Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 11988 del 10/06/2016


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Cassazione civile sez. lav., 10/06/2016, (ud. 12/04/2016, dep. 10/06/2016), n.11988

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MACIOCE Luigi – Presidente –

Dott. NAPOLETANO Giuseppe – Consigliere –

Dott. TORRICE Amelia – Consigliere –

Dott. BLASUTTO Daniela – Consigliere –

Dott. DI PAOLANTONIO Annalisa – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 28007-2014 proposto da:

P.U., C.F. (OMISSIS), rappresentato e difeso

dall’Avvocato LUCIANO GIORGIO PETRONIO, domiciliato in ROMA Piazza

Cavour presso la Cancelleria della Corte di Cassazione, giusta

delega in atti;

– ricorrente –

contro

AGENZIA INTERREGIONALE PER IL FIUME PO AIPO, C.F. (OMISSIS),

rappresentato e difeso dall’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO presso i

cui Uffici domicilia in ROMA, ALLA VIA DEI PORTOGHESI, 12;

– resistente –

avverso la sentenza n. 847/2014 della CORTE D’APPELLO di BOLOGNA,

depositata il 01/09/2014 R.G.N. 1007/07;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

12/04/2016 dal Consigliere Dott. ANNALISA DI PAOLANTONIO;

udito l’Avvocato MAURO MAZZONI per delega Avvocato LUCIANO GIORGIO

PETRONIO;

udito l’Avvocato GIAMMARIO ROCCHITTA;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

FRESA Mario, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

1 – La Corte di Appello di Bologna, in riforma della sentenza del Tribunale di Parma del 2 ottobre 2007, ha respinto la domanda proposta da P.U. nei confronti dell’A.I.PO – Agenzia Interregionale per il Fiume Po -, volta ad ottenere l’accertamento della illegittimità del provvedimento di sospensione cautelare dal servizio adottato il 27 ottobre 2005 e la condanna dell’Agenzia alla riammissione in servizio ed al risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali subiti.

2 – La Corte territoriale ha premesso, in punto di fatto, che:

a) Ugo P., dirigente di fascia A assunto con contratto del 1 gennaio 2003, in data 7.4.2003 era stato sottoposto a misura cautelare coercitiva in relazione ai delitti p. e p. dagli artt. 110, 81, 319 e 319 bis c.p.;

b) la Agenzia aveva adottato un primo provvedimento di sospensione obbligatoria e, all’esito della scarcerazione, ordinata dal GIP presso il Tribunale di Torino il 16 giugno 2003, aveva ritenuto di doversi avvalere della sospensione facoltativa, disposta con determinazione n. 65/2003, la cui efficacia, peraltro, era stata sospesa in via cautelare dal Tribunale di Parma, in composizione collegiale, con ordinanza del 17 febbraio 2004, alla quale l’A.I.PO aveva ottemperato;

c) in data 11 ottobre 2005 il GUP presso il Tribunale di Torino aveva disposto il rinvio a giudizio del P. in relazione ai delitti sopra indicati, sicchè la Agenzia aveva nuovamente sospeso in via cautelare il dirigente, rilevando che i fatti oggetto del processo penale erano attinenti al rapporto di lavoro e che la presenza In servizio del dipendente avrebbe leso il prestigio della amministrazione ed arrecato disagio alla funzionalità del servizio.

3 – In diritto la Corte di Appello ha evidenziato che la Agenzia si era correttamente avvalsa della facoltà attribuita dal secondo comma dell’art. 29 del CCNL per i Dirigenti del Comparto Regioni ed Autonomie Locali e che aveva sufficientemente motivato il provvedimento attraverso il richiamo alla natura ed alla gravità dei reati per i quali era stato disposto il rinvio a giudizio. Ha aggiunto che nel corso delle indagini preliminari il P. aveva ripetutamente ammesso di avere percepito somme di denaro da imprenditori, in relazione alla attività lavorativa svolta in favore dell’A.I.PO. Infine ha evidenziato la irrilevanza della sentenza di dichiarazione di incompetenza pronunciata dal Tribunale penale di Torino, posto che detto atto non aveva fatto perdere efficacia al decreto di rinvio a giudizio.

