Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 11936 del 19/06/2020

Cassazione civile sez. III, 19/06/2020, (ud. 28/02/2020, dep. 19/06/2020), n.11936

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SPIRITO Angelo – Presidente –

Dott. TRAVAGLINO Giacomo – Consigliere –

Dott. DI FLORIO Antonella – Consigliere –

Dott. VINCENTI Enzo – Consigliere –

Dott. ROSSETTI Marco – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso n. 27902/19 proposto da:

A.B., elettivamente domiciliato a Roma, viale delle Milizie

n. 38 (c/) avv. Stefania Paravani), difeso dall’avvocato Valentina

Nanula in virtù di procura speciale in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

Ministero dell’Interno;

– intimato –

avverso il decreto del Tribunale di Milano 18.8.2019;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

28 febbraio 2020 dal Consigliere relatore Dott. Marco Rossetti.

Fatto

FATTI DI CAUSA

A.B., cittadino (OMISSIS), chiese alla competente commissione territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale, di cui al D.Lgs. 25 gennaio 2008, n. 25, art. 4:

(a) in via principale, il riconoscimento dello status di rifugiato politico, D.Lgs. 19 novembre 2007, n. 251, ex artt. 7 e segg.;

(b) in via subordinata, il riconoscimento della “protezione sussidiaria” di cui al D.Lgs. 19 novembre 2007, n. 251, art. 14;

(c) in via ulteriormente subordinata, la concessione del permesso di soggiorno per motivi umanitari, D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, ex art. 5, comma 6 (nel testo applicabile ratione temporis);

a fondamento dell’istanza dedusse di aver lasciato il Bangladesh per timore di essere ucciso dagli zii e dai cugini, che volevano impossessarsi della sua casa;

la Commissione Territoriale rigettò l’istanza;

avverso tale provvedimento A.B. propose, ai sensi del D.Lgs. 2 gennaio 2008, n. 25, art. 35 bis, ricorso dinanzi alla sezione specializzata, di cui al D.L. 17 febbraio 2017, n. 13, art. 1, comma 1, del Tribunale di Milano, che la rigettò con Decreto 18 agosto 2019;

il Tribunale ritenne che il richiedente asilo non era credibile; che il suo racconto era lacunoso e irragionevole; che gli stessi documenti da lui prodotti a sostegno delle proprie allegazioni (una dichiarazione scritta della propria moglie) contraddicevano su alcuni punti i fatti narrati dal richiedente asilo; che in Bangladesh non esisteva una situazione di violenza indiscriminata derivante da conflitto armato; che la domanda di rilascio del permesso di soggiorno per motivi umanitari non potesse essere accolta in quanto l’unica circostanza peculiare posta a fondamento della domanda di protezione umanitaria era rappresentata dall’avvenuta integrazione sociale del ricorrente, che avrebbe seguito corsi di lingua italiana; tuttavia tale circostanza, da sola, non poteva giustificare il riconoscimento della protezione umanitaria, nè poteva ritenersi che il rientro del richiedente asilo nel suo paese avrebbe comportato una lesione dei suoi diritti fondamentali al di sotto del minimo ineliminabile;

tale decreto è stato impugnato per cassazione da A.B. con ricorso fondato su due motivi ed illustrato da memoria;

il Ministero dell’Interno non si è difeso.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Col primo motivo il ricorrente lamenta, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, la violazione del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8 e del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3.

Il motivo, se pur formalmente unitario, contiene in realtà tre distinte censure.

1.1. Con una prima censura (pp. 3-6 del ricorso) il ricorrente lamenta che erroneamente il tribunale avrebbe ritenuto “inattendibile” il suo racconto.

Deduce che il tribunale avrebbe ingiustamente svalutato alcune fonti di prova (la dichiarazione giurata di sua moglie), e che non avrebbe “correttamente valutato gli elementi inconfutabili” da lui prodotti a sostegno della domanda.

