri previsti dal D.P.C.M. 29 gennaio 1996, come modif. con D.P.C.M. 27 marzo 1997. Deduceva in particolare la contribuente l’illegittimità del D.P.C.M. in questione, nonchè del procedimento di accertamento fondato sui parametri, il vizio di motivazione del provvedimento, l’infondatezza nel merito dell’accertamento per l’omessa considerazione di quanto dedotto in ordine alla chiusura dell’esercizio per i tre mesi estivi, e la nullità delle sanzioni inflitte.

Il Giudice adito accoglieva il ricorso, ma l’Ufficio proponeva gravame e la C.T.R. della Puglia con sentenza n. 69/6/05, depositata il 30.12.2005 e non notificata, in riforma della decisione di primo grado confermava la legittimità dell’accertamento, motivando in particolare sulla irrilevanza della circostanza di fatto dedotta dalla contribuente per contestare nel merito la fondatezza dell’atto impositivo.

Per la cassazione della sentenza proponeva ricorso la R. articolando tre motivi, successivamente sostenuti anche con il deposito di memoria aggiunta.

L’Agenzia delle Entrate resisteva con controricorso.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo deduce la ricorrente, ex art. 360 c.p.c., n. 4, fa nullità della sentenza per violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 36, comma 2, nn. 2, 3 e 4, anche in relazione a quanto previsto dall’art. 112 c.p.c. e art. 156 c.p.c., comma 2 e D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 1, comma 2, lamentando in particolare che la sentenza impugnata sarebbe stata priva: a) della esposizione dello svolgimento del processo; b) delle richieste delle parti, e in particolare del riferimento alla eccepita inammissibilità dell’appello dell’Ufficio per mancanza di motivi specifici, in ordine alla quale sarebbe mancata ogni valutazione e decisione; c) e di una adeguata motivazione in ordine alle ragioni di fatto e di diritto della decisione.

Il motivo è infondato e per certi versi addirittura inammissibile.

La sentenza impugnata contiene invero, in linea di massima, un’ampia esposizione dello svolgimento del processo, con riferimento sia alla fase del primo grado di giudizio che alla fase di appello, alle richieste delle parti, e alle ragioni per le quali il giudice de gravame ha ritenuto, con argomentazioni assolutamente concrete e puntuali, e pertanto niente affatto apodittiche, l’unica circostanza di fatto dedotta dalla contribuente, sostanzialmente smentita dalle risultanze istruttorie, e pertanto inidonea a giustificare i minori ricavi dichiarati.

Per costante giurisprudenza di questa Corte, richiamata del resto anche in ricorso, in tema di contenuto della sentenza, la concisa esposizione dello svolgimento del processo e dei motivi in fatto della decisione, richiesta dall’art. 132 cod. proc. civ., comma 2, n. 4, nella versione anteriore alla modifica da parte della L. 18 giugno 2009, n. 69, art. 45, comma 17 (e così anche quella prevista dal D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 36, comma 2, nn. 2 e 4, applicabile in materia tributaria), non rappresenta un elemento meramente formale, ma un requisito da apprezzarsi esclusivamente in funzione della intelligibilità della decisione e della comprensione delle ragioni poste a suo fondamento, la cui mancanza costituisce motivo di nullità della sentenza solo quando non sia possibile individuare gli elementi di fatto considerati o presupposti nella decisione, stante il principio della strumentante della forma, per il quale la nullità non può essere mai dichiarata se l’atto ha raggiunto il suo scopo (art. 156 cod. proc. civ., comma 3), e considerato che lo stesso legislatore, nel modificare l’art. 132 cit., ha espressamente stabilito un collegamento di tipo logico e funzionale tra l’indicazione in sentenza dei fatti di causa e le ragioni poste dal giudice a fondamento della decisione (così da ultimo Cass. 10.11.2010, n. 22845).

Nel caso di specie, a quel che è dato comprendere dalla articolata formulazione della doglianza (che nell’ambito della censura riassume i motivi originari di ricorso, ma poi fa essenzialmente richiamo alle controdeduzioni depositate in appello esclusivamente con riferimento all’eccezione di inammissibilità ivi formulata, in ogni caso omettendo di dire dove e quando abbia eventualmente riproposto le altre questioni originariamente sollevate), secondo la ricorrente, le omissioni riscontrate assumerebbero rilievo unicamente in quanto sintomatiche del mancato esame da parte del giudicante di quella eccezione, fondata sulla pretesa mancanza di motivi specifici.