4 – Per la cassazione della sentenza ha proposto ricorso P.U. sulla base di sei motivi. L’Avvocatura dello Stato, costituitasi con atto del 14 gennaio 2015, ha partecipato alla discussione, concludendo per il rigetto del ricorso.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. – Con il primo motivo il ricorrente denuncia, ex art. 360 c.p.c., n. 3, “plurime violazioni dell’art. 112 c.p.c.” perchè la Corte territoriale non avrebbe pronunciato sulle eccezioni sollevate nella memoria difensiva, con la quale erano state eccepite: la inammissibilità dell’appello per l’intervenuto passaggio in giudicato di più capi della sentenza di primo grado, idonei a sorreggere la decisione e non censurati in modo specifico; la sopravvenuta carenza di interesse per essersi il rapporto consensualmente risolto; la applicabilità della L. n. 97 del 2001, art. 3 e la nullità delle disposizioni contrattuali in contrasto con la norma di legge; in via subordinata la incostituzionalità del richiamato art. 3, nella parte in cui consente alle parti collettive la adozione di misure diverse da quelle normativamente stabilite e non prevede che anche gli atti cautelari debbano essere preceduti dal contraddittorio con l’interessato.

1.1. – Il motivo è inammissibile.

L’omessa pronuncia su domanda, eccezione o istanza ritualmente introdotta in giudizio, risolvendosi nella violazione della corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato, integra un difetto di attività del giudice di secondo grado, che deve essere fatto valere dal ricorrente ex art. 360 c.p.c., n. 4, giacchè solo la denuncia dell’error in procedendo consente al giudice di legittimità, in tal caso giudice anche del fatto processuale, di effettuare l’esame, altrimenti precluso, degli atti del giudizio di merito e, così, anche dell’atto di appello e della memoria difensiva (in tal senso Cass. 27.10.2014 n. 22759).

Le Sezioni Unite di questa Corte, nel comporre il contrasto sorto nella giurisprudenza di legittimità sulle conseguenze della errata formulazione dei motivi, hanno affermato che “nel caso in cui il ricorrente lamenti l’omessa pronunzia da parte della impugnata sentenza, in ordine ad una delle domande o eccezioni formulate, non è necessario che faccia espressa menzione della ricorrenza dell’ipotesi di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4 (con riferimento all’art. 112 c.p.c.), purchè nel motivo si faccia inequivocabilmente riferimento alla nullità della decisione derivante dalla relativa omissione. Va invece dichiarato inammissibile il motivo allorquando, in ordine alla suddetta doglianza, il ricorrente sostenga che la motivazione sia stata omessa o insufficiente o si limiti ad argomentare sulla violazione di legge” (Cass. S.U. 24.7.2013 n. 17931).

Il caso di specie è riconducibile alla seconda ipotesi perchè nel motivo, formulato ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, non si fa riferimento alcuno alla nullità derivata dall’error in procedendo.

2 – Il secondo motivo censura la sentenza impugnata per “violazione degli artt. 22 e 23 c.p.p. e per errata applicazione del principio della irretrattabilità dell’azione penale”. Rileva il ricorrente che con sentenza del 28 aprile 2008 il Tribunale di Torino aveva ritenuto che spettasse al Tribunale di Parma la competenza a conoscere dei reati addebitati al P. ed aveva trasmesso gli atti alla Procura della Repubblica presso il giudice territorialmente competente. In tal modo era stato rimosso il decreto di rinvio a giudizio emesso dal GUP del Tribunale di Torino e, pertanto, era venuto meno il presupposto che legittimava l’adozione del provvedimento di sospensione cautelare. Evidenzia che erroneamente la sentenza impugnata aveva richiamato il principio della irretrattabilità dell’azione penale affermato da Cass. n. 20512/2003, posto che in quella decisione veniva sottolineata anche la necessità di un nuovo esame da parte del giudice per le indagini preliminari.

2.1 – Il motivo, sebbene fondato quanto alla ritenuta violazione dell’art. 23 c.p.p., va disatteso nella parte in cui pretende di far discendere dalla dichiarazione di incompetenza territoriale, successiva al disposto rinvio a giudizio, la illegittimità del provvedimento di sospensione cautelare dal servizio.

La Corte Costituzionale, con sentenza 15 marzo 1996 n. 70, ha dichiarato la parziale illegittimità costituzionale dell’art. 23 c.p.p. che, nella sua formulazione originaria, prevedeva, in caso di incompetenza territoriale dichiarata dal giudice del dibattimento, la diretta trasmissione degli atti al giudice competente anzichè al Pubblico Ministero.

