Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 11986 del 19/06/2020

Cassazione civile sez. I, 19/06/2020, (ud. 21/02/2020, dep. 19/06/2020), n.11986

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DIDONE Antonio – Presidente –

Dott. VELLA Paola – Consigliere –

Dott. CAMPESE Eduardo – Consigliere –

Dott. FIDANZIA Andrea – Consigliere –

Dott. AMATORE Roberto – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso n. 19862-2017 r.g. proposto da:

COMUNE DI NAPOLI (cod. fisc. (OMISSIS)), in persona del legale

rappresentante pro tempore il sindaco, rappresentato e difeso,

giusta procura speciale apposta in calce al ricorso, dall’Avvocato

Fabio Maria Ferrari, con cui elettivamente domicilia in Roma, Via

Francesco Daenza n. 50, presso lo studio dell’Avvocato Nicola

Laurenti;

– ricorrente –

contro

FALLIMENTO (OMISSIS) s.p.a. (cod. fisc. (OMISSIS)), in persona del

legali rappresentanti pro tempore curatori fallimentari Dott.ssa

C.G., Avv. F.F., Avv. M.M., Dott.

Mo.Vi., e Dott. P.F., tutti rappresentati e

difesi, giusta procura speciale apposta in calce al controricorso,

dagli Avvocati Luciano Imparato, Paolo Piscietiello e Massimo

Rubino, con i quali elettivamente domicilia in Roma, alla Via

Aquileia n. 12, presso lo studio dell’Avvocato Andrea Morsillo.

– controricorrente – e ricorrente incidentale –

avverso il decreto del Tribunale di Napoli, depositato in data

13.7.2017;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

21/2/2020 dal Consigliere Dott. Amatore Roberto;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

Cardino Alberto, che ha chiesto dichiararsi il rigetto del ricorso

principale e di quello incidentale;

udito, per il comune ricorrente, l’Avv. Nicola Laurenti, che ha

chiesto accogliersi il proprio ricorso;

udito, per il fallimento controricorrente e ricorrente incidentale,

l’Avv. Amelia Ceromo (per delega), che ha chiesto respingersi

l’avverso ricorso.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. Con il decreto impugnato il Tribunale di Napoli – decidendo sull’opposizione allo stato passivo in relazione alla domanda di rivendica avanzata dal Comune di Napoli nei confronti del fallimento (OMISSIS) spa in liquidazione – ha confermato il provvedimento reso dal g.d. di rigetto della predetta domanda, rigettando, pertanto, la predetta opposizione.

La corte del merito ha ricordato, in punto di ricostruzione della vicenda processuale oggi sub iudice, che: a) il Comune di Napoli aveva presentato domanda di rivendica delle opere di urbanizzazione secondaria, denominate l’Arco dello Sport, Acquario Tematico e Porta del Parco, realizzate dalla (OMISSIS) s.p.a., allorquando quest’ultima era in bonis; b) tra il Comune e la società in bonis era stata stipulata una convenzione e che l’art. 5, comma 2, prevedeva che la proprietà delle opere di intervento e urbanizzazione primaria e secondaria, realizzate al termine dell’intervento, avrebbe dovuto essere trasferita al Comune, entro sei mesi dal collaudo; c) con delibera consiliare, in deroga all’art. 5, comma 2, il Comune aveva determinato di trasferire, in via definitiva, la proprietà delle opere alla (OMISSIS), al verificarsi di due condizioni, ossia l’effettuazione di una “due diligence” di natura civilistica entro il 31/12/2012 e l’attestazione, da rilasciare entro il medesimo termine, della compatibilità dell’operazione finanziaria con la normativa disciplinante l’erogazione dei contributi; d) pertanto, il comune rivendicante, non essendosi avverate le condizioni di cui alla delibera, aveva ritenuto che la proprietà delle opere non si era trasferita alla società fallita; e) il g.d. aveva respinto la domanda attesa “l’inopponibilità della convenzione al fallimento, l’irrevocabilità del conferimento da parte dei soci al patrimonio sociale, l’impossibilità sopravvenuta della restituzione”; f) avverso tale decisione era insorto il Comune di Napoli, eccependo, da un lato, la nullità della delibera consiliare per contrarietà a norma imperativa e, dall’altro, ribadendo la destinazione ad uso pubblico delle opere di urbanizzazione realizzate dalla società partecipata e dunque la non alienabilità delle opere stesse, acquisite ex lege al patrimonio indisponibile per effetto dei piani attuativi del P.R.G..

