Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 11963 del 19/06/2020

Cassazione civile sez. III, 19/06/2020, (ud. 04/03/2020, dep. 19/06/2020), n.11963

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. TRAVAGLINO Giacomo – Presidente –

Dott. DI FLORIO Antonella – Consigliere –

Dott. RUBINO Lina – Consigliere –

Dott. ROSSETTI Marco – rel. Consigliere –

Dott. DELL’UTRI Marco – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso n. 27564/19 proposto da:

N.N., elettivamente domiciliata a Porto Recanati, via

Caravaggio n. 18, presso l’avvocato Consuelo Feroci che la difende

in virtù di procura speciale in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

Ministero dell’Interno;

– intimato –

avverso la sentenza della Corte d’appello di Torino 19.3.2019;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 4

marzo 2020 dal Consigliere relatore Dott. Marco Rossetti.

Fatto

FATTI DI CAUSA

N.N., cittadina nigeriana, chiese alla competente commissione territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale, di cui al D.Lgs. 25 gennaio 2008, n. 25, art. 4:

(a) in via principale, il riconoscimento dello status di rifugiato politico, ex D.Lgs. 19 novembre 2007, n. 251, art. 7 e ss.;

(b) in via subordinata, il riconoscimento della “protezione sussidiaria” di cui al D.Lgs. 19 novembre 2007, n. 251, art. 14;

(c) in via ulteriormente subordinata, la concessione del permesso di soggiorno per motivi umanitari, ex D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, art. 5, comma 6, (nel testo applicabile ratione temporis);

a fondamento dell’istanza dedusse di avere lasciato la Nigeria in quanto, essendo di religione anglicana, era entrata in contrasto con la madre, sacerdotessa di una divinità locale, la quale pretendeva che la figlia le succedesse in tale ruolo; soggiunse di avere lasciato la Nigeria alla volta della Libia, e di essersi pagata il viaggio grazie al prestito di un’amica, per restituire il quale iniziò a prostituirsi; nel colloquio dinanzi alla Commissione territoriale aggiunse, a domanda, di trovarsi in Italia dal 2014 e di non essere stata vittima di inganni per raggiungere il nostro Paese, nè di essere soggetta a ricatti o minacce per il pagamento del debito contratto per pagarsi il viaggio;

la Commissione Territoriale rigettò l’istanza;

avverso tale provvedimento N.N. propose, ai sensi del D.Lgs. 28 gennaio 2008, n. 25, art. 35, ricorso al Tribunale, che lo rigettò;

la sentenza di primo grado, appellata dalla soccombente, è stata confermata dalla Corte d’appello di Torino con sentenza 19.3.2019;

a fondamento della propria decisione la Corte d’appello ritenne che:

-) la protezione sussidiaria ex D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c) non poteva essere concessa perchè nella regione di provenienza della ricorrente ( E.S.) non esisteva una situazione di violenza indiscriminata derivante da conflitto armato;

-) la protezione umanitaria non poteva essere concessa perchè nel ricorso introduttivo del giudizio erano “totalmente mancate le motivazioni di carattere umanitario” poste a fondamento della domanda; ha aggiunto la Corte d’appello che l’eventuale attività lavorativa di badante svolta in Italia dalla ricorrente non giustificava il rilascio del permesso di soggiorno per motivi umanitari, e che “sul punto l’appellante non ha svolto alcun argomento per contrastare le argomentazioni” del Tribunale, limitandosi a insinuare il dubbio che la richiedente asilo potesse essere stata coinvolta nella tratta, circostanza però espressamente negata dalla stessa interessata;

tale sentenza è stata impugnata per cassazione da N.N. con ricorso fondato su due motivi;

il Ministero dell’Interno non si è difeso.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Col primo motivo la ricorrente lamenta ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, la violazione D.Lgs. n. 251 del 2007, artt. 2,7,8 e 14; nonchè della Convenzione di Ginevra sui rifugiati del 28.7.1951 (senza ulteriori precisazioni) e della Direttiva 2004/83/CE. Dopo una premessa sui principi generali in tema di protezione internazionale, l’illustrazione del motivo prospetta i seguenti argomenti:

-) il giudizio con cui la Corte d’appello ha escluso i presupposti della protezione sussidiaria è “illegittimo”, perchè se la ricorrente tornasse nel proprio paese, “sarebbe esposta a sicuri attacchi da parte dei propri persecutori e vivrebbe in uno stato di abbandono totale (…); sarebbe esposta al rischio di violenza diffusa che caratterizza la Nigeria anche nella regione Edo State”;