La Corte ha ritenuto applicabili alla competenza territoriale i medesimi principi già affermati in tema di incompetenza materiale dalla sentenza 11 marzo 1993 n. 76, con la quale la diretta trasmissione degli atti al giudice competente anzichè al Pubblico Ministero era stata ritenuta lesiva del diritto di difesa, perchè sottraeva all’imputato la possibilità di richiedere al giudice naturale precostituito per legge l’accesso al giudizio abbreviato.

L’art. 23 c.p.p., come modificato dalle sentenze manipolative sopra richiamate, impone di ripetere presso il giudice competente l’attività inerente all’esercizio dell’azione penale, in quanto la sentenza di incompetenza determina la regressione del procedimento alla fase delle indagini preliminari e rende inefficaci gli atti di esercizio dell’azione già compiuti (così in motivazione fra le più recenti Cass. Pen. 19.3.2015 n. 11486).

2.2. – Tuttavia detta inefficacia non può incidere sulla validità del provvedimento di sospensione dal servizio già disposto dalla pubblica amministrazione, in presenza dei requisiti che, secondo le previsioni della contrattazione collettiva, ne legittimano la adozione.

Invero ai fini della integrazione della fattispecie prevista dall’art. 29 del CCNL nonchè dalla L. n. 97 del 2001, art. 3 il decreto di rinvio a giudizio rileva come fatto, che fa sorgere il potere discrezionale del datore di lavoro pubblico di allontanare il dipendente dal servizio in attesa della definizione del processo penale.

Per la legittimità della sospensione, quindi, è sufficiente che il decreto sia stato emesso, tanto che il sindacato del giudice sul provvedimento adottato dal datore di lavoro può riguardare solo gli ulteriori presupposti richiesti dalla legge o dalla contrattazione collettiva, non essendo consentito al dipendente sospeso che contesti l’atto cautelare di mettere in discussione nel giudizio civile, promosso nei confronti del datore, le decisioni assunte dal giudice penale, neppure sotto il limitato profilo della validità.

I successivi sviluppi del processo penale producono effetti immediati ed automatici sul provvedimento di sospensione validamente disposto nelle sole ipotesi indicate dalla contrattazione collettiva, che prevede la perdita di efficacia della sospensione ed il diritto del dipendente a percepire, anche per il periodo di sospensione, l’intero trattamento retributivo solo in caso di sentenza di assoluzione o di proscioglimento disposta perchè il fatto non sussiste o perchè l’imputato non lo ha commesso.

Al di fuori di dette ipotesi è solo consentito al dipendente sollecitare un provvedimento di revoca della misura cautelare, chiedendo la riammissione in servizio, che, peraltro, ove disposta, produce effetti solo per il futuro e non incide sulla legittimità della sospensione adottata dal datore di lavoro nella ricorrenza di tutti i presupposti previsti dalle parti collettive.

La sentenza impugnata, che ha ritenuto irrilevante ai fini della legittimità della sospensione la pronuncia di incompetenza territoriale, va, dunque, confermata con diversa motivazione.

3 – Il terzo motivo di ricorso denuncia, ex art. 360 c.p.c., n. 3, “violazione dell’art. 132 c.p.c. per motivazione solo apparente” in quanto la Corte di Appello, chiamata a valutare se la Pubblica Amministrazione avesse dato conto delle ragioni che rendevano opportuna la sospensione cautelare, si sarebbe limitata a ripetere le apodittiche affermazioni contenute nel provvedimento, senza dar conto del procedimento logico seguito.

3.1. – Il motivo è manifestamente infondato.

Le Sezioni Unite di questa Corte con la sentenza 7 aprile 2014 n. 8053, richiamando i principi già affermati da Cass. S. U. 16.5.1992 n. 5882 e da Cass. 18.9.2009 n. 20112, hanno evidenziato che, a seguito della riformulazione dell’art. 360 c.p.c., n. 5 ad opera del D.L. 22 giugno 2012, n. 83, la rilevanza del vizio di motivazione, quale oggetto del sindacato di legittimità, è limitata alle fattispecie nelle quali esso si converte in violazione di legge e ciò accade solo allorquando il vizio di motivazione sia così radicale da comportare con riferimento a quanto previsto dall’art. 132 c.p.c., n. 4, la nullità della sentenza per “mancanza della motivazione”.

