Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 11961 del 19/06/2020

Cassazione civile sez. III, 19/06/2020, (ud. 04/03/2020, dep. 19/06/2020), n.11961

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. TRAVAGLINO Giacomo – Presidente –

Dott. DI FLORIO Antonella – Consigliere –

Dott. RUBINO Lina – Consigliere –

Dott. ROSSETTI Marco – rel. Consigliere –

Dott. DELL’UTRI Marco – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 28017/2019 proposto da:

A.A.M., elettivamente domiciliato a (OMISSIS) (c/o avv.

Domenico Naso), difeso dall’avv. Cristiano Dalla Torre in virtù di

procura speciale in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

Ministero dell’Interno;

– intimato –

avverso la sentenza della Corte d’appello di Trieste 14.3.2019;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 4

marzo 2020 dal Consigliere relatore Dott. Marco Rossetti.

Fatto

FATTI DI CAUSA

A.A.M., cittadino pakistano, chiese alla competente commissione territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale, di cui al D.Lgs. 25 gennaio 2008, n. 25, art. 4:

(a) in via principale, il riconoscimento dello status di rifugiato politico, ex D.Lgs. n. 19 novembre 2007, n. 251, art. 7 e ss.;

(b) in via subordinata, il riconoscimento della “protezione sussidiaria” di cui al D.Lgs. 19 novembre 2007, n. 251, art. 14;

(c) in via ulteriormente subordinata, la concessione del permesso di soggiorno per motivi umanitari, ex D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, art. 5, comma 6, (nel testo applicabile ratione temporis);

a fondamento dell’istanza dedusse di avere lasciato il Pakistan in quanto il proprio padre, avendo provocato la morte di una persona in conseguenza di un sinistro stradale, era stato condannato a 12 anni di reclusione, e i familiari del defunto, appartenenti ad una famiglia ricca e potente, pretendevano a titolo di risarcimento che il responsabile consentisse che il primogenito del responsabile (l’odierno ricorrente), lavorasse alle loro dipendenze fino a che, col proprio lavoro, non avesse pagato il debito risarcitorio;

la Commissione Territoriale rigettò l’istanza;

avverso tale provvedimento A.A.M. propose, ai sensi del D.Lgs. 28 gennaio 2008, n. 25, art. 35, ricorso al Tribunale, che lo rigettò;

la sentenza di primo grado venne appellata dal soccombente, ma la Corte d’appello di Trieste dichiarò inammissibile il gravame per tardività;

tale decisione venne cassata da questa Corte con ordinanza 19 gennaio 2018 n. 1400;

riassunto il giudizio, la decisione di primo grado venne confermata dalla Corte d’appello di Trieste con sentenza 14.3.2019;

a fondamento della propria decisione la Corte d’appello ritenne che:

-) il racconto del richiedente asilo era implausibile e quindi non credibile, come dimostrato dal fatto che questi, prima di raggiungere l’Italia, aveva soggiornato per lungo tempo in Libia, paese dal quale era rientrato ripetutamente in Pakistan, rimanendovi anche per lunghi periodi di tempo; nonchè dal fatto che, in un testo personalmente redatto dal richiedente asilo ed allegato alla domanda di protezione, egli aveva espressamente dichiarato che le motivazioni del suo espatrio, avvenuto nel lontano 2003, andavano ricercate nella sua situazione di povertà e nella necessità di cercare lavoro per mantenere la propria famiglia, senza alcun riferimento ai rischi posti invece a fondamento della domanda di protezione avanzata in sede giurisdizionale;

-) la protezione sussidiaria ex D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c) non poteva essere concessa perchè in Pakistan non esisteva una situazione di violenza indiscriminata derivante da conflitto armato (la Corte d’appello richiama il rapporto EASO del 2017, l’ultimo all’epoca disponibile);

-) la protezione umanitaria, infine, non poteva essere concessa in quanto, da un lato, il richiedente asilo non aveva raggiunto alcuna vera integrazione in Italia; dall’altro si doveva escludere nel caso di specie “che la partenza del richiedente dal suo paese sia stata determinata da una condizione di violazione dei suoi diritti umani”;

tale sentenza è stata impugnata per cassazione da A.A.M. con ricorso fondato su due motivi;

il Ministero dell’Interno non si è difeso;

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Col primo motivo il ricorrente prospetta, cumulativamente, sia il vizio di violazione di legge di cui all’art. 360 c.p.c., n. 3 (lamenta la violazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14 e del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8); sia il vizio di nullità processuale di cui all’art. 360 c.p.c., n. 4 (sostenendo che la sentenza impugnata poggia su una “motivazione apparente”); sia il vizio di omesso esame d’un fatto decisivo di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5.