1.1.1. Questa prima censura è inammissibile, in quanto non è consentita in sede di legittimità una valutazione delle prove ulteriore e diversa rispetto a quella compiuta dal giudice di merito, a nulla rilevando che quelle prove potessero essere valutate anche in modo differente rispetto a quanto ritenuto dal giudice di merito (ex permultis, Sez. L, Sentenza n. 7394 del 26/03/2010, Rv. 612747; Sez. 3, Sentenza n. 13954 del 14/06/2007, Rv. 598004; Sez. L, Sentenza n. 12052 del 23/05/2007, Rv. 597230; Sez. 1, Sentenza n. 7972 del 30/03/2007, Rv. 596019; Sez. 1, Sentenza n. 5274 del 07/03/2007, Rv. 595448; Sez. L, Sentenza n. 2577 del 06/02/2007, Rv. 594677; Sez. L, Sentenza n. 27197 del 20/12/2006, Rv. 594021; Sez. 1, Sentenza n. 14267 del 20/06/2006, Rv. 589557; Sez. L, Sentenza n. 12446 del 25/05/2006, Rv. 589229; Sez. 3, Sentenza n. 9368 del 21/04/2006, Rv. 588706; Sez. L, Sentenza n. 9233 del 20/04/2006, Rv. 588486; Sez. L, Sentenza n. 3881 del 22/02/2006, Rv. 587214; e così via, sino a risalire a Sez. 3, Sentenza n. 1674 del 22/06/1963, Rv. 262523, la quale affermò il principio in esame, poi ritenuto per sessant’anni: e cioè che “la valutazione e la interpretazione delle prove in senso difforme da quello sostenuto dalla parte è incensurabile in Cassazione”).

1.2. Con una seconda censura (annunciata nell’intitolazione del motivo, e fugacemente ribattuta solo a pagina 5, penultimo capoverso, del ricorso) il ricorrente lamenta la violazione, da parte del Tribunale, del c.d. dovere di cooperazione istruttoria, di cui al D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8.

1.2.1. Questa censura è manifestamente inammissibile per difetto di rilevanza.

Il D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, comma 3, impone al giudice chiamato a decidere una controversia in materia di protezione internazionale il dovere di acquisire “informazioni precise e aggiornate circa la situazione generale esistente nel Paese di origine dei richiedenti asilo”. La “situazione generale del Pese di origine” ovviamente concerne il contesto sociale, politico, economico, legislativo del suddetto paese. Il dovere di “cooperazione istruttoria”, altrettanto ovviamente, non si estende alle vicende private del richiedente asilo: per l’ovvia ragione che ben difficilmente potrebbero esistere fonti e rapporti internazionali che di quelle vicende diano conto.

Nel caso di specie, a fondamento della domanda di protezione internazionale, l’odierno ricorrente ha dedotto una vicenda totalmente privata: essere stato con violenza sloggiato dalla propria abitazione da parte di alcuni parenti, e l’instaurazione in conseguenza di questo fatto di “un clima continuo di minacce che imponevano al ricorrente di partire per reperire un posto sicuro dove poter lavorare”.

Il ricorrente, inoltre, ha aggiunto di non aver denunciato i suoi persecutori non già per l’inefficienza o la corruzione degli apparati statali preposti alla repressione dei crimini, ma “per mancanza di risorse economiche che consentissero di potersi difendere”.

Pertanto i fatti stessi narrati dal richiedente asilo non evidenziavano alcuna vicenda persecutoria derivante dal contesto sociale, politico od economico del suo paese di origine, ed il tribunale non aveva conseguentemente alcun obbligo di acquisire ex officio informazioni sul suddetto contesto.

1.3. Con una terza censura, infine (pp. 6-9 del ricorso) il ricorrente investe il giudizio di rigetto della domanda di protezione sussidiaria di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14.

Nella illustrazione del motivo il ricorrente sviluppa un’argomentazione giuridica così riassumibile:

a) la protezione sussidiaria va riconosciuta anche a chi non sia esposto ad una persecuzione diretta, grave e personale, ma sia comunque esposto al rischio di morte o di trattamenti inumani degradanti;

b) tale rischio nel caso di specie era effettivamente sussistente e derivava dal contesto sociale del Bangladesh, caratterizzato da limitazione dei diritti civili, della libertà sessuale e della libertà di riunione di espressione; da dure condizioni carcerarie; dal dilagare della corruzione; dall’esistenza di fenomeni di tortura e sparizioni.

Il ricorrente aggiunge che le suddette condizioni emergerebbero da tre fonti: un rapporto dell’ufficio francese di protezione dei rifugiati (Office francais de protection des refugies et apatrides – OPFRA), del quale il ricorso non indica la data; un rapporto del Dipartimento di Stato statunitense (del 2015); un rapporto di Amnesty International anch’esso del 2015;

c) ergo, il Tribunale avrebbe erroneamente escluso la sussistenza dei presupposti per la concessione della protezione sussidiaria.

1.4. Il motivo è manifestamente infondato in punto di diritto, e dunque anche a prescindere da qualsiasi giudizio sui fatti posti a fondamento di esso.