Detta mancanza, peraltro, è ravvisabile unicamente quando la motivazione “manchi del tutto – nel senso che alla premessa dell’oggetto del decidere risultante dallo svolgimento del processo segue l’enunciazione della decisione senza alcuna argomentazione –

ovvero… essa formalmente esista come parte del documento, ma le sue argomentazioni siano svolte in modo talmente contraddittorio da non permettere di individuarla, cioè di riconoscerla come giustificazione del decisum” (Cass. n. 20112 del 2009).

A seguito della riforma del 2012 è scomparso, dunque, “il controllo sulla motivazione con riferimento al parametro della sufficienza, ma resta il controllo sull’esistenza (sotto il profilo dell’assoluta omissione o della mera apparenza) e sulla coerenza (sotto il profilo della irriducibile contraddittorietà e dell’illogicità manifesta) della motivazione, ossia con riferimento a quei parametri che determinano la conversione del vizio di motivazione in vizio di violazione di legge, sempre che il vizio emerga immediatamente e direttamente dal testo della sentenza impugnata.”.

Nel caso di specie è sufficiente esaminare i passi della motivazione riportati nel motivo, perchè sia palese l’infondatezza della censura, atteso che la motivazione è non solo esistente, ma anche articolata in modo tale da permettere di ricostruirne e comprenderne il percorso logico.

4 – Con il quarto motivo P.U. censura la sentenza impugnata per violazione della L. n. 97 del 2001, artt. 3, 4 e 5 e dell’art. 29 CCNL di comparto; Ad avviso del ricorrente il legislatore avrebbe previsto la sospensione dal servizio e solo nella ipotesi della condanna non definitiva, poichè la L. n. 97 del 2001, art. 3 prevede a carico dell’amministrazione innanzitutto l’obbligo di trasferire ad altra sede o ad altra funzione il dipendente rinviato a giudizio e, solo qualora ciò non sia possibile, di collocarlo in aspettativa o in disponibilità. Aggiunge che il richiamo contenuto nell’incipit dell’art. 3 alla sospensione dal servizio opera solo nei casi in cui quest’ultima sia prevista da altra norma di legge, poichè, ai sensi dell’art. 8, le disposizioni della L. n. 97 del 2001 prevalgono sulla disciplina dettata dalle parti collettive. Evidenzia, inoltre, che in tal modo il legislatore avrebbe perseguito l’obiettivo di valorizzare la presunzione di innocenza e di applicare anche in materia cautelare il principio della gradualità della misura. Infine sostiene che una diversa interpretazione renderebbe la legge incostituzionale per violazione degli artt. 3, 4, 24 e 35 Cost., dovendo l’esercizio del potere disciplinare rispondere al principio di proporzione ed alla regola del contraddittorio.

4.1 – Con il quinto motivo il ricorrente denuncia, poi, la violazione dell’art. 29 del CCNL, della L. n. 300 del 1970, art. 7della L. n. 241 del 1990, artt. 3 e 7 sia perchè la Agenzia avrebbe violato il principio del contraddittorio, sia perchè avrebbe adottato il provvedimento senza dare adeguato conto delle ragioni che rendevano necessaria la sospensione e senza dimostrare il preteso danno alla funzionalità ed al prestigio dell’amministrazione.

4.2 – Infine con il sesto motivo P.U. censura la sentenza impugnata per violazione dell’art. 29 del CCNL, dell’art. 2697 c.c.e per omesso esame di fatti decisivi per il giudizio oggetto di discussione fra le parti. Ribadisce che era onere dell’AIPO dedurre e provare le circostanze che rendevano necessaria la sospensione dal servizio, non essendo sufficiente per giustificare la adozione del provvedimento il mero richiamo alla gravità dei delitti contestati.

La Corte di Appello, pertanto, avrebbe dovuto ritenere non assolto l’onere della prova gravante sulla amministrazione, tanto più che la responsabilità penale non era stata accertata e che dopo la misura coercitiva il dirigente era stato riammesso in servizio ed era stato assegnato a svolgere compiti di estrema delicatezza, quali quelli relativi alla formazione del personale ed al collaudo delle opere appaltate.

4.3. – I motivi, da trattarsi congiuntamente perchè connessi, sono infondati.