Nella illustrazione del motivo viene impugnata la statuizione con cui la Corte d’appello ha rigettato la domanda di concessione della protezione sussidiaria.

Deduce il ricorrente che la Corte d’appello ha errato nel ritenere che in Pakistan, ed in particolare nella regione del Punjab, non vi fosse una situazione di violenza indiscriminata derivante da conflitto armato. Sostiene che la Corte d’appello ha letto in modo frammentario i rapporti delle principali agenzie internazionali prodotti in giudizio, estrapolandone passi che, avulsi dal contesto nel quale erano inseriti, avevano finito per assumere un senso ben diverso da quello originario. Sostiene che dai suddetti rapporti emergeva invece che nel Punjab si erano verificati vari scontri armati; che permaneva un serio rischio di attentati; che comunque nel Pakistan permaneva una situazione di violazione dei diritti umani.

Prosegue il ricorrente osservando che, ai fini del riconoscimento della protezione sussidiaria di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c), non è necessario che il richiedente dimostri di essere la vittima di una persecuzione “mirata”, ma è sufficiente che fornisca la prova di essere esposto ad una minaccia grave ed individuale alla vita o alla salute, quando la situazione del paese sia totalmente fuori dal controllo delle autorità statali.

1.1. Nella parte in cui lamenta il vizio di omesso esame di un fatto decisivo, di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5, il motivo è inammissibile. Tale censura viene infatti annunciata nell’intitolazione del motivo, ma non viene illustrata.

Il ricorso, inoltre, non indica in modo chiaro e preciso quale sarebbe il “fatto controverso” non esaminato dal giudice di merito; quando quel fatto sia stato dedotto in giudizio; come sia stato provato; perchè fosse decisivo: non indica, cioè, i parametri minimi essenziali richiesti dalle Sezioni Unite di questa Corte ai fini dell’ammissibilità d’un motivo di ricorso per cassazione fondato sulla previsione di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5 (Sez. U, Sentenza n. 8053 del 07/04/2014, Rv. 629830).

1.2. Nella parte in cui lamenta il vizio di nullità processuale per “motivazione apparente” il motivo è infondato.

La Corte d’appello ha infatti rigettato la domanda di protezione sussidiaria, con riferimento all’ipotesi di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c), sul presupposto che “la situazione della sicurezza in Pakistan non è omogenea e gli episodi di violenza sono stati in diminuzione dal 2016 (…). Dal Punjab non sono stati neppure segnalati sfollamenti indotti da conflitti (…). Anche le notizie (…) richiamate dall’appellante confermano che, seppure sussista in Pakistan il rischio di attentati, ciò vale principalmente nelle grandi città e nelle aree al confine con l’Afghanistan; neppure tali notizie offrono elementi relativi a una situazione di violenza generalizzata inquadrabile nella fattispecie di cui all’art. 14 lettera c) nella zona di provenienza del richiedente”.

Una motivazione, dunque, quella adottata dalla Corte d’appello, ben chiara e niente affatto apparente.

1.3. Nella parte in cui lamenta la violazione del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8 il motivo è infondato.

A prescindere dal rilievo che il ricorrente non indica con chiarezza quale delle molteplici disposizioni previste dalla suddetta norma assume essere stata violata dalla Corte d’appello, e supponendo che con tale censura il ricorrente abbia inteso dolersi della violazione, da parte del giudice di merito, del c.d. dovere di cooperazione istruttoria, rileva questa Corte che a tale dovere non solo la Corte d’appello non è venuta meno (avvalendosi, per le sue conclusioni, del rapporto sul Pakistan redatto dall’EASO e diffuso ad agosto 2017, e dunque di una fonte precisa ed attendibile); ma anzi la Corte d’appello ha dichiarato di fondare le proprie conclusioni sulla documentazione stessa prodotta dal ricorrente.

Lo stabilire, poi, se tale documentazione poteva essere interpretata in modi diversi da quanto ritenuto dalla Corte d’appello è un accertamento di merito, come tale sottratto al perimetro del giudizio di legittimità.

1.4. Nella parte, infine, in cui lamenta la violazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14 il motivo è inammissibile.

Infatti, una volta che il giudice di merito abbia rispettato il disposto del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, comma 3, lo stabilire in concreto se in un determinato paese esista o non esista una situazione di violenza indiscriminata derivante da conflitto armato è un accertamento di fatto, non una valutazione in diritto.