Il tribunale partenopeo ha dunque evidenziato che: a) oggetto della convenzione era la realizzazione da parte della (OMISSIS) s.p.a., sulle aree preventivamente acquisite da soggetti pubblici o privati, di un piano di intervento per la trasformazione delle aree contemplate nel piano esecutivo approvato dal comune, disciplinando il predetto art. 5 il profilo della gestione e della commercializzazione delle aree e delle opere e prevedendo l’obbligo della (OMISSIS) s.p.a. di alienare, entro sei mesi dal completamento, le opere stesse, con esclusione delle opere di urbanizzazione generale, primaria e secondaria, che dovevano essere trasferite, successivamente al collaudo, al comune e agli altri enti pubblici azionisti, come stabilito dal piano di intervento; b) dal tenore letterale dell’art. 5, emergeva, dunque, che, per le opere di urbanizzazione secondarie, oggetto della domanda di rivendica, la (OMISSIS) s.p.a., aveva assunto l’obbligo di trasferire la proprietà al comune dopo il collaudo, con ciò intendendosi che, per comune volontà delle parti, prima del collaudo la proprietà dei predetti beni sarebbe rimasta della società (OMISSIS) s.p.a.; c) nel caso di specie, poi, era circostanza pacifica che il collaudo non era stato effettuato sulle opere denominate Parco dello Sport e Acquario Tematico, essendo nelle more intervenuto il fallimento della (OMISSIS) e che, pertanto, non residuavano dubbi che, per le opere sopra indicate, non fosse sorto alcun obbligo di trasferimento, risultando radicalmente infondata la domanda di rivendica; d) anche per l’opera denominata “Porta del Parco” la domanda di rivendica non poteva essere accolta perchè il bene, benchè collaudato, non era comunque mai entrato a far parte del patrimonio comunale; e) tale soluzione era confortata anche dal contenuto della delibera comunale richiamata, e cioè la n. 44 del 16 ottobre 2011, con la quale il comune aveva disposto che “le opere di urbanizzazione secondaria… in deroga all’art. 5, comma 2, della convenzione costituiranno beni del patrimonio della società”, con ciò intendendo il socio di maggioranza della società di trasformazione urbana, (OMISSIS) s.p.a., conseguire una ricapitalizzazione della società partecipata, che già in quel momento versava in grave crisi economico-finanziaria; f) la normativa dettata per le società di trasformazione urbana, il D.Lgs. n. 267 del 2000 (come modificato dalla L. n. 166 del 2002) e la Circolare Ministeriale n. 622 del 2002 prevedevano esplicitamente che le società partecipate, costituite per la trasformazione degli immobili interessati dalla urbanizzazione, devono acquisire le aree su cui operare l’intervento di urbanizzazione, così superandosi anche l’ulteriore obiezione sollevata dal Comune sulla natura di beni vincolati “all’uso pubblico” e non liberamente commerciabili per quelli utilizzati dalla società per la realizzazione di opere di urbanizzazione.