A tal riguardo peraltro la ricorrente non riproduce nel ricorso in maniera completa e puntuale i contenuti della sentenza di primo grado, e soprattutto dell’atto di appello, onde consentire di verificare la rilevanza della dedotta questione, incorrendo conseguentemente in genericità della censura e vizio di autosufficienza del ricorso. E ciò tanto più che, fondandosi, per sua stessa ammissione la sentenza di primo grado su un’unica ratio decidendi, per aver la C.T.P. valutando la vicenda nel merito, ritenuto raggiunta la prova delle ragioni dello scostamento tra ricavi dichiarati ed accertati, nell’intervenuta chiusura dell’attività per alcuni mesi, la contestazione della decisione da parte dell’Ufficio, sia pur fondata prevalentemente sull’efficacia probatoria dei parametri (secondo quanto riferito in ricorso a pag.

5), comunque può ritenersi essere stata considerata dal giudicante sufficientemente specifica ai fini e per gli effetti di cui all’art. 342 c.p.c., con conseguente implicito rigetto dell’eccezione dell’appellata.

A tal proposito non sarà superfluo ricordare che, per costante giurisprudenza di legittimità, il vizio di omessa pronuncia – configurabile allorchè risulti completamente omesso il provvedimento del giudice indispensabile per la soluzione del caso concreto – non ricorre nel caso in cui, seppure manchi una specifica argomentazione, la decisione adottata in contrasto con la pretesa fatta valere dalla parte ne comporti il rigetto (Cass. 12.1.2006, n. 407; 19.5.2006, n. 11756; 22.12.1989, n. 5783).

2. Con il secondo motivo deduce ancora la ricorrente la violazione della L. n. 549 del 1995, art. 3, comma 181, del D.P.C.M. 29 gennaio 1996 nonchè del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, con riferimento all’art. 360 c.p.c., nn. 5 e 4.

I contenuti della censura, per come successivamente sviluppati, consentono di ritenere in realtà dedotto il solo vizio di violazione o falsa applicazione di legge (art. 360 c.p.c., n. 3), quale conseguenza del difetto di motivazione dell’accertamento e di adeguate prove a sostegno, lamentando in definitiva la contribuente che l’atto impositivo risulterebbe emesso sulla base della mera applicazione dei parametri, senza una adeguata rappresentazione dei calcoli operati e dei coefficienti applicati, ed ancora nessuna concreta valutazione delle circostanze specifiche dedotte a giustificazione del minor reddito dichiarato, e soprattutto “senza motivare la fondatezza della ripresa dell’ufficio sulla base di una serie plurima di indizi”.

Pur così difficoltosamente interpretato e razionalizzato il motivo di doglianza, il medesimo risulta a sua volta infondato e per molti versi inammissibile.

Come da questa Corte anche recentemente ribadito: “La procedura di accertamento tributario standardizzato mediante l’applicazione dei parametri o degli studi di settore costituisce un sistema di presunzioni semplici, la cui gravità, precisione e concordanza non è “ex lege” determinata dallo scostamento del reddito dichiarato rispetto agli “standards” in sè considerati – meri strumenti di ricostruzione per elaborazione statistica della normale redditività – ma nasce solo in esito al contraddittorio da attivare obbligatoriamente, pena la nullità dell’accertamento, con il contribuente. In tale sede, quest’ultimo ha l’onere di provare, senza limitazione alcuna di mezzi e di contenuto, la sussistenza di condizioni che giustificano l’esclusione dell’impresa dall’area dei soggetti cui possono essere applicati gli “standards” o la specifica realtà dell’attività economica nel periodo di tempo in esame, mentre la motivazione dell’atto di accertamento non può esaurirsi nel rilievo dello scostamento, ma deve essere integrata con la dimostrazione dell’applicabilità in concreto dello “standard” prescelto e con le ragioni per le quali sono state disattese le contestazioni sollevate dal contribuente. L’esito del contraddittorio, tuttavia, non condiziona l’impugnabilità dell’accertamento, potendo il giudice tributario liberamente valutare tanto l’applicabilità degli “standards” al caso concreto, da dimostrarsi dall’ente impositore, quanto la controprova offerta dal contribuente che, al riguardo, non è vincolato alle eccezioni sollevate nella fase del procedimento amministrativo e dispone della più ampia facoltà, incluso il ricorso a presunzioni semplici, anche se non abbia risposto all’invito al contraddittorio in sede amministrativa, restando inerte. In tal caso, però, egli assume le conseguenze di questo suo comportamento, in quanto l’Ufficio può motivare l’accertamento sulla sola base dell’applicazione degli “standards”, dando conto dell’impossibilità di costituire il contraddittorio con il contribuente, nonostante il rituale invito, ed il giudice può valutare, nel quadro probatorio, la mancata risposta all’invito” (v. Cass. SS.UU. sent. 18.12.2009, n. 26635).