Ritiene questa Corte non superfluo aggiungere che in ogni caso alle fonti aggiornate ed attendibili utilizzate dalla Corte d’appello, il ricorrente contrappone (p. 9 del ricorso, nota n. 4) un rapporto di Amnesty International molto generico, in quanto destinato a riassumere globalmente le condizioni di “Asia e Pacifico”, e nel quale più che di una situazione di guerra si fa menzione di una situazione di corruzione ed inefficienza degli apparati statali.

2. Col secondo motivo il ricorrente impugna il rigetto della domanda di protezione umanitaria.

L’intitolazione del motivo, senza ulteriori precisazioni, prospetta sia la violazione di legge di cui all’art. 360 c.p.c., n. 3; sia la nullità processuale di cui all’art. 360 c.p.c., n. 4; sia l’omesso esame d’un fatto decisivo di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5.

Al di là di tale intitolazione, nella illustrazione del motivo il ricorrente deduce che, in primo grado, a fondamento della domanda di rilascio del permesso di soggiorno per motivi umanitari aveva dedotto due circostanze di fatto: da un lato la grave situazione interna del Pakistan; dall’altro il buon livello di integrazione da lui raggiunto in Italia; aggiunge che la Corte d’appello, tuttavia, aveva svalutato questo secondo elemento, ritenendo infondatamente che la retribuzione da lui percepita non fosse sufficiente per il suo mantenimento; che, inoltre, la Corte d’appello aveva adottato una motivazione contraddittoria, da un lato non mettendo in dubbio che l’odierno ricorrente avesse svolto attività di volontariato e frequentato corsi di lingua italiana, ma dall’altro sostenendo che egli “non potesse vantare un particolare livello di integrazione sociale e lavorativa in Italia”; che la Corte d’appello, inoltre, aveva completamente omesso di comparare la vicenda personale del ricorrente con le condizioni di sviluppo e di sicurezza dell’area di sua provenienza; che nel caso di specie ricorreva in particolare la temporanea impossibilità di rimpatrio a causa dell’insicurezza del paese; che la Corte d’appello non aveva tenuto conto “dell’assenza effettiva di prospettive economiche in caso di rientro” dell’odierno ricorrente, nè della situazione di emergenza umanitaria in cui si trova il Pakistan.

2.1. Il motivo è fondato.

In tema di protezione umanitaria questa Corte ha stabilito – con recente decisione, che il Collegio condivide e richiama (Sez. 1, Ordinanza n. 1104 del 20.1.2020) – i seguenti principi:

(a) il giudizio sulla “vulnerabilità”, quale circostanza legittimante il rilascio del permesso di soggiorno per motivi umanitari, va compiuto con valutazione “caso per caso”;

(b) tale giudizio va compiuto, in particolare, comparando “il grado d’integrazione effettiva nel nostro Paese e la situazione soggettiva e oggettiva del richiedente nel Paese di origine, al fine di verificare se il rimpatrio possa determinare (…) la privazione della titolarità dell’esercizio dei diritti umani, al di sotto del nucleo ineliminabile e costitutivo della dignità personale”;

(c) il giudizio di comparazione suddetto “è concettualmente caratterizzato da una relazione di proporzionalità inversa tra fatti giuridicamente rilevanti, che impone un peculiare bilanciamento tra condizione soggettiva del richiedente asilo e situazione oggettiva del Paese di eventuale rimpatrio”, per cui “quanto più risulti accertata in giudizio (…) una situazione di particolare o eccezionale vulnerabilità, tanto più è consentito al giudice di valutare con minor rigore il secundum comparationis, costituito dalla situazione oggettiva del paese di rimpatrio, onde la conseguente attenuazione dei criteri predicati (…) con esclusivo riferimento alla comparazione del livello di integrazione raggiunto in Italia – rappresentati “dalla privazione della titolarità dell’esercizio dei diritti umani, al di sotto del nucleo ineliminabile e costitutivo della dignità personale”.

2.2. Nel caso di specie, all’esame del motivo d’appello concernente il rigetto della domanda di rilascio del permesso di soggiorno per motivi umanitari la Corte d’appello ha dedicato il paragrafo 10 della sentenza (da pagina 8, ultime tre righe, a pagina 9).

