Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 11936 del 06/05/2021

Cassazione civile sez. trib., 06/05/2021, (ud. 16/12/2020, dep. 06/05/2021), n.11936

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PERRINO Angelina M – Presidente –

Dott. TRISCARI Giancarlo – Consigliere –

Dott. SUCCIO Roberto – Consigliere –

Dott. PUTATURO DONATI VISCIDO DI NOCERA M.G. – Consigliere –

Dott. FANTICINI G. – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 11583-2013 proposto da:

C.D., elettivamente domiciliato in ROMA, P.ZA COLA DI

RIENZO 92, presso lo studio dell’avvocato ELISABETTA NARDONE,

rappresentato e difeso dall’avvocato PAOLO IZZO;

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore,

elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso

l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che la rappresenta e difende;

– controricorrente –

e contro

– intimati –

avverso la sentenza n. 553/2012 della COMM. TRIB. REG. CAMPANIA SEZ.

DIST. di SALERNO, depositata il 25/10/2012;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

16/12/2020 dal Consigliere Dott. GIOVANNI FANTICINI.

 

Fatto

RILEVATO

CHE:

C.D. impugnava l’avviso di accertamento ai fini IRPEF, IVA, IRAP (anno d’imposta 2005) emesso dall’Agenzia delle Entrate, previo contraddittorio endoprocedimentale, e fondato sullo scostamento dagli studi di settore e sul rilievo dell’antieconomicità della gestione aziendale;

la C.T.P. di Avellino accoglieva il ricorso del contribuente;

con la sentenza n. 553/4/12 del 25/10/2012, la C.T.R. Campania accoglieva l’appello dell’Agenzia delle Entrate e, in riforma della decisione di primo grado, confermava la legittimità dell’atto impositivo;

– avverso tale decisione C.D. ha proposto ricorso per cassazione fondato su sette motivi;

– l’Agenzia delle Entrate resiste con controricorso;

– il ricorrente ha depositato memoria ex art. 380-bis.1 c.p.c..

Diritto

CONSIDERATO

CHE:

1. Col primo motivo il ricorrente deduce (ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), violazione dell’art. 2909 c.c., per avere la C.T.R. omesso di rilevare il giudicato esterno, costituito da sentenza della C.T.R. Campania del 30/6/2008, col quale si era accertato che lo studio di settore individuato dall’Agenzia delle Entrate (preparazione e tintura di pellicce) non era applicabile all’attività di inchiodatura di pelli svolta dal C..

Il motivo è inammissibile.

La censura, infatti, non rispetta l’art. 366 c.p.c., (v. Cass., Sez. U, Sentenza n. 1416 del 27/01/2004, Rv. 569717-01): il ricorrente afferma che “nel giudizio sia di I che di II grado… veniva rappresentato che tra le stesse parti era già intervenuta una sentenza che, in riferimento ad un avviso di accertamento relativo ad una pregressa annualità,… ne aveva affermato la sua illegittimità in quanto riferito all’applicazione di uno studio di settore” (pag. 7); tuttavia, dall’esposizione del fatto processuale (pagg. 2-3) la questione non risulta.

2. Col secondo motivo il ricorrente deduce (ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, nella formulazione successiva alla modifica apportata dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, convertito, con modificazioni, dalla L. 7 agosto 2012, n. 134), omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, costituito dall’applicabilità dello studio di settore, per avere la C.T.R. omesso di trarre “argomenti di prova dall’esistenza del giudicato”.

La censura è inammissibile, in quanto non riconducibile all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5: la circostanza, difatti, è stata espressamente considerata dalla C.T.R. e il fatto che il giudice d’appello non abbia tratto argomenti di prova non può essere formare oggetto di ricorso per cassazione.

3. Col terzo motivo si deduce (ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), violazione del D.L. n. 331 del 1993, art. 62-sexies, della L. n. 146 del 1998, art. 10, e del D.M. 5 aprile 2006, allegato 2, per avere la C.T.R. confermato l’applicazione di uno studio di settore privo di concreto riferimento all’attività svolta dal ricorrente.

La sesta censura prospetta (ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), violazione degli artt. 2697,2727,2729 e 2054 c.c., per avere la C.T.R. posto a base della propria decisione circostanze prive dei requisiti di gravità, precisione e concordanza, dato che non sono sufficienti semplici scostamenti rispetto allo studio di settore per supportare la pretesa fiscale, la cui prova spetta all’Amministrazione.

I motivi, che possono essere trattati congiuntamente in ragione della loro incidenza su medesimi punti della sentenza impugnata, sono inammissibili.

Al di là dell’inconferente riferimento all’art. 2054 c.c., entrambe le censure muovono dal comune presupposto secondo cui la C.T.R. avrebbe confermato un avviso di accertamento basato sul mero scostamento dallo studio di settore.

Si rileva, in contrasto, che la sentenza impugnata conferma l’atto impositivo in quanto “fondato non solo dalla capacità dello studio di settore di rappresentare le situazioni di normalità economica, ma giustificato da altre anomalie… (che) evidenziano una antieconomicità di gestione”.

I motivi, perciò, non colgono la ratio decidendi della sentenza della C.T.R.