2. Il decreto, pubblicato il 13.7.2017, è stato impugnato dal Comune di Napoli con ricorso per cassazione, affidato a tre motivi, cui il fallimento (OMISSIS) s.p.a. in liquidazione ha resistito con controricorso, con il quale ha anche proposto ricorso incidentale sul profilo della regolamentazione delle spese di giudizio.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo il comune ricorrente – lamentando, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione e falsa interpretazione dell’art. 1362 c.c., commi 1 e 2 e violazione del disposto della L. n. 1150 del 1942, art. 28, – si duole dell’erronea interpretazione della clausola contrattuale di cui all’art. 5, comma 2, della convenzione sopra ricordata. Si ricorda che il tribunale aveva ritenuto di proprietà della società (OMISSIS) s.p.a. i beni oggetto di rivendica posto che la detta previsione contrattuale prevedeva espressamente l’obbligo di trasferimento della proprietà delle opere di urbanizzazione da parte della società di trasformazione urbana al comune entro il termine di dieci anni e che tale obbligo di trasferimento non poteva non presupporre la titolarità del diritto reale in capo alla società debitrice al momento della dichiarazione di fallimento. Si evidenzia, invece, che il corretto significato dell’art. 5 comma 2 e, in particolare, dell’espressione “trasferimento della proprietà” trovava una diversa (e più corretta) chiave di lettura, se si analizzava il successivo periodo della clausola contrattuale in esame, in base al quale emergeva che la società in bonis aveva l’obbligo di realizzare le opere di urbanizzazione e di gestirle sino al loro progressivo trasferimento all’ente locale, con ciò contraddicendo, da un lato, l’avversa tesi della titolarità della proprietà in capo alla società sino al termine di dieci anni ovvero sino alla data dell’esperimento del collaudo e dimostrando, invece, dall’altro, la pacifica proprietà dei beni dell’ente territoriale, ai sensi della L. n. 1150 del 1942, art. 28, delle opere di urbanizzazione realizzate a norma del piano urbanistico attuativo, e la mera disponibilità giuridica delle stesse da parte della società poi dichiarata fallita. Si osserva, ancora, da parte del ricorrente che l’espressione “trasferimento della proprietà” doveva ritenersi riferita alla mera “intestazione formale” della proprietà in capo all’ente locale, titolare dell’obbligo di acquisire al patrimonio indisponibile quelle opere realizzate dalla società di trasformazione urbana. Si evidenzia inoltre che la tesi del ricorrente era valorizzata anche dall’ulteriore clausola contrattuale, sempre contenuta nell’art. 5, comma 2, della convenzione, secondo la quale la (OMISSIS) s.p.a. era obbligata a trasferire a terzi la proprietà delle aree oggetto degli interventi di trasformazione, entro sei mesi dal completamento, con esclusione delle opere di urbanizzazione generale, primaria e secondaria, con ciò volendo significare che la società di trasformazione urbana era in realtà proprietaria solo delle aree oggetto degli interventi di trasformazione. Osserva ancora la difesa del ricorrente che errata doveva ritenersi la considerazione del collaudo come ulteriore condizione sospensiva per l’acquisizione al patrimonio indisponibile comunale delle opere di cui si reclama oggi la proprietà, atteso che la convenzione (da considerarsi in parte qua come una convenzione di lottizzazione ad iniziativa pubblica) prevedeva solo il dies ad quem di dieci anni per l’acquisizione di beni, ipso iure, da parte del comune. Si evidenzia, sul punto qui da ultimo in esame, che la deliberazione comunale n. 44 era intervenuta, in realtà, dopo il decorso di tale termine decennale, ovvero il 16.10.2012 e che il contenuto di tale atto deliberativo confermava la tesi dell’ente territoriale secondo cui la (OMISSIS) s.p.a. era titolare solo di un obbligo di gestione delle opere di urbanizzazione realizzate sulle aree conferitile e che, pertanto, anche secondo il criterio ermeneutico di cui all’art. 1362, comma 2 (afferente il comportamento posteriore dei contraenti), la circostanza che il Comune, con la delibera comunale in esame, avesse proceduto all’acquisizione al patrimonio indisponibile comunale delle opere di urbanizzazione secondaria confermava l’intenzione dei contraenti della convenzione di conformarsi al disposto di cui alla L. n. 1150 del 1942, art. 28.

