Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 11955 del 07/05/2019

Cassazione civile sez. II, 07/05/2019, (ud. 02/10/2018, dep. 07/05/2019), n.11955

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. GORJ Sergio – Presidente –

Dott. BELLINI Ubaldo – Consigliere –

Dott. FALASCHI Milena – rel. Consigliere –

Dott. SABATO Raffaele – Consigliere –

Dott. OLIVA Stefano – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 11008-2015 proposto da:

T.S., elettivamente domiciliato in Roma, via Venti

Settembre n. 98/G, presso lo studio dell’avvocato Guido Guidi

Buffarini, che lo rappresenta e difende;

– ricorrente –

contro

X.C., e HU.ZH.YI., elettivamente domiciliati in Roma,

via Ricciotti Nicola n. 9, presso lo studio dell’avvocato Brunella

Caiazza, che li rappresenta e difende;

– controricorrenti –

avverso la sentenza n. 5860/2014 della Corte di appello di Roma

depositata il 25 settembre 2014;

udita la relazione della causa svolta nell’udienza pubblica del 2

ottobre 2018 dal Consigliere relatore Dott.ssa Milena Falaschi;

udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore

Generale Dott. Troncone Fulvio, che ha concluso per l’accoglimento

dei primi motivi di ricorso, assorbiti i restanti;

udito l’Avv.to Giudo Guidi Buffarini, per parte ricorrente, e

l’Avv.to Brunella Caiazza, per parte resistente.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con atto di citazione notificato il 24 giugno 2004 X.C. e Hu.Zh.Yi. evocavano, dinanzi al Tribunale di Roma, T.S. chiedendo di accertare e dichiarare la validità del contratto preliminare di compravendita (di cosa altrui) stipulato fra gli stessi in data 14 ottobre 2003 avente ad oggetto immobile che si assumeva di proprietà della Tesciuvà s.r.l. ovvero, in alternativa, la cessione di quote sociali (pari al 100% del capitale) della Immobiliare Conteverde s.r.l. oppure il trasferimento della proprietà dell’immobile sito in (OMISSIS), scelta che – a norma della clausola contenuta all’art. 2 del contratto – spettava alla parte promittente venditrice a sua semplice discrezione. Aggiungevano di avere corrisposto la somma di Euro 670.000,00 a titolo di caparra confirmatoria, per cui chiedevano pronunciarsi sentenza costitutiva ex art. 2932 c.c., in adempimento del contratto preliminare stipulato, di trasferimento delle quote sociali dell’Immobiliare Conteverde s.r.l. o, in alternativa, la proprietà dell’immobile sito in (OMISSIS).

Instaurato il contraddittorio nella resistenza del convenuto, intervenute nel giudizio la Immobiliare Conteverde s.r.l. e la SCAT (già Tesciuvà) s.r.l., i quali chiedevano la condanna degli attori al pagamento del residuo prezzo di vendita oppure, in via subordinata, la dichiarazione di legittimità del recesso da parte del convenuto e delle intervenienti, con diritto degli stessi di ritenzione della caparra confirmatoria ex art. 1385 c.c., ovvero, in via di ulteriore subordine, la dichiarazione di risoluzione del contratto per inadempimento delle controparti, con condanna degli attori al risarcimento dei danni, il giudice adito, con sentenza n. 14433/2012, dichiarava il difetto di legittimazione passiva del T. in ordine alla domanda ex art. 2932 c.c. e respingeva ogni altra domanda avente ad oggetto l’adempimento di obbligazioni riferite a parti che non avevano sottoscritto il preliminare, condannando il solo T. a restituire la somma di Euro 670.000,00, oltre ad interessi.

In virtù di rituale impugnazione interposta dal T., la Corte di appello di Roma, nella resistenza dei soli appellati-originari attori, con sentenza n. 5860/2014, dichiarava inammissibile l’appello, oltre a dichiarare la carenza di legittimazione della Immobiliare Conte Verde s.r.l..

A sostegno della decisione adottata la corte capitolina evidenziava che il T. sia nella procedimento di sequestro ante causam, iniziato dai medesimi promissari acquirenti, sia nel giudizio di merito in corso aveva confessato che fra le parti era intercorsa ipotesi di simulazione parziale del contratto, per essere egli la vera parte promittente venditrice. Trattandosi però di bene immobile non era ammessa quale prova della simulazione neanche la confessione, con la conseguenza che l’appellante non era legittimato a richiedere neanche l’adempimento del preliminare di vendita ovvero la dichiarazione di legittimità di recesso oppure la risoluzione del contratto, domande tutte in relazione alle quali unica legittimata era la Scat (già Tesciuvà) s.r.l., la quale non aveva appellato la sentenza di primo grado, per cui nei suoi confronti la sentenza era passata in giudicato.

Quanto alla Immobiliare Conteverde s.r.l., il giudice di prime cure avrebbe dovuto dichiarare l’inammissibilità del suo intervento per essere la stessa estranea al preliminare di vendita sebbene avesse ad oggetto anche la promessa di vendita delle sue quote, giacchè la cessione delle medesima spettava solo ai proprietari dei titoli e non già alla società.