Il ricorrente si duole del rigetto della sua domanda di riconoscimento della protezione sussidiaria, di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14. il D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, stabilisce che la protezione sussidiaria possa essere accordata in tre casi:

a) quando il richiedente sia esposto al rischio di condanna a morte o dell’esecuzione della pena di morte;

b) quando il richiedente sia esposto al rischio di tortura o altra forma di pena o trattamento inumano o degradante;

c) quando il richiedente sia esposto ad una minaccia grave e individuale alla vita o alla persona di un civile derivante dalla violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale. Questi rischi, per legittimare la concessione dello status di persona ammessa la protezione sussidiaria, da soli non bastano.

Essi devono infatti possedere due ulteriori requisiti:

1) devono essere “effettivi” (D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 2, comma 1, lett. (g));

2) devono essere “individuali” o almeno “individualizzati”, nel senso di cui si dirà tra breve;

3) debbono derivare dalla condotta dello Stato; oppure di partiti od organizzazioni che controllano lo Stato o una parte consistente del suo territorio; od infine di soggetti non statuali, se lo Stato o le organizzazioni internazionali presenti sul suo territorio non possano o non vogliano fornire protezione.

1.5. Da questo chiaro dettato normative discende in primo luogo l’erroneità delle allegazioni del ricorrente, nella parte in cui sostiene che la protezione sussidiaria per le ipotesi di cui alle lettere (a) (condanna a morte) e (b) (tortura o trattamenti degradanti) del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, “non richiede la prova di essere esposto ad una persecuzione diretta grave e personale”.

E’ vero, invece, l’esatto contrario.

Il D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 2, comma 1, lett. (g), richiede che i suddetti rischi siano “effettivi”, e dunque che il richiedente asilo, in caso di rientro in patria, possa essere concretamente condannato a morte e torturato, e non già in via meramente ipotetica o di supposizione.

Questa interpretazione del combinato disposto del D.Lgs. n. 251 del 2007, artt. 2 e 14, non solo è l’unica consentita dalla lettera della legge, ma è altresì suffragata dal diritto comunitario (di cui quello nazionale è, in subiecta materia, diretta derivazione) e della giurisprudenza della Corte di giustizia dell’Unione Europea.

1.5.1. Sotto il primo profilo, basterà ricordare che il Considerando n. XXXV della Direttiva 2011/95/UE del Parlamento Europeo e del Consiglio, del 13 dicembre 2011 (recante “Norme sull’attribuzione, a cittadini di paesi terzi o apolidi, della qualifica di beneficiario di protezione internazionale, su uno status uniforme per i rifugiati o per le persone aventi titolo a beneficiare della protezione sussidiaria, nonchè sul contenuto della protezione riconosciuta”), espressamente stabilisce che “i rischi a cui è esposta in generale la popolazione o una parte della popolazione di un paese di norma non costituiscono di per sè una minaccia individuale da definirsi come danno grave”.

Identica previsione era contenuta nel XXVI Considerando della previgente Direttiva 2004/83/CE del Consiglio, del 29 aprile 2004 (recante “Norme minime sull’attribuzione, a cittadini di paesi terzi o apolidi, della qualifica di rifugiato o di persona altrimenti bisognosa di protezione internazionale, nonchè norme minime sul contenuto della protezione riconosciuta”).

1.5.2. Sotto il secondo profilo, la tesi propugnata dal ricorrente è stata smentita dalla sentenza della Corte di giustizia UE 17.2.2009, in causa C-465/07, Elgafaji, la quale ha per l’appunto affermato principi non solo ben diversi da quelli prospettati dal ricorrente, ma anzi totalmente ostativi alla sua pretesa.

La suddetta sentenza ha infatti affermato:

a) che la situazione di violenza generalizzata esistente in una determinata area geografica non è sufficiente a giustificare la concessione della protezione sussidiaria, se il richiedente non dia prova di essere personalmente ed individualmente esposto ad un rischio grave in conseguenza di quella situazione (p. 37: “la sola dichiarazione oggettiva di un rischio legato alla situazione generale di un paese non è sufficiente, in linea di principio, a provare che le condizioni (per la protezione sussidiaria) sono soddisfatte in capo ad una determinata persona”);

b) che a tale principio può derogarsi solo “in via eccezionale”, e solo nel caso in cui la violenza scoppiata nel paese del richiedente asilo sia così vasta e feroce, da lasciar presumere che il rientro in patria esporrebbe il richiedente asilo al rischio di danno grave alla persona “per il fatto della sola presenza” nel suo paese (p. 43 della motivazione);

c) che, in ogni caso, spetta al giudice nazionale valutare se, quale e quanta sia l’intensità della violenza indiscriminata esistente nel paese di provenienza del richiedente (p. 43 della motivazione, secondo alinea).