In questa parte della sentenza impugnata la Corte d’appello, dopo aver correttamente escluso che le modifiche introdotte dal D.L. n. 113 del 2018 in tema di permesso di soggiorno per motivi umanitari fossero applicabili al caso di specie ratione temporis, sviluppa una motivazione così riassumibile:

a) in punto di fatto, il ricorrente per dimostrare il livello di integrazione raggiunto nel proprio paese aveva depositato quattro documenti:

-) un attestato di attività di volontariato svolto per due giorni alla settimana per cinque mesi, conclusosi quattro anni prima della decisione qui impugnata, cioè nel 2015;

-) un attestato di frequenza di un corso di lingua italiana della durata 10 ore, anch’esso svolto nel 2015;

-) un contratto di lavoro part-time svolto nel 2017, con una retribuzione di Euro 313 mensili;

-) un contratto di lavoro a tempo determinato svolto nel 2018, con una retribuzione di Euro 485 mensili;

b) sempre in punto di fatto, la regione di provenienza del richiedente aveva un più elevato livello di alfabetizzazione, di istruzione e di accesso all’acqua rispetto al resto del Pakistan; aveva un livello più avanzato di occupazione ed un sistema sanitario moderno;

c) premesse queste due considerazioni in fatto, la Corte d’appello ha concluso in punto di diritto che nel caso di specie si dovesse escludere che, in caso di rimpatrio del richiedente, questi si sarebbe trovato esposto al rischio di condizioni di vita non rispettose del nucleo minimo dei diritti inviolabili della persona.

2.4. Ritiene il collegio che la motivazione appena riassunta da un lato non abbia compiuto in modo corretto il giudizio di “bilanciamento” come tratteggiato supra, al p. 2.2; e dall’altro contenga una contraddizione che la infirma in modo insanabile.

2.4.1. Sotto il primo aspetto la Corte d’appello, richiamando a fondamento del proprio giudizio il rapporto EASO, afferma che la provincia di provenienza del richiedente ha un “più elevato livello” di occupazione ed istruzione rispetto al resto del Pakistan.

Indicazione, questa, insufficiente a rendere palese se il giudizio di bilanciamento sia stato compiuto in modo corretto, poichè non consente di stabilire quale sia il parametro di partenza rispetto al quale le condizioni della regione di provenienza del richiedente sono state ritenute “di più elevato livello”.

Le condizioni socioeconomiche di una determinata area geografica, al fine di soddisfare il giudizio di bilanciamento richiesto dal D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, infatti, dovrebbero essere esposte in termini assoluti e non relativi, e comunque espliciti.

Un comparativo di maggioranza, per contro (“livello più elevato”) non assolve l’onere della motivazione, ovvio essendo che – in tesi e ragionando per paradossi – un paese che avesse un reddito medio pro capite di 10 Euro sarebbe certamente un paese di livello economico “più elevato” rispetto ad un altro il cui reddito medio pro capite fosse solo di 9 Euro, ma non cesserebbe per ciò solo di essere un paese miserrimo.

Questo “più elevato livello” della condizione socioeconomica del Punjab rimane dunque, nella motivazione della sentenza impugnata, più implicitamente presupposto che esplicitamente motivato, e di conseguenza non può ritenersi validamente compiuto il giudizio di bilanciamento tra le condizioni raggiunte dal richiedente in Italia e quelle cui si troverebbe esposto in caso di rimpatrio, a causa della nebulosità di queste ultime.

2.4.2. Sotto il secondo aspetto, la Corte d’appello dapprima ha affermato (p. 8, settultimo rigo) che “il rapporto di Amnesty International sul Pakistan (…) sicuramente attesta violazione dei diritti umani in quel Paese”; per poi tuttavia escludere che “la partenza del richiedente dal suo paese sia stata determinata da una condizione di violazione dei suoi diritti umani”.

Le due affermazioni, compiute in questi termini e senza ulteriori precisazioni, appaiono a questa Corte insanabilmente contraddittorie, e come tali idonee a rendere la sentenza nulla ai sensi dell’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4.

3. La sentenza impugnata va perciò cassata su questo punto, con rinvio della causa alla Corte d’appello di Trieste, la quale nel riesaminare il motivo di opposizione concernente il rilascio del permesso di soggiorno per motivi umanitari provvederà a sanare le mende sopra evidenziate, e dunque:

a) compiendo il giudizio di bilanciamento previa adeguata motivazione circa le condizioni della regione di provenienza;

b) accertando in modo non equivoco se in quella regione esista o non esista una violazione del nucleo inviolabile dei diritti umani.

4. Le spese del giudizio di legittimità saranno liquidate dal giudice del rinvio.

PQM

(-) rigetta il primo motivo di ricorso;

(-) accoglie, nei limiti esposti nella motivazione, il secondo motivo di ricorso, cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia la causa alla Corte d’appello di Trieste, in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Terza Sezione civile della Corte di cassazione, il 4 marzo 2020.

Depositato in Cancelleria il 19 giugno 2020

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