Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 11987 del 10/06/2016


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Cassazione civile sez. lav., 10/06/2016, (ud. 12/04/2016, dep. 10/06/2016), n.11987

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MACIOCE Luigi – Presidente –

Dott. NAPOLETANO Giuseppe – Consigliere –

Dott. TORRICE Amelia – Consigliere –

Dott. BLASUTTO Daniela – Consigliere –

Dott. DI PAOLANTONIO Annalisa – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 24476-2013 proposto da:

F.D., C.F. (OMISSIS), elettivamente

domiciliato in ROMA, VIA DI RIPETTA 259, presso lo studio

dell’avvocato LUCA DEL FAVERO, rappresentato e difeso dall’avvocato

ROCCO BRUNO, giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

MINISTERO LAVORO POLITICHE SOCIALI, C.F. (OMISSIS), in persona

del Ministro pro tempore, domiciliato in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12,

presso L’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e

difende ope legis;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 559/2012 della CORTE D’APPELLO di BOLOGNA,

depositata il 29/10/2012 R.G.N. 1013/2010;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

12/04/2016 dal Consigliere Dott. ANNALISA DI PAOLANTONIO;

udito l’Avvocato PENNELLA GERARDA per l’Avvocato BRUNO ROCCO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

FRESA Mario, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

– La Corte di Appello di Bologna ha respinto l’appello di F.D. avverso la sentenza del Tribunale di Forlì che aveva rigettato la domanda proposta nei confronti del Ministero del Lavoro, volta ad ottenere l’accertamento della illegittimità del licenziamento intimato il 22.1.2008 e la condanna del Ministero alla reintegrazione nel posto di lavoro in precedenza occupato.

2 – Il ricorrente, premesso che il procedimento disciplinare era stato avviato, e contestualmente sospeso, il 4 agosto 2000 ed era stato riaperto il 27 settembre 2007, a seguito del passaggio in giudicato della sentenza penale pronunciata il 25 febbraio 2007, aveva lamentato:

a) la violazione dell’art. 24 del CCNL Comparto Ministeri del 16.5.1995, perchè il Ministero aveva avuto notizia della pendenza del procedimento penale quantomeno dal luglio 1998, circostanza, questa, dimostrata dalla corrispondenza intercorsa fra l’Ufficio Procedimenti Disciplinari e la cancelleria del Tribunale di Avellino;

b) la non coincidenza fra fatti contestati e fatti posti alla base della sanzione espulsiva;

c) l’omesso rispetto dei termini stabiliti dalla L. n. 19 del 1990, art. 9 poichè doveva essere considerato quale dies a quo quello del passaggio in giudicato della sentenza penale;

d) la insussistenza dei fatti contestati che non erano stati oggetto di autonomo accertamento, necessario in quanto il processo penale si era concluso con sentenza non di condanna bensì di estinzione del reato per intervenuta prescrizione.

3 – La Corte territoriale, nel confermare la pronuncia di prime cure, ha ritenuto infondate tutte le censure reiterate nell’atto di gravame ed ha rilevato, in estrema sintesi, che:

a) il termine di venti giorni previsto per la contestazione disciplinare dall’art. 24 del CCNL 16 maggio 1995 non ha natura perentoria, sicchè la sua inosservanza non determina la illegittimità della sanzione finale;

b) la contestazione originaria si riferiva ad entrambi i capi di imputazione, formulati in sede penale a carico del F., mentre il licenziamento era stato intimato in relazione al solo reato per il quale, all’esito del dibattimento di primo grado, era stata affermata la responsabilità dell’imputato;

c) il termine per la riattivazione del procedimento disciplinare sospeso non poteva che decorrere dalla data della comunicazione del passaggio in giudicato della sentenza penale, per le ragioni indicate dalla Corte Costituzionale nella sentenza n. 186 del 2004;

d) il provvedimento era stato adeguatamente motivato perchè il Ministero aveva richiamato la motivazione del giudice di appello (che aveva condiviso le argomentazioni espresse dal Tribunale in relazione alla responsabilità dell’imputato) ed aveva anche evidenziato la gravità dei fatti addebitati, tale da giustificare la sanzione del licenziamento senza preavviso.