2. Con il secondo mezzo si deduce, invece, violazione e falsa interpretazione della circolare Min. Lavori Pubblici n. 622 del 2000, della L. n. 1150 del 1942, art. 28 e dell’art. 934 c.c.. Si evidenzia che la circolare non faceva alcun accenno alla proprietà dei beni immobili realizzati sulle aree conferite, nel caso di opere di urbanizzazione secondaria. Nè si poteva ritenere realizzata un’accessione, posto che l’art. 934 c.c., fa salve le ipotesi previste dalla legge, tra le quali rileva il vincolo di destinazione previsto per i beni del patrimonio indisponibile (come avviene, proprio, per le opere di urbanizzazione).

3. Con il terzo motivo si deduce, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti e, comunque, vizio di motivazione contraddittoria e apparente. Si evidenzia che il tribunale aveva affermato contraddittoriamente, da un lato, che la proprietà dei beni da parte della resistente era sancita dalla convenzione del 2001 e, dall’altro, aveva osservato che la deliberazione consiliare del 2012 aveva derogato all’obbligo di trasferimento degli stessi in favore del comune. Si evidenzia ancora che, comunque, il tribunale non poteva esimersi dall’esaminare le censure sulla nullità dell’atto dispositivo e sull’inefficacia dell’attribuzione patrimoniale per mancato avveramento delle condizioni previste nella deliberazione.

4. Con ricorso incidentale si deduce, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione e falsa applicazione degli artt. 91 e 92 c.p.c., in ordine alla disposta compensazione delle spese legali.

5. Il ricorso principale è infondato.

5.1 Il primo motivo è, in realtà, in parte, inammissibile e, in altra parte, infondato.

5.1.1 Sotto il primo profilo, giova preliminarmente ricordare che, secondo la consolidata giurisprudenza espressa da questa Corte, in tema di interpretazione del contratto – riservata al giudice del merito, le cui valutazioni sono censurabili in sede di legittimità solo per violazione dei canoni legali di ermeneutica contrattuale o per vizi di motivazione (nei ristretti limiti, ora dettati dal novellato art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5) – al fine di far valere i suddetti vizi, il ricorrente per cassazione, per il principio di specificità ed autosufficienza del ricorso, deve riportare il testo integrale della regolamentazione pattizia del rapporto nella sua originaria formulazione, o della parte in contestazione, precisare quali norme ermeneutiche siano state in concreto violate e specificare in qual modo e con quali considerazioni il giudice di merito se ne sia discostato (Cass. Sez. L, Sentenza n. 8296 del 21/04/2005;Sez. 2, Sentenza n. 3075 d el 13/02/2006;Sez. L, Sentenza n. 11661 del 18/05/2006; Sez. L, Sentenza n. 1825 del 29/01/2007; Sez. U, Sentenza n. 10374 del 08/05/2007).

Ciò posto, la Corte non può non rilevare come, in realtà, la parte ricorrente, venendo meno al suo specifico obbligo allegatorio, non abbia riportato nel testo del ricorso ovvero allegato a quest’ultimo il testo della sopra ricordata convenzione del cui art. 5, comma 2, si deduce (peraltro, genericamente, come si evidenzierà tra breve) lo scostamento dai canoni legali di interpretazione del contratto.

A ciò si aggiunga che il ricorrente non ha neanche specificato quali norme ermeneutiche siano state in concreto violate e in qual modo e con quali considerazioni il giudice di merito se ne sia discostato, prospettando la censura come una richiesta di rivalutazione del contenuto delle clausole contrattuali contestate, richiesta che, così formulata, implicando uno scrutinio di merito della vicenda riservata ai giudici delle fasi precedenti, non può essere devoluta alla Corte di legittimità.

5.1.2 Sul punto, occorre, ancora una volta, precisare che l’accertamento della volontà degli stipulanti, in relazione al contenuto di una clausola contrattuale, costituisce indagine di fatto affidata in via esclusiva al giudice di merito. Ne consegue che detto accertamento è censurabile in sede di legittimità solo nel caso in cui la motivazione non consenta la ricostruzione dell’iter logico seguito da quel giudice per giungere ad attribuire alla clausola un determinato significato, oppure nel caso di violazione delle norme ermeneutiche stabilite dagli artt. 1362 c.c. e segg. (cfr. anche Cass. 2, Sentenza n. 12468 del 07/07/2004).