La L. n. 97 del 2001, art. 3 per quel che qui rileva, stabilisce che “Salva l’applicazione della sospensione dal servizio in conformità a quanto previsto dai rispettivi ordinamenti, quando nei confronti di un dipendente di amministrazioni o di enti pubblici ovvero di enti a prevalente partecipazione pubblica è disposto il giudizio per alcuni dei delitti previsti dall’art. 314 c.p., comma 1, artt. 317, 318, 319, 319-ter e 320 c.p. e dalla L. 9 dicembre 1941, n. 1383, art. 3l’amministrazione di appartenenza lo trasferisce ad un ufficio diverso da quello in cui prestava servizio al momento del fatto, con attribuzione di funzioni corrispondenti, per inquadramento, mansioni e prospettive di carriera, a quelle svolte in precedenza.

L’amministrazione di appartenenza, in relazione alla propria organizzazione, può procedere al trasferimento di sede, o alla attribuzione di un incarico differente da quello già svolto dal dipendente, in presenza di evidenti motivi di opportunità circa la permanenza del dipendente nell’ufficio in considerazione del discredito che l’amministrazione stessa può ricevere da tale permanenza. Qualora, in ragione della qualifica rivestita, ovvero per obiettivi motivi organizzativi, non sia possibile attuare il trasferimento di ufficio, il dipendente è posto in posizione di aspettativa o di disponibilità, con diritto al trattamento economico in godimento salvo che per gli emolumenti strettamente connessi alle presenze in servizio, in base alle disposizioni dell’ordinamento dell’amministrazione di appartenenza”.

Il successivo art. 4 prevede, poi, che “Nel caso di condanna anche non definitiva, ancorchè sia concessa la sospensione condizionale della pena, per alcuno dei delitti previsti dall’art. 3, comma 1, i dipendenti indicati nello stesso articolo sono sospesi dal servizio.”.

L’art. 4, come reso evidente dal tenore letterale della disposizione, prevede la sospensione obbligatoria del dipendente in caso di condanna, anche non definitiva, e detta obbligatorietà si giustifica in quanto ” sia l’interesse generale al buon andamento della pubblica amministrazione che il rapporto di fiducia dei cittadini verso quest’ultima possono risultare gravemente compromessi dalla permanenza in servizio di un dipendente condannato – sia pure in via non definitiva – per taluno dei delitti riguardati dalla norma impugnata. E ciò in considerazione della particolare gravità dei delitti stessi, comportanti la violazione dei fondamentali obblighi di fedeltà del pubblico dipendente.” (Corte Cost. 8 maggio 2002 n. 145).

La Corte Costituzionale ha osservato anche che “l’intervento del legislatore, a tutela dei suddetti interessi, si è reso necessario per ovviare ad una situazione di diffusa inerzia della pubblica amministrazione nell’esercizio del suo potere di sospensione facoltativa dal servizio del dipendente sottoposto a procedimento penale per reati di notevole gravità e, sotto altro aspetto, per ristabilire in materia il principio di pari trattamento per tutti i pubblici dipendenti.”.

La sospensione obbligatoria prevista dall’art. 4 non va, quindi, confusa con quella facoltativa richiamata nell’incipit dell’art. 3, non disciplinata dalla L. n. 97 del 2001, che ha ritenuto di dovere rinviare alle disposizioni dei relativi ordinamenti e, quindi, per l’impiego pubblico contrattualizzato, alla disciplina dettata dai contratti collettivi di compatto.

Ne discende la palese infondatezza della esegesi prospettata nel quarto motivo di ricorso, poichè l’obbligo per la Pubblica Amministrazione di trasferire il dipendente rinviato a giudizio ad altro ufficio, sorge solo qualora il dipendente medesimo non sia stato sospeso dal servizio, nell’esercizio della facoltà prevista dalla legge (per il personale in regime di diritto pubblico) o dalla contrattazione collettiva.

L’art. 3, al pari del successivo art. 4, trova la sua ratio nella volontà del legislatore di tutelare l’immagine e l’efficienza della Pubblica Amministrazione, compromesse nel caso in cui il dipendente, rinviato a giudizio per reati di indubbia gravità commessi ai danni della stessa P.A., continui a svolgere le proprie funzioni in attesa della definizione del processo penale e ciò faccia nello stesso ufficio e con gli stessi compiti in relazione ai quali, secondo l’ipotesi accusatoria, si sarebbe verificata la consumazione del reato.