4 – Per la cassazione della sentenza ha proposto ricorso F. D. sulla base di quattro motivi, illustrati da memoria ex art. 378 c.p.c.. Il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali ha resistito con tempestivo controricorso.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1.1 – Con il primo motivo di ricorso F.D. denuncia, ex art. 360 c.p.c., n. 3, violazione e falsa applicazione dell’art. 24, comma 2 del CCNL Comparto Ministeri del 16 maggio 1995, della L. n. 300 del 1970, art. 7 dell’art. 116 c.p.c.. Assume il ricorrente che la violazione del termine di venti giorni previsto dal richiamato art. 24 nonchè del principio della immediatezza della contestazione rende nullo l’intero procedimento disciplinare e, conseguentemente, incide sulla legittimità della sanzione applicata.

1.2 – Con il secondo motivo il F. lamenta, ex art. 360 c.p.c., n. 5, l’omesso esame circa un fatto decisivo per la controversia, oggetto di discussione tra le parti, e rileva che la Corte territoriale avrebbe dovuto accertare il momento in cui l’Ufficio per i Procedimenti Disciplinari era venuto a conoscenza delle condotte, in relazione alle quali era stato instaurato il processo penale. Aggiunge che il giudice di appello avrebbe dovuto esaminare la documentazione prodotta, dalla quale emergeva che già il 28 luglio 1998 la Direzione Provinciale del Lavoro di Avellino aveva comunicato che il F. era stato rinviato a giudizio per i reati p. e p. dagli artt. 319 e 346 c.p. e che la prima udienza dibattimentale era stata celebrata il 12 novembre 1997.

1.3 – Il terzo motivo di ricorso denuncia violazione e falsa applicazione della L. n. 19 del 1990, art. 9 nonchè dell’art. 116 c.p.c.. Sostiene il ricorrente che il termine di 180 giorni, entro il quale il procedimento disciplinare deve essere ripreso, inizia a decorrere dalla data del passaggio in giudicato della sentenza che definisce il processo penale e non da quella successiva della sua comunicazione.

“Il dies a quo, pertanto, andava individuato nel 25 febbraio 2007, essendo irrilevante che la comunicazione formale della sentenza fosse avvenuta solo il 20 luglio 2007.

1.4 – Con il quarto motivo il ricorrente censura la sentenza impugnata sempre per violazione dell’art. 24 del CCNL 1995 e della L. n. 300 del 1970, art. 7 perchè il Ministero, oltre ad omettere qualsiasi accertamento autonomo, avrebbe intimato il licenziamento per fatti diversi da quelli originariamente contestati.

2 – I primi due motivi, da trattare congiuntamente perchè connessi, sono in parte inammissibili e per il resto infondati.

Quanto al profilo di inammissibilità va evidenziato che il ricorrente non coglie le ragioni del decisum e, quindi, svolge argomentazioni non specificamente riferibili alla sentenza impugnata (Cass. 3.8.2007 n. 17125).

La Corte territoriale, infatti, ha richiamato a fondamento della decisione l’orientamento giurisprudenziale che esclude la natura perentoria del termine di cui all’art. 24 del CCNL 16.5.1995 e che dal carattere ordinatorio desume la giuridica impossibilità di fare discendere, dalla eventuale violazione del termine stesso, il vizio della sanzione finale adottata.

Il primo motivo di ricorso insiste sul mancato rispetto del termine previsto dalla parti collettive e sulla asserita violazione del principio di immediatezza della contestazione, ma non spende alcun argomento per confutare le conclusioni alle quali il giudice di appello è pervenuto in relazione alla natura ordinatoria del termine invocato.