In ordine alla condanna di restituzione di quanto percepito dall’appellante, dalla attenta lettura delle conclusioni dell’atto di appello, il giudice distrettuale deduceva che l’appellante aveva formulato richieste di riconoscimento di diritti facenti capo ad altri parti, di qui la pronuncia di inammissibilità del gravame per carenza di interesse.

Avverso la sentenza della Corte di appello di Roma T.S. ha proposto ricorso per cassazione, sulla base di cinque motivi, cui hanno resistito con controricorso i soli X.C. e Hu.Zh.Yi., rimaste intimate le società originarie intervenienti.

Il ricorso – previa relazione stilata dal nominato consigliere delegato – è stato inizialmente avviato per la trattazione in camera di consiglio, in applicazione degli artt. 375 e 380-bis c.p.c., avanti alla sesta sezione civile – 2. All’esito dell’adunanza camerale fissata al 19.05.2017, con ordinanza interlocutoria n. 27857 del 2017 depositata il 22.11.2017, il procedimento è stato rimesso alla pubblica udienza dinanzi alla seconda sezione per mancanza dell’evidenza decisoria.

Entrambe le parti hanno depositato memoria illustrativa in prossimità della pubblica udienza, oltre ad avervi provveduto già in vista dell’adunanza camerale.

Diritto

CONSIDERATO IN DIRITTO

In via pregiudiziale va esaminata la deduzione di inammissibilità del ricorso formulata nel controricorso ai sensi dell’art. 366 c.p.c., n. 3, in quanto non conterrebbe l’esposizione sommaria dei fatti della causa. L’eccezione è infondata.

Il requisito dell’esposizione sommaria dei fatti di causa – prescritto, a pena di inammissibilità del ricorso per cassazione, dall’art. 366 c.p.c., n. 3), – può ritenersi nella specie osservato dalla riproduzione, nel ricorso, del testo “in fatto” della sentenza impugnata, il quale contiene la descrizione dello svolgimento del processo, mediante il riferimento ai precedenti gradi di giudizio (v. le pagine da 2 a 6). In altri termini, in esso, con la trascrizione della sentenza impugnata, vi è una corretta ed essenziale narrazione dei fatti processuali (Cass. Sez. Un. 21260 del 2016).

Ugualmente non accoglibile è l’eccezione di inammissibilità dei motivi formulati ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 per quanto di seguito si dirà in ordine ad ognuno di essi.

Passando al merito del ricorso, con il primo motivo il ricorrente lamenta la violazione e la falsa applicazione degli artt. 112,132,342 e 346 c.p.c. in tema di omessa pronuncia, errata interpretazione della domanda, specificità dei motivi di appello e nullità della sentenza. Ad avviso del ricorrente il giudice del merito non avrebbe dovuto interpretare le conclusioni contenute nell’atto di appello sulla base di un mero dato testuale, ma nella loro complessità, avuto riguardo al contenuto sostanziale dell’atto di impugnazione. Del resto egli aveva chiarito di avere sottoscritto il preliminare nella qualità di amministratore unico della Tesciuvà s.r.l. (ora SCAT) e in tale veste aveva anche ricevuto la somma in questione.

Con il secondo ed il terzo motivo sono denunciati la violazione e la falsa applicazione degli artt. 112,342,346,351 c.p.c., nonchè dell’art. 132 c.p.c., oltre a vizio di motivazione, lamentando l’omesso esame circa fatti decisivi per il giudizio che sono stati oggetto di discussione tra le parti. In particolare il ricorrente si duole della mancanza di qualunque motivazione circa le ragioni della ritenuta non impugnazione del capo di sentenza relativo alla sua condanna alla restituzione della caparra, dal momento che veniva criticata la statuizione relativa alla condanna alla restituzione dell’importo di Euro 670.000,00 di una parte ritenuta priva di legittimazione, per cui non avrebbe potuto essere destinataria di siffatta pronuncia.

Aggiunge che l’interpretazione dell’atto e l’impostazione che ne è conseguita comporterebbe la violazione del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato (art. 112 c.p.c.) o di quello del tantum devolutum quantum appellatum (art. 345 c.p.c.), trattandosi comunque di un error in procedendo, che attribuisce al Giudice di legittimità il potere di procedere direttamente all’esame degli atti.

I tre motivi – che appare opportuno trattare unitariamente, in quanto attengono alle diverse argomentazioni dell’ordito motivazione della Corte di appello concernenti la ritenuta carenza di legittimazione passiva e, allo stesso tempo, di condanna alla restituzione della caparra – sono fondati.