Si è, quindi, previsto a carico dei pubblici amministratori che, pur ricorrendone i presupposti, ritengano di non avvalersi della sospensione facoltativa, l’obbligo di trasferire ad altra sede o ad altro incarico il dipendente rinviato a giudizio.

4.4 – Detta interpretazione non contrasta nè con la presunzione di innocenza nè con gli altri parametri costituzionali invocati dal ricorrente, posto che la sospensione dal servizio ha natura cautelare e non disciplinare, non richiede il previo contraddittorio con l’interessato e trova la sua ratio nella necessità di tutelare la “credibilità dell’amministrazione presso il pubblico, cioè il rapporto di fiducia dei cittadini verso l’istituzione, che può rischiare di essere incrinato dall’ombra gravante su di essa a causa dell’accusa da cui è colpita una persona attraverso la quale l’istituzione stessa opera” (Corte Cost. n. 206/1999).

L’esigenza cautelare sorge per la pendenza dell’accusa in quanto tale e prescinde dalla valutazione degli indizi di colpevolezza a carico del dipendente, riservata all’autorità giudiziaria penale, per cui, una volta che il rinvio a giudizio abbia permesso di escludere la pretestuosità e la evidente infondatezza della notitia criminis, la valutazione che la Pubblica Amministrazione è chiamata ad effettuare riguarda unicamente la gravità dei fatti di reato ascritti e la attinenza degli stessi al rapporto di lavoro.

Non a caso l’art. 29 del CCNL 10.4.1996 stabilisce che “Il dirigente rinviato a giudizio per fatti direttamente attinenti al rapporto di lavoro o comunque rientranti nella previsione dell’art. 27, comma 2, qualora non sia soggetto a misura restrittiva della libertà personale o questa abbia cessato i suoi effetti, salva l’applicabilità dell’art. 27, può essere sospeso dal servizio con privazione della retribuzione fino alla sentenza definitiva.”, ponendo come unica condizione per l’esercizio del potere discrezionale che il rinvio a giudizio si riferisca ad illeciti penali strettamente connessi allo svolgimento del rapporto.

Non si ravvisa, pertanto, la denunciata violazione della norma contrattuale, poichè l’Agenzia ha motivato il provvedimento richiamando il decreto di rinvio a giudizio ed i delitti ivi contestati, precisando che gli stessi vedevano come “soggetto passivo la stessa Amministrazione di appartenenza” ed aggiungendo che la presenza in servizio del dirigente risultava lesiva del prestigio della amministrazione ed idonea ad incidere sulla funzionalità delle attività istituzionali”.

D’altro canto anche la giurisprudenza amministrativa ha chiarito che “la valutazione dell’amministrazione, in materia di sospensione cautelare facoltativa del dipendente pubblico, costituisce una tipica manifestazione del suo potere discrezionale, sindacabile dal giudice amministrativo solo ove risulti manifestamente irragionevole e non comporta la necessità di esporre le ragioni per le quali i fatti contestati al dipendente devono considerarsi particolarmente gravi, potendo tale giudizio essere implicito nella gravità del reato a lui imputato, nella posizione d’impiego rivestita dal dipendente, nella commissione del reato in occasione o a causa del servizio, con la conseguente impossibilità di consentirne la prosecuzione.” (C.d.S. 17.1.2014 n. 194).

4.5 – Dalle considerazioni che precedono discende altre& che l’onere della prova gravante sul datore di lavoro, ove sia posta in discussione la legittimità della sospensione, non può e non deve riguardare la responsabilità penale del dipendente, riservata, come già detto, al giudice penale, nè le conseguenze pregiudizievoli ricollegabili alla presenza in servizio del dipendente, atteso che la sospensione è finalizzata proprio ad evitare che detto pregiudizio si verifichi, sicchè non è ipotizzabile che la Pubblica Amministrazione possa fornire la prova di un qualcosa che non si è ancora verificato.

5- Il ricorso va, quindi, rigettato.

Le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza e vanno poste a carico del ricorrente nella misura indicata in dispositivo, liquidata tenendo conto della partecipazione alla udienza di discussione, implicante comunque lo studio della controversia.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, nel testo risultante dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, deve darsi atto della ricorrenza delle condizioni previste dalla legge per il raddoppio del contributo unificato dovuto dal ricorrente.

PQM

La Corte rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate in Euro 2.000,00, oltre rimborso spese prenotate a debito.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del cit. art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 12 aprile 2016.

Depositato in Cancelleria il 10 giugno 2016

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