2.1 – Osserva, inoltre, il Collegio che la sentenza impugnata è conforme ai principi di diritto affermati da questa Corte che, chiamata a pronunciare in fattispecie analoga, ha evidenziato che “in tema di sanzioni disciplinari nei rapporti di lavoro pubblico privatizzato, il termine di venti giorni per la contestazione dell’addebito, previsto dall’art. 24, comma 2, del contratto collettivo del comparto Ministeri del 16 maggio 1995, non è perentorio, sicchè la sua inosservanza non comporta un vizio della sanzione finale, atteso che in un assetto disciplinare contrattualizzato gli effetti decadenziali non possono verificarsi in mancanza di una loro espressa previsione normativa o contrattuale, mentre la natura contrattuale dei termini induce a valutarne l’osservanza nella prospettiva del corretto adempimento di obblighi contrattuali, la cui mancanza è rilevante per gli effetti e nei limiti previsti dall’accordo delle parti e dai principi generali in materia di adempimento. Nè, in senso contrario, rileva l’aggiunta operata con l’art. 12 del c.c.n.l. del compatto Ministeri 2002-2005 –

di un nuovo comma 10 all’art. 24 del c.c.n.l. del 1995, con il quale è stata attribuita natura perentoria anche al termine iniziale del procedimento disciplinare, dovendosi ritenere, attesa la mancanza di ogni riferimento all’avvenuta insorgenza di controversie di carattere generale sull’interpretazione della norma collettiva, che la nuova disposizione non costituisca norma pattizia di interpretazione autentica, dl portata sostitutiva della clausola controversa con efficacia retroattiva, ma integri una modifica, come tale operante soltanto in riferimento alle vicende successive all’entrata in vigore del c.c.n.l. con il quale è stata pattuita.” (Cass. 9.3.2009 n. 5637 e negli stessi termini Cass. 10.3.2010 n. 5806, Cass. 11.4.2013 n. 8850, Cass. 2.12.2015 n. 24529).

2.2 – Questa Corte, inoltre, ha anche osservato che “in tema di procedimento disciplinare nei rapporti di lavoro pubblico privatizzato, l’art. 25, commi 5 e 6, del contratto collettivo del comparto Ministeri del 16 maggio 1995 – il quale, nel prevedere che la sanzione disciplinare del licenziamento senza preavviso si applica per la commissione in servizio di gravi fatti illeciti di rilevanza penale per i quali sia fatto obbligo di denuncia e che l’Amministrazione inizi il procedimento disciplinare ed inoltri la denuncia penale, dispone che il procedimento rimane sospeso fino alla sentenza definitiva – deve essere interpretato nel senso che, laddove l’Amministrazione sia venuta a conoscenza di fatti illeciti penalmente rilevanti e sia tenuta per legge a denunciarli, essa è anche facoltizzata ad attivare subito il procedimento disciplinare, che rimane sospeso fino alla sentenza definitiva. Ne consegue che non viola la menzionata disposizione contrattuale l’Amministrazione che, notiziata dei “gravi fatti illeciti” con la denuncia di un terzo o venutane a conoscenza nel corso o all’esito del giudizio penale, abbia atteso l’esito del procedimento penale prima di avviare il procedimento disciplinare” (Cass. 10.3.2010 n. 5806).

Nel caso di specie, pertanto, poichè il processo penale non era stato attivato su iniziativa del Ministero, quest’ultimo avrebbe potuto attendere la definizione del processo stesso prima di avviare l’azione disciplinare, sicchè è da escludere qualsiasi profilo di tardività della contestazione, intervenuta allorquando il processo penale era ancora in corso.

2.3 – Dalle considerazioni che precedono discende la evidente infondatezza del secondo motivo, con il quale il F. addebita alla Corte territoriale di non avere accertato il momento temporale al quale far risalire la conoscenza delle condotte poi ritenute di rilevanza disciplinare.