Non è dunque esatto in punto di diritto quanto dedotto dal ricorrente a p. 8 del ricorso, e cioè che egli avrebbe diritto alla protezione sussidiaria “senza necessità di fornire la prova di essere esposto ad una persecuzione diretta, grave e personale”.

Il principio giuridico stabilito dall’art. 15 della Direttiva 2011/95/UE (e dal D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, che le ha dato attuazione) è invece ben diverso, cioè il seguente: se è vero che spetta al giudice nazionale accertare anche d’ufficio l’effettiva situazione del paese di origine del richiedente asilo, è altresì vero che spetta a quest’ultimo allegare e dedurre di essere esposto ad un rischio individualizzato; che da tale prova il richiedente può essere sollevato “in via eccezionale” in un caso soltanto, e cioè quando provenga da aree in cui esistano conflitti di straordinaria intensità; che in ogni caso lo stabilire quale sia il livello di violenza esistente nel paese di provenienza del richiedente (se basso, alto o “eccezionale”) è questione di fatto che deve essere “valutata dalle autorità nazionali competenti cui sia stata presentata una domanda di protezione sussidiaria o dai giudici di uno Stato membro ai quali venga deferita una decisione di rigetto di una tale domanda” (p. 43 della motivazione).

1.5.3. Resta solo da aggiungere come i precedenti di questa Corte invocati dal ricorrente a sostegno della propria tesi (Cass. 16275/18 e Cass. 12178/19) non hanno affatto stabilito il principio invocato dal ricorrente.

In particolare, Sez. 6-1, Ordinanza n. 16275 del 20/06/2018, si è limitata a rigettare il ricorso dell’amministrazione avverso un provvedimento concessivo della protezione sussidiaria, sul presupposto che l’amministrazione ricorrente aveva inteso censurare inammissibilmente la ricostruzione dei fatti compiuta dal giudice di merito.

Tale decisione solo incidenter tantum affronta il problema del livello di “individualizzazione” del rischio cui il richiedente asilo dichiara di essere esposto, rinviando alla precedente decisione pronunciata da Sez. 6-1, Sentenza n. 6503 del 20/03/2014, Rv. 630179-01.

Ed in quest’ultima decisione questa Corte, affrontando per l’appunto il problema della “individualizzazione” del rischio, ha stabilito che:

-) la persecuzione che legittima la concessione dello status di rifugiato è una persecuzione individuale, cioè rivolta singolarmente e dichiaratamente contro quella determinata persona;

-) la persecuzione che legittima la concessione della protezione sussidiaria è una persecuzione individualizzata, cioè rivolta non contro quella persona determinata, ma contro tutte le persone indirettamente determinabili mercè l’appartenenza ad una ben precisa categoria di persone: ad esempio ad un determinato partito politico, ad un determinato credo religioso, ad una determinata etnia. Del pari non pertinente rispetto al caso oggi in esame è l’altro precedente invocato dal ricorrente, e cioè Sez. 1, Sentenza n. 12178 dell’8.5.2019 (non massimata).

Tale decisione aveva ad oggetto un caso in cui il ricorrente, essendo stato detenuto nel proprio paese di provenienza, si doleva del rigetto della sua domanda di protezione sussidiaria, nonostante in quel paese i detenuti fossero sottoposti a trattamenti disumani e degradanti.

In quel caso questa Corte cassò la decisione di merito che aveva negato la protezione sussidiaria, ma non già perchè – come pretenderebbe l’odierno ricorrente – la protezione sussidiaria D.Lgs. n. 251 del 2007, ex art. 14, vada accordata “senza prove della persecuzione”; bensì sul diverso rilievo che in quel caso esisteva un rischio “individuale”, giacchè quel ricorrente, e non altri, in caso di rientro in patria sarebbe stato esposto al rischio di detenzione in condizioni degradanti.

1.6. Infine, la censura qui in esame trascura di considerare che la “persecuzione” allegata dal ricorrente a fondamento della propria pretesa non proveniva nè dallo Stato, nè da partiti od organizzazioni in grado di controllare il territorio: mancava dunque nel caso di specie il secondo presupposto legale per il riconoscimento della protezione sussidiaria, ovvero quello concernente la natura del soggetto da cui proviene la persecuzione, stabilito dal D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 5.