Nella vicenda in esame, merita di essere innanzi tutto evidenziato che la omessa riproduzione nel ricorso dei contenuti essenziali dell’atto impugnato, non consente alla Corte di verificare la rilevanza di quanto lamentato in ordine alla motivazione del provvedimento.

Quanto ai profili probatori, premessa in astratto la legittimità del sistema di accertamento basato sui parametri, nei termini innanzi chiariti, quale fonte di “un sistema di presunzioni” che non richiede ulteriori indizi ai fini della formazione della prova, in concreto l’unica contestazione nel merito dell’accertamento da parte della contribuente risulta aver riguardato nelle precedenti fasi di giudizio la circostanza relativa alla dedotta sospensione dell’attività per alcuni mesi. Ma tale circostanza, alla stregua di quanto in ordine alla motivazione dell’atto riportato nello stesso ricorso a pag. 9 (“i fatti e le circostanze rappresentate da codesta ditta….non essendo suffragati da elementi e circostanze di fatto certi nè argomentazioni logiche valide a superare la presunzione legale, non inficiano la validità e la legittimità dello scostamento…..”), non può ritenersi affatto ignorata dall’Ufficio in sede di accertamento, ma piuttosto valutata in maniera difforme rispetto alle aspettative della parte.

Così che, in definitiva, per un verso le doglianze concretamente esposte risultano inamissibilmente investire l’avviso di accertamento, più che la sentenza impugnata, senza neanche trascriverne i contenuti essenziali così da consentire di verificare la rilevanza delle censure esposte, e almeno in parte per profili assolutamente nuovi (v. tutto quanto dedotto in ordine ai coefficienti applicati, alle operazioni eseguite), mentre per altro verso la critica inerente l’unica questione sin dall’origine dibattuta tra le parti, piuttosto che risolversi nella prospettazione di una violazione di legge, si traduce nella pretesa di una diversa valutazione nel merito delle risultanze istruttorie, rispetto a quella proposta dal giudice in sentenza, certamente inammissibile in sede di giudizio di legittimità.

3. Con il terzo motivo denuncia infine la contribuente il vizio di omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia, e cioè sulla questione relativa alla valenza probatoria della circostanza di fatto dedotta dalla parte a giustificazione dei minori ricavi dichiarati.

La censura è infondata.

A fronte di quanto unicamente dedotto dalla R. con la pretesa di escludere lo svolgimento della sua attività in condizioni di “normalità” idonee all’applicazione dei parametri, vale a dire la riduzione (o addirittura la sospensione) dell’attività nel periodo estivo per riduzione della clientela, la C.T.R. ha operato un accertamento di fatto conclusosi con la rilevazione, nel trimestre in questione, (che notoriamente comprende per tutti anche un periodo di ferie) di 55 giornate lavorative svolte, con incassi per circa L. 5.500.000, correttamente e del tutto logicamente desumendone la sostanziale smentita dell’assunto della contribuente.

La completezza espositiva del ragionamento svolto al riguardo dal giudicante e l’assenza in esso di vizi logici, valgono ad escludere la fondatezza della doglianza in esame, per altro verso pericolosamente proiettata a conseguire una nuova valutazione di merito della vicenda, come già innanzi rilevato certamente preclusa in questa sede.

4. Il ricorso deve pertanto essere rigettato, con la conseguente condanna della ricorrente, per il principio della soccombenza, al rimborso in favore della controparte delle spese del giudizio di legittimità, liquidate come in dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento in favore dell’Agenzia delle Entrate delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in complessivi Euro 1.000,00 oltre spese prenotate a debito.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 16 marzo 2011.

Depositato in Cancelleria il 31 maggio 2011

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