Deve essere qui ribadito che “l’omesso esame del fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, come riformato dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, comma 1, lett. b), convertito dalla L. 7 agosto 2012, n. 134 afferisce, nella prospettiva della novella che mira a ridurre drasticamente l’area del sindacato di legittimità intorno ai “fatti”, a dati materiali, ad episodi fenomenici rilevanti ed alle loro ricadute in termini di diritto, aventi portata idonea a determinare direttamente l’esito del giudizio” (Cass. 5.3.2014 n. 5133). La decisività così intesa è sicuramente da escludere nella fattispecie poichè, una volta ricostruiti i rapporti fra processo penale e procedimento disciplinare nei termini indicati al punto 2, diviene irrilevante l’accertamento che si assume omesso.

3 – Il terzo motivo è infondato per plurime ragioni concorrenti.

Questa Corte ha già osservato che la L. 7 febbraio 1990, n. 19 ha integrato le norme sul procedimento disciplinare contenute negli artt. 100 e 123, T.U. sul pubblico impiego ed ha stabilito che la destituzione del pubblico impiegato può essere inflitta a seguito di procedimento disciplinare promosso entro 180 giorni dalla data in cui l’amministrazione ha avuto notizia della sentenza irrevocabile di condanna e concluso entro 90 giorni. Successivamente la L. 23 ottobre 1992, n. 421 ha ridisegnato la disciplina del pubblico impiego riconducendola nell’ambito del diritto civile comune. Il D.Lgs. 3 febbraio 1993, n. 29, dando attuazione alla predetta legge, all’art. 59 (modificato dal D.Lgs. 31 marzo 1998, n. 80, art. 45) ha stabilito: che nei confronti dei pubblici dipendenti con rapporto di lavoro privatizzato si applicano l’art. 2106 c.c.. e la L. 20 maggio 1970, n. 300, art. 7 commi 1, 5 e 8; che “la tipologia delle infrazioni e delle relative sanzioni è definita dai contratti collettivi”; che “l’Amministrazione, salvo il caso di rimprovero verbale, non può adottare alcun provvedimento disciplinare senza previa contestazione scritta dell’addebito”. Al successivo art. 74 (sostituito dal D.Lgs. 23 dicembre 1993, n. 546, art. 38) ha disposto che “a far data dalla stipulazione del primo contratto collettivo, ai pubblici dipendenti privatizzati non si applicano il D.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3, da art. 100 a art. 123 e le disposizioni ad esso collegate” e che dalla stessa data “sono abrogate tutte le restanti disposizioni in materia di sanzioni disciplinari… incompatibili con le disposizioni del Decreto n. 29 del 1993″…. Dal complesso delle disposizioni di legge sopra richiamate (ora raccolte nel testo unico approvato con D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165, modificato con L. 15 luglio 2002 n. 145) discende che le norme della L. 7 febbraio 1990, n. 19, in quanto emanate in relazione ai procedimento disciplinare previsto dal cit. T.U. sul pubblico impiego, non sono più applicabili al procedimento disciplinare promosso nel quadro di un rapporto di pubblico impiego privatizzato, per effetto del disposto del D.Lgs. n. 29 del 1993, art. 72, comma 1 che ha statuito “l’inapplicabilità delle norme generali e speciali del pubblico impiego a seguito della stipulazione dei contratti collettivi in relazione ai soggetti ed alle materie in essi contemplati”, nonchè del disposto del comma 3 medesimo articolo, che “abroga a far data dalla stipulazione del primo contratto collettivo tutte le restanti disposizioni in materia di sanzioni disciplinari per i pubblici impiegati incompatibili con le disposizioni del presente decreto” (Cass. 3.3.2010 n. 5105 che richiama Cass. 16.5.2003 n. 7704).