Va ulteriormente osservato come, sotto il profilo della violazione dei canoni ermeneutici contrattuali, la parte ricorrente abbia avanzato solo doglianze generiche e non autosufficienti e come, sotto altro profilo, la difesa del comune non abbia neanche allegato – nel motivo di censura qui in esame un vizio di motivazione del provvedimento impugnato, oggi prospettabile nei ristretti limiti di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.

5.1.3 Senza contare che il provvedimento impugnato è corredato, comunque, da un supporto argomentativo adeguato e giuridicamente corretto laddove lo stesso ha evidenziato che l’art. 5, comma 2, della convenzione più volte sopra ricordata avesse previsto un mero obbligo negoziale di trasferimento della proprietà delle opere di urbanizzazione realizzate sul suolo di proprietà (incontestabilmente) della società di trasformazione urbana in favore dell’ente territoriale, opere che – realizzate sul suolo di proprietà della prima – dovevano ritenersi, per il principio dell’accessione di cui all’art. 934 c.c., acquisite originariamente alla proprietà della predetta società e solo successivamente oggetto di un obbligo contrattuale di trasferimento in favore del comune, obbligo non perfezionatosi per l’intervenuta declaratoria di fallimento della società debitrice, nelle more della realizzazione delle opere di trasformazione, del collaudo delle stesse e del successivo (e non realizzato) trasferimento negoziale della proprietà.

5.1.4 Del resto, a conferma della correttezza giuridica della ricostruzione operata dal tribunale partenopeo, non si può non ricordare che la proprietà di un bene si acquista, ai sensi dell’art. 922 c.c., solo a titolo originario ovvero sulla base di un titolo contrattuale e per successione a causa di morte, oltre che nelle ipotesi specificatamente indicate dal legislatore che, all’evidenza, non ricorrono nel caso di specie, non essendo invocabile, nel caso di specie, il disposto della L. n. 1150 del 1942, art. 28, che riguarda altra fattispecie, diversa da quella oggi in esame.

5.1.5 Peraltro, non è condivisibile, nella sua astrattezza, neanche l’affermazione della intangibilità dei beni facenti parte del patrimonio indisponibile del comune, posto che il regime giuridico dei beni del patrimonio indisponibile è tracciato dall’art. 828 c.c., secondo cui essi sono soggetti alle regole particolari che li concernono e, in quanto non sia diversamente disposto, alle regole del codice civile, e non possono essere sottratti alla loro destinazione se non nei modi all’uopo stabiliti, con ciò volendo specificare che detti beni sono sottoposti al vincolo della incommerciabilità e della imprescrittibilità non in senso assoluto, come è stabilito per i beni demaniali, ma solo relativamente a quei fatti giuridici che siano incompatibili con la loro destinazione (così, Sez. U, Sentenza n. 477 del 16/02/1966).

Ne consegue il rigetto già del primo motivo.

5.2 Anche il secondo motivo di censura risulta essere, in parte, inammissibile e, in altra parte, infondato.

5.2.1 Inammissibile nella parte in cui deduce vizio di violazione di legge in relazione alla sopra indicata circolare ministeriale.

Sul punto è utile ricordare che, secondo la giurisprudenza espressa da questa Corte, la violazione di circolari ministeriali non può costituire motivo di ricorso per cassazione sotto il profilo della violazione di legge, non contenendo esse norme di diritto, ma essendo piuttosto qualificabili come atti unilaterali, in riferimento ai quali può essere denunciata per cassazione soltanto la violazione dei canoni legali di ermeneutica contrattuale, nella misura in cui essi sono applicabili anche agli atti unilaterali, ovvero i vizi di motivazione (Cass., Sez. 3, Sentenza n. 16612 del 19/06/2008; Sez. 6, Ordinanza n. 16644 del 10/08/2015).