4. Col quarto motivo il ricorrente deduce (ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, nella formulazione successiva alla modifica apportata dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, convertito, con modificazioni, dalla L. 7 agosto 2012, n. 134), la manifesta illogicità della motivazione circa un punto (rectius, fatto) decisivo per il giudizio, costituito dall’applicabilità dello studio di settore, per avere la C.T.R. affermato incongruamente che l’attività di “inchiodatore di pelli” svolta dal C. fosse similare a quelle considerate nello strumento normativo, senza considerare le difformità derivanti dall’individuazione dei beni strumentali per l’inquadramento dell’attività imprenditoriale.

La censura è infondata.

Il giudice d’appello ha accertato che “lo studio di settore in questione (TD25U) è stato presentato dal contribuente e che esso si riferisce e si raccorda sia all’attività di preparazione e tintura di pellicce (codice 18301) che a quella di preparazione concia cuoio, codice 19100 – codice che, fra l’altro, risulta presente nell’anagrafe dell’azienda (circostanze non smentite dalla parte). Alla luce di quanto sopra, appare pertanto chiaro che lo studio in questione riguarda due tipologie specifiche di attività che attengono al completamento e alla finitura del lavoro conciario e che contraddittorio risulta il comportamento della parte, la quale prima ha compilato lo studio di settore TD25U con l’inserimento dei dati contabili ed extracontabili che hanno dato luogo al risultato contestato, poi ha disconosciuto il cluster di appartenenza. Ciò induce a ritenere che l’attività non si discosti da quella normalmente svolta da altre imprese con caratteristiche simili e che pertanto la affermazione della inadeguatezza dello studio a rappresentare la reale situazione della azienda (posta a base della sentenza) risulti del tutto errata ed “apodittica”; al riguardo va rimarcato che anche nella fase endoprocedimentale del contraddittorio la parte non ha fornito elementi probanti idonei ad incidere sulla valutazione di affidabilità dello studio predetto, che, come previsto, prende in considerazione la specificità territoriale (suddivisione per aree omogenee), desunta da banche dati, considerando variabili ambientali ed economiche del territorio”.

Contrariamente a quanto sostenuto dal ricorrente, il giudice d’appello non ha acriticamente applicato lo studio di settore (peraltro, esonerando l’Amministrazione dalla prova della sua riferibilità alla concreta attività), ma, al contrario, sia in base alle caratteristiche dello strumento, sia per l’indicazione nell’anagrafe aziendale, sia in forza della condotta tenuta dalla stessa parte (valutabile come argomento di prova), ha compiuto un accertamento in fatto, non sindacabile in sede di legittimità, sulla sua applicabilità, dando conto nella motivazione degli elementi sui quali ha fondato la propria decisione.

5. Col quinto motivo si deduce (ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), violazione degli artt. 2697, 2727, 2729 e 2054, (come già esposto, si tratta di richiamo normativo inconferente) c.c., per avere la C.T.R. violato il divieto di doppia presunzione.

Il motivo è inammissibile.

Oltre a mancare completamente di una chiara esposizione della censura (in particolare, con riguardo all’errore di diritto in cui sarebbe incorsa la C.T.R.), il motivo sembra censurare l’impiego di presunzioni nel ragionamento probatorio del giudicante (quando, al contrario, proprio le disposizioni citate consentono al giudice di porre a fondamento della decisione presunzioni).

Nella fattispecie, poi, il giudice d’appello ha accertato che il ricorrente svolgeva attività similare a quella di altre imprese con caratteristiche analoghe e ha perciò ritenuto di poter utilizzare le presunzioni normative connesse allo studio di settore (Cass., Sez. 5, Ordinanza n. 33340 del 17/12/2019).

6. Col settimo motivo il ricorrente censura la decisione (ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, nella formulazione successiva alla modifica apportata dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, convertito, con modificazioni, dalla L. 7 agosto 2012, n. 134), per motivazione omessa, apparente, astratta circa un punto (rectius, fatto) decisivo e controverso della decisione, costituito dalla ritenuta antieconomicità della gestione aziendale.

Anche tale motivo è inammissibile.

Infatti, il ricorrente svolge censure generiche rispetto alla motivazione (che, a suo dire, non troverebbe riscontro in elementi concreti), mentre risulta dalla lettura della sentenza che il giudice d’appello dà atto di aver rilevato gravi incongruenze non soltanto in esito al raffronto coi parametri dello studio di settore, ma anche in base ad ulteriori circostanze specifiche indicative dell’antieconomicità della gestione aziendale – e precisate nella pronuncia impugnata rispetto alle quali nessuna prova contraria ha fornito il contribuente.

7. In conclusione, il ricorso di C.D. va respinto.

Alla decisione fa seguito la sua condanna alla rifusione, in favore dell’Agenzia delle Entrate, delle spese di questo giudizio di cassazione, le quali sono liquidate nella misura indicata nel dispositivo secondo i vigenti parametri.

8. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, si dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

PQM

La Corte:

rigetta il ricorso;

condanna il ricorrente a rifondere all’Agenzia delle Entrate le spese di questo giudizio, che liquida in Euro 4.100,00 per compensi, oltre a spese prenotate a debito;

ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Quinta Sezione Civile, il 16 dicembre 2020.

Depositato in Cancelleria il 6 maggio 2021

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