3.1. – I rapporti fra processo penale e procedimento disciplinare sono stati disciplinati dalla contrattazione collettiva ed in particolare dall’art. 25 del CCNL 16.5.1995 (che al comma 8 dispone:

Il procedimento disciplinare sospeso ai sensi dei commi 6 e 7 è riattivato entro 180 giorni da quando l’amministrazione ha avuto notizia della sentenza definitiva) e dall’art. 14 del CCNL 12.6.2003 (che ai commi 3 e 4 prevede: Fatto salvo il disposto della L. n. 97 del 2001, art. 5, comma 2, in linea generale il procedimento disciplinare sospeso ai sensi del presente articolo è riattivato entro 180 giorni da quando l’amministrazione ha avuto notizia della sentenza definitiva e si conclude entro 120 giorni dalla sua riattivazione. Per i casi previsti alla L. n. 97 del 2001, art. 5, comma 4, il procedimento disciplinare precedentemente sospeso è riattivato entro 90 giorni da quando l’amministrazione ha avuto notizia della sentenza definitiva e deve concludersi entro i successivi 120 giorni dalla sua riattivazione.). E’, inoltre, intervenuta la L. 27 marzo 2001, n. 97 che, art. 5, ha previsto, anche per i procedimenti disciplinari già in corso alla data di entrata in vigore della nuova normativa (art. 10, comma 1), che in caso di sospensione il procedimento deve “proseguire entro il termine di novanta giorni dalla comunicazione della sentenza all’amministrazione….”.

Tutte le disposizioni citate fanno riferimento, non alla data del passaggio in giudicato della sentenza, nè, tantomeno, a quella della sua pronuncia, bensì al momento in cui la pubblica amministrazione ha avuto notizia della “sentenza definitiva”, momento che necessariamente si colloca in data successiva a quella in cui la pronuncia è divenuta intangibile.

3.2 – Questa Corte ha, poi, osservato che “la Corte costituzionale ha dichiarato costituzionalmente illegittimo la L. 27 marzo 2001, n. 97, art. 10, comma 3, nella parte in cui prevedeva, per i fatti commessi anteriormente alla data di entrata in vigore di detta legge, l’instaurazione dei procedimenti disciplinari entro centoventi giorni dalla conclusione del procedimento penale con sentenza irrevocabile di condanna, anzichè entro il termine di novanta giorni dalla comunicazione della sentenza all’amministrazione o all’ente competente per il procedimento disciplinare (Corte costituzionale, 24 giugno 2004, n. 186). Ha rilevato la sentenza che, poichè la L. n. 97 del 2001, nel prevedere che sia la sentenza penale irrevocabile di condanna, sia la sentenza di applicazione della pena su richiesta, sono destinate ad esplicare effetti nel giudizio disciplinare, persegue l’obiettivo di una sostanziale coerenza tra sentenza penale ed esito del procedimento amministrativo e di una linea di maggiore rigore per garantire il corretto svolgimento dell’azione amministrativa. Perciò la citata norma transitoria, che fa decorrere il termine per l’instaurazione del procedimento disciplinare dalla conclusione del giudizio penale con sentenza irrevocabile anzichè dalla comunicazione della sentenza all’amministrazione, è irragionevole e contraria al principio di buon andamento, non prevedendosi che l’amministrazione sia posta a conoscenza del termine iniziate per l’instaurazione del procedimento disciplinare, e rendendosi così più difficoltosa ed incerta la stessa applicazione delle sanzioni disciplinari, con una ponderazione tra l’interesse del dipendente pubblico a una sollecita definizione della propria situazione disciplinare e l’esigenza dell’amministrazione di instaurare tale procedimento del tutto sbilanciata a vantaggio del dipendente pubblico.

Da questa decisione emerge con chiarezza il principio, applicabile indiscutibilmente a tutti i termini decorrenti dalla sentenza, che il dies a quo non può coincidere con conoscenze diverse da quella della “sentenza”, determinata dalla sua “comunicazione” (Cass. 25.11.2009 n. 24769).