5.2.2 Sotto altro profilo la censura risulta infondata, posto che – come già sopra evidenziato – la parte ricorrente, senza neanche allegare un vizio argomentativo (come tale deducibile nei limiti di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), non coglie neanche la ratio decidendi della motivazione impugnata che respinge la domanda di rivendica avanzata dal comune sulla base della condivisibile osservazione che i beni dei quali l’ente territoriale reclamava la proprietà erano di proprietà della società di trasformazione urbana perchè realizzati da quest’ultima su fondi di proprietà di quest’ultima e non ancora trasferiti all’ente comunale (sulla base dell’obbligo negoziale sopra ricordato), al momento della dichiarazione di fallimento.

5.3 Il terzo motivo è inammissibile per come formulato.

5.3.1 Giova ricordare che l’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, riformulato dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, conv. in L. 7 agosto 2012, n. 134, introduce nell’ordinamento un vizio specifico denunciabile per cassazione, relativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia). Ne consegue che, nel rigoroso rispetto delle previsioni dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, il ricorrente deve indicare il “fatto storico”, il cui esame sia stato omesso, il “dato”, testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il “come” e il “quando” tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua “decisività”, fermo restando che l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sè, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorchè la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie (Sez. U, Sentenza n. 8053 del 07/04/2014). Va anche precisato che, sempre secondo la giurisprudenza di vertice di questa Corte, la riformulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, disposta dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, conv. in L. 7 agosto 2012, n. 134, deve essere interpretata, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 preleggi, come riduzione al “minimo costituzionale” del sindacato di legittimità sulla motivazione. Pertanto, è denunciabile in cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sè, purchè il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali. Tale anomalia si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione (cfr. sempre Sez. U, Sentenza n. 8053 del 07/04/2014).

Ciò posto, osserva la Corte come la parte ricorrente, più che allegare un vizio di insanabile mancanza di motivazione, sembra dedurre una doglianza relativa alla insufficienza ovvero incoerenza logica della motivazione che non è più deducibile in cassazione. Ed invero, la denunciata intrinseca contraddittorietà della motivazione risulta essere solo formalmente allegata e comunque non corrisponde all’iter logico della motivazione impugnata che fonda principalmente la sua ratio decidendi sulla rilevata circostanza del mancato adempimento dell’obbligo contrattualmente assunto di trasferimento del bene da parte dalla società di trasformazione urbana in favore dell’ente comunale, al momento della dichiarazione di fallimento della società. La ulteriore circostanza della delibera consiliare n. 44/2012 è solo un mero argomento rafforzativo che non integra la ratio della decisione e che solo dà conferma “dall’esterno” del mancato intervenuto trasferimento della proprietà, trasferimento per il quale la società debitrice si era negozialmente obbligata con un contratto preliminare di vendita.

Ne consegue che la dedotta nullità della predetta circolare (del cui omesso esame la parte ricorrente si duole) non rappresenta una circostanza “decisiva”, nel senso già sopra chiarito.

Ne consegue il complessivo rigetto del ricorso principale.

6. Il ricorso incidentale è invece da rigettare sia in ragione della sua evidente genericità di formulazione sia perchè non considera la pronuncia della Corte costituzionale n. 77 del 7.3.2018, secondo la quale l’art. 92 c.p.c., comma 2, è illegittimo nella parte in cui non prevede che il giudice possa compensare le spese tra le parti, parzialmente e per intero, anche qualora sussistano altre analoghe gravi ed eccezionali ragioni.

Si dispone la compensazione delle spese del giudizio di legittimità in ragione della reciproca soccombenza.

P.Q.M.

rigetta il ricorso principale e quello incidentale, compensando tra le parti le spese del giudizio di legittimità.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente e del ricorrente incidentale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale e ricorso incidentale, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, il 21 febbraio 2020.

Depositato in Cancelleria il 19 giugno 2020

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