La Corte di appello di Roma, pur dando atto al penultimo e all’ultimo capoverso della pagina 11 della decisione impugnata che la vicenda risultava “assolutamente surreale” “essendo stata introdotta una richiesta di condanna all’adempimento coatto nei confronti di persona fisica che, chiaramente, aveva agito nel preliminare esclusivamente come legale rappresentante della società”, precisa poi che altrettanto “surreale risulta anche il fatto che il T. anzichè costituirsi e richiedere la palese dichiarazione di carenza di legittimazione, abbia fatto costituire, con lo stesso atto, la società promittente venditrice nonchè la società le cui quote erano oggetto della promessa di vendita”, nell’argomentare le ragioni della pronuncia di inammissibilità dell’appello ha dato rilievo alla circostanza che l’appellante – nel criticare la sentenza di primo grado che aveva accertato la sua carenza di legittimazione passiva e ciò nonostante lo aveva condannato “alla restituzione della caparra di un contratto che non lo vedeva come parte” – non aveva assunto alcuna conclusione sullo specifico punto della condanna, come desumibile dal testo delle conclusioni dell’atto di appello riportate in sentenza.

Costituisce orientamento consolidato di questa Corte (cfr Cass. n 4053 del 2004 e Cass. n. 11372 del 2006) che il “thema decidendi” nel giudizio di secondo grado è delimitato dai motivi di impugnazione, la cui specifica indicazione è richiesta, ex artt. 342 e 434 c.p.c., per l’individuazione dell’oggetto della domanda d’appello e per stabilire l’ambito entro il quale deve essere effettuato il riesame della sentenza impugnata; tuttavia, poichè il bene della vita richiesto non può che essere, in linea di massima, quello negato in primo grado, ovvero delimitato dagli stessi motivi di impugnazione così che, se questi siano chiaramente rivolti contro le argomentazioni che avevano condotto il primo giudice al rigetto della domanda, va escluso che, pur in mancanza di conclusioni precise, possa ravvisarsi acquiescenza alla reiezione di essa, dovendosi ravvisare la riproposizione della domanda e delle eccezioni negli identici termini iniziali, con le eventuali delimitazioni evidenziate dalla specificazione dei motivi di gravame e dalla eventuale incompatibilità rispetto ad essi.

Ovviamente le stesse considerazione valgono nella ipotesi opposta in cui sia il soccombente a dolersi del mancato accoglimento delle eccezioni e difese proposte in primo grado allo scopo di paralizzare l’avversa domanda.

In primo grado il T. aveva chiesto – unitamente alle società intervenienti – la condanna degli attori al pagamento del residuo prezzo di vendita oppure, in via subordinata, la dichiarazione di legittimità del loro recesso ed il diritto alla ritenzione della caparra confirmatoria, in via di ulteriore subordine, la dichiarazione di risoluzione del contratto per inadempimento delle controparti con condanna al risarcimento del danno, per cui l’instaurazione del giudizio di appello era finalizzata alla riproposizione delle stesse richieste, conseguibili con la riforma della sentenza del Tribunale. D’altra parte la Corte territoriale, contrariamente a quanto sostenuto nelle conclusioni, ha spiegato che le censure che sono state proposte dagli appellati al T. erano funzionali al “petitum” costituito da una responsabilità contrattuale, tuttavia il giudice di prime cure aveva fondato l’obbligo di restituzione sulla mancanza di causa, questione su cui, peraltro, il T. risulta essersi difeso.

Giova ricordare che questa Corte ha sempre affermato (Cass. n. 4720 del 1996) che l’interpretazione dell’effettivo contenuto dell’atto di appello (rimessa istituzionalmente al giudice di merito nell’esercizio di un potere insindacabile in sede di legittimità se correttamente e congruamente motivato) deve avvenire non solo in base alla sua letterale formulazione, ma tenendo conto delle sostanziali finalità che la parte intende perseguire.

Dunque, in definitiva, la motivazione posta a fondamento del rigetto dell’appello del T. non solo non esprime in maniera piana le ragioni della decisione, facendo riferimento alla mancanza di gravame sul punto della condanna alle restituzioni, ma è addirittura per certi versi logicamente incompatibile con la decisione di primo grado e costituisce motivazione apparente ed intrinsecamente, quanto insanabilmente, contraddittoria.

Ciò determina una assoluta impossibilità di ricostruire le effettive ragioni della decisione, in relazione alla censure operate dall’appellante rispetto alla sentenza di primo grado.

La sentenza impugnata è quindi nulla, come dedotto dal ricorrente e per questo aspetto va cassata.

Le ulteriori censure esposte con il quarto ed il quinto motivo, che attengono alla nullità della sentenza e alla contraddittorietà tra motivazione e dispositivo, restano assorbite dall’accoglimento delle prime tre censure.

Pertanto la sentenza impugnata va annullata con rinvio ad altra sezione della medesima Corte territoriale, che dovrà procedere ad una nuova valutazione dei motivi di impugnazione tenendo conto della sostanziale finalità che la parte intende perseguire.

Il giudice di rinvio provvederà anche a regolamentare le spese del giudizio di Cassazione.

P.Q.M.

La Corte, accoglie i primi tre motivi di ricorso, assorbiti i restanti;

cassa la sentenza impugnata e rinvia a diversa Sezione della Corte di appello di Roma, anche per le spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della sezione seconda civile della Corte di Cassazione, il 2 ottobre 2018.

Depositato in Cancelleria il 7 maggio 2019

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