1.7. Resta da prendere in esame l’ipotesi in cui, con la censura sviluppata alle pagine 6-9 del proprio ricorso, il ricorrente avesse inteso dolersi della sentenza impugnata nella parte in cui ha escluso che ricorressero, nel caso di specie, i presupposti per il riconoscimento della protezione sussidiaria prevista dal D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c), (e cioè l’esistenza, nel paese di provenienza, di un conflitto armato generalizzato).

Anche sotto tale profilo il motivo è manifestamente infondato.

Il tribunale, infatti, non solo ha escluso tale eventualità richiamando a fondamento della propria decisione un gran numero di fonti internazionali autorevoli ed attendibili, quali il sito Web dell’Agenzia statunitense C.I.A.; il sito Web di due note associazioni statunitensi di protezione dei diritti umani (Freedom House e Human Rights Watch), ma soprattutto ha citato fonti del 2017, laddove quelle invocate dal ricorrente sono di due anni più datate.

In ogni caso, lo stabilire in punto di fatto se in un determinato paese esista o non esista una condizione di violenza indiscriminata derivante da conflitto armato è un accertamento di fatto, non sindacabile in sede di legittimità, se non sotto il profilo dell’omesso esame di fatti, profilo nel caso di specie non prospettato.

2. Col secondo motivo il ricorrente lamenta, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, la violazione del D.Lgs. n. 286 del 1998, artt. 5 e 19.

Deduce che erroneamente il Tribunale ha rigettato la sua domanda di protezione umanitaria, in quanto avrebbe dovuto tenere conto che l’odierno ricorrente “lavora in Italia con regolare contratto a carattere subordinato la cui apposizione del termine (sic) è dovuta esclusivamente alla durata del titolo di soggiorno”.

Sostiene che il Tribunale, non valutando tale circostanza, avrebbe per ciò solo violato l’art. 5 del testo unico sull’immigrazione (D.Lgs. n. 286 del 1998).

2.1. Il motivo è infondato perchè il ricorrente invoca, a fondamento di esso, una regula iuris inesistente.

Il ricorrente, infatti, in sostanza deduce che deve ritenersi “vulnerabile”, per i fini di cui al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5 e avrebbe per ciò solo diritto al rilascio del permesso di soggiorno per motivi umanitari, colui il quale dimostri di svolgere attività lavorativa in Italia.

Ma un principio di diritto siffatto non esiste nella legge scritta, nè è stato mai da questa Corte ricavato in via interpretativa.

Questa Corte ha, al contrario, già più volte affermato che lo svolgimento di attività lavorativa nel nostro Paese, da solo, non costituisce una ragione sufficiente per il rilascio del permesso di soggiorno per motivi umanitari, per più ragioni:

-) perchè la legge non stabilisce alcun automatismo tra lo svolgimento in Italia di attività lavorativa e la sussistenza di una condizione di “vulnerabilità”;

-) perchè il permesso di soggiorno per motivi umanitari è una misura temporanea, mentre lo svolgimento di attività lavorativa, in particolare a tempo indeterminato, legittimerebbe un permesso di soggiorno sine die;

-) perchè la “vulnerabilità” richiesta ai fini del rilascio del permesso di soggiorno per motivi umanitari dal D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, non può ravvisarsi nel mero rischio di regressione a condizioni economiche meno favorevoli (ex multis, Sez. 1, Ordinanza n. 17832 del 3.7.2019; Sez. 1, Ordinanza n. 17287 del 27.6.2019).

Lo svolgimento di attività lavorativa in Italia, per contro, può essere solo uno dei fattori indizianti che, valutati unitamente a tutte le altre circostanze del caso concreto, può dimostrare la sussistenza di una condizione di vulnerabilità del richiedente asilo.

3. Non è luogo a provvedere sulle spese, poichè la parte intimata non ha svolto attività difensiva.

5.1. La circostanza che il ricorrente sia stato ammesso al patrocinio a spese dello Stato esclude l’obbligo del pagamento, da parte sua, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per l’impugnazione, ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater (nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, L. 24 dicembre 2012, n. 228): infatti, ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2012, n. 115, art. 11, il contributo unificato è prenotato a debito nei confronti della parte ammessa al patrocinio a spese dello Stato, sempre che tale ammissione non sia stata revocata dal giudice competente.

PQM

la Corte di Cassazione:

(-) rigetta il ricorso;

(-) dà atto che non sussistono allo stato i presupposti previsti dal D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, per il versamento da parte del ricorrente di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per l’impugnazione.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Terza Civile della Corte di Cassazione, il 28 febbraio 2020.

Depositato in Cancelleria il 19 giugno 2020

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