Il motivo di ricorso, che, tra l’altro, non considera affatto il richiamo contenuto nella decisione impugnata ai principi affermati dalla Corte Costituzionale, è dunque infondato, sia perchè invoca termini non più applicabili all’impiego pubblico contrattualizzato, sia perchè, pur riconoscendo che la comunicazione del passaggio in giudicato della sentenza penale era avvenuta solo il 20 luglio 2007, pretende di far decorrere il termine per la riattivazione del procedimento dal 25 febbraio 2007.

4 – E’ infondato anche il quarto motivo con il quale il ricorrente insiste nel ritenere violato il principio di immutabilità della contestazione.

La Corte territoriale ha respinto il motivo di appello rilevando che la contestazione disciplinare del 4 agosto 2000 si riferiva ad entrambi i capi di imputazione originariamente formulati in sede penale, mentre il licenziamento era stato intimato solo in relazione alle condotte per le quali, all’esito del dibattimento penale, era stata ritenuta in primo grado la responsabilità penale del F.. Ha poi aggiunto che il provvedimento espulsivo era stato adeguatamente motivato dal Ministero attraverso il richiamo alla sentenza di appello che, pur dichiarando l’estinzione del reato per prescrizione aveva “condiviso le argomentazioni in ordine alla responsabilità dell’imputato” (evidentemente per escludere la applicabilità dell’art. 129 c.p.c., comma 2).

Il ricorrente afferma in modo apodittico la erroneità della decisione che va, invece, condivisa giacchè il principio della immutabilità della contestazione, strettamente connesso all’esercizio del diritto di difesa, è violato solo qualora il licenziamento venga intimato in relazione a condotte diverse da quelle contestate, rispetto alle quali il dipendente non è stato posto in condizione di difendersi.

Nulla, invece, impedisce al datore di lavoro, che abbia contestato una pluralità di comportamenti ritenuti tutti illeciti, di ritenere dimostrati all’esito del procedimento disciplinare solo alcuni dei fatti in origine contestati e di applicare egualmente la sanzione espulsiva, ove le condotte provate siano di gravità tale da giustificarla.

Valgono al riguardo, mutatis mutandis, i medesimi principi affermati da questa Corte con riferimento all’accertamento giudiziale dei fatti costituenti giusta causa di recesso, in relazione al quale è stato osservato che “quando vengano contestati al dipendente diversi episodi rilevanti sul piano disciplinare, non occorre che l’esistenza della “causa” idonea a non consentire la prosecuzione del rapporto sia ravvisabile esclusivamente nel complesso dei fatti ascritti, ben potendo il giudice – nell’ambito degli addebiti posti a fondamento del licenziamento dal datore di lavoro – individuare anche solo in alcuni o in uno di essi il comportamento che giustifica la sanzione espulsiva, se lo stesso presenti il carattere di grave inadempimento richiesto dall’art. 2119 cod. civ.” (Cass. 31.10.2013 n. 24574).

4.1. – Il motivo, poi, è inammissibile nella parte in cui, pur sostenendo “la infondatezza dei fatti addebitati, rispetto ai quali l’amministrazione non ha compiuto alcun accertamento autonomo”, non individua alcun vizio, riconducibile alle ipotesi tassative previste dall’art. 360 c.p.c., che renda erronea la decisione impugnata nella parte in cui ha ritenuto sufficiente il richiamo all’accertamento effettuato in sede penale ed alla motivazione delle sentenze di primo e secondo grado.

5 – Le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza e vanno poste a carico del ricorrente nella misura indicata in dispositivo.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, nel testo risultante dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, deve darsi atto della ricorrenza delle condizioni previste dalla legge per il raddoppio del contributo unificato.

PQM

La Corte rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate in Euro 3.000,00 per competenze professionali, oltre spese prenotate a debito.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma del cit. art. 13, comma 1-

bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 12 aprile 2016.

Depositato in Cancelleria il 10 giugno 2016

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