-) l’odierna ricorrente aveva fornito le prove necessarie e sufficienti della vicenda che giustificava la richiesta di protezione;

-) erroneamente la Corte d’appello ha ritenuto non provati i presupposti della protezione sussidiaria ed aveva ritenuto non credibile il racconto della ricorrente, perchè quest’ultima non poteva provare documentalmente “le minacce ricevute”;

-) nonostante l’odierna ricorrente fosse presente all’udienza (il ricorso non precisa se in primo grado o in appello), non le venne rivolta alcuna domanda.

1.1. Il motivo è inammissibile, per estraneità di temi e argomenti rispetto all’effettivo contenuto della sentenza impugnata.

La ricorrente sostiene che erroneamente la Corte d’appello non le ha creduto, e che se tornasse nel suo paese sarebbe vittima di violenze e minacce.

Ma nulla di tutto ciò è contenuto nella sentenza d’appello.

La sentenza d’appello, infatti, in nessun punto afferma nè che la ricorrente non fosse credibile, nè che avrebbe dovuto provare le minacce e le violenze subite.

La Corte d’appello ha innanzitutto ritenuto che la ricorrente avesse formulato una domanda di protezione sussidiaria fondata su un solo argomento: l’esistenza nello Stato nigeriana di Edo di una situazione generalizzata di conflitto armato.

Così delimitato il Thema decidendum, la corte d’appello ha ritenuto che nella regione nigeriana di Edo State non esistesse una condizione di violenza indiscriminata derivante da conflitto armato, ed ha di conseguenza rigettato la domanda.

Il ricorso tuttavia si disinteressa di tale ratio decidendi, nè contesta la attendibilità, precisione ed attualità delle fonti di informazione (c.d. Country of Origin Information – COI) cui la Corte d’appello ha attinto per giungere a tale conclusione.

Il ricorso, in definitiva, da un lato attribuisce alla sentenza impugnata un contenuto che non ha, e lo impugna; dall’altro trascura di impugnare il contenuto che la sentenza d’appello effettivamente ha.

2. Col secondo motivo la ricorrente impugna il rigetto della domanda di protezione umanitaria, lamentando, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, la violazione D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5 e D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 32.

Sostiene che la sentenza d’appello è “ingiustificatamente discriminante” perchè “anche qualora non si volesse credere al racconto della ricorrente, ciò non esclude a priori la possibilità di ottenere un permesso per motivi umanitari, in quanto non va in questa sede ricercata la vis persecutoria”.

Dopo aver affermato ciò, il motivo si conclude (pagine 15-16) con la elencazione di una serie di massime pronunciate dal Tribunale di Ancona.

2.1. Il motivo è inammissibile.

La Corte d’appello ha rigettato la domanda di rilascio del permesso di soggiorno per motivi umanitari osservando: “l’appellante non ha svolto alcun argomento per contrastare le argomentazioni che hanno determinato il rigetto della richiesta di rilascio del permesso umanitario”.

La Corte d’appello, pertanto, ha ritenuto che il rigetto della domanda di protezione umanitaria pronunciato dal tribunale non fosse stato validamente impugnato.

Giusta o sbagliata che fosse tale valutazione, essa costituisce una autonoma ratio decidendi, e si sarebbe dovuta impugnare con un motivo di ricorso ad hoc.

La ricorrente, per contro, alle pagine 13-16 del ricorso si limita a sostenere che erroneamente la corte d’appello ha escluso la ricorrenza del caso di specie di “motivi umanitari” giustificativi della invocata misura protettiva.

Una censura, pertanto, totalmente avulsa dall’effettivo contenuto decisorio della sentenza impugnata, e per ciò solo inammissibile.

3. Non è luogo a provvedere sulle spese, poichè la parte intimata non ha svolto attività difensiva.

3.1. Il rigetto del ricorso comporta l’obbligo del pagamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per l’impugnazione, ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, (nel testo introdotto dal L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17).

PQM

la Corte di cassazione:

(-) dichiara inammissibile il ricorso;

(-) dà atto che sussistono i presupposti previsti dal D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, per il versamento da parte del ricorrente di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per l’impugnazione.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Terza Sezione civile della Corte di cassazione, il 28 febbraio 2020.

Depositato in Cancelleria il 19 giugno 2020

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