Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 11931 del 19/06/2020

Cassazione civile sez. III, 19/06/2020, (ud. 28/02/2020, dep. 19/06/2020), n.11931

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SPIRITO Angelo – Presidente –

Dott. TRAVAGLINO Giacomo – Consigliere –

Dott. DI FLORIO Antonella – Consigliere –

Dott. VINCENTI Enzo – Consigliere –

Dott. ROSSETTI Marco – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso n. 27813/19 proposto da:

S.J., elettivamente domiciliato a Vinovo, Via Calvo n. 2,

presso l’avvocato Ibrahim Khalil, che lo rappresenta e difende in

virtù di procura speciale in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

Ministero dell’Interno;

– intimato –

avverso il decreto del Tribunale di Venezia 19.8.2019;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

28 febbraio 2020 dal Consigliere relatore Dott. Marco Rossetti.

Fatto

FATTI DI CAUSA

S.J., cittadino (OMISSIS), chiese alla competente commissione territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale, di cui al D.Lgs. 25 gennaio 2008, n. 25, art. 4:

(a) in via principale, il riconoscimento dello status di rifugiato politico, D.Lgs. 19 novembre 2007, n. 251, ex artt. 7 e segg.;

(b) in via subordinata, il riconoscimento della “protezione sussidiaria” di cui al D.Lgs. 19 novembre 2007, n. 251, art. 14;

(c) in via ulteriormente subordinata, la concessione del permesso di soggiorno per motivi umanitari, D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, ex art. 5, comma 6 (nel testo applicabile ratione temporis);

a fondamento dell’istanza dedusse di aver lasciato il Gambia per timore di essere ucciso dal proprio padre, il quale gli aveva rivolto una esplicita minaccia in tal senso;

la Commissione Territoriale rigettò l’istanza;

avverso tale provvedimento S.J. propose, ai sensi del D.Lgs. 28 gennaio 2008, n. 25, art. 35 bis, ricorso dinanzi alla sezione specializzata, di cui al D.L. 17 febbraio 2017, n. 13, art. 1, comma 1, del Tribunale di Venezia, che la rigettò con Decreto 19 agosto 2019;

il Tribunale ritenne:

-) che fosse “del tutto inattendibile” la descrizione delle vicende familiari del richiedente asilo e delle ragioni per le quali lasciò il proprio paese;

-) che la narrazione era “costellata da contraddizioni e fratture logiche”;

-) che il richiedente asilo aveva fornito due diverse versioni sulle ragioni per le quali aveva lasciato il Gambia, una dinanzi la commissione territoriale, l’altra dinanzi al Tribunale;

-) che la protezione sussidiaria non potesse essere concessa perchè non ricorreva alcuna delle ipotesi di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14;

-) che in ogni caso i fatti narrati dal ricorrente avevano natura strettamente privata;

-) che nella zona di provenienza del ricorrente non esisteva una situazione di violenza indiscriminata derivante da conflitto armato, desumendo tali informazioni dal rapporto EASO del dicembre 2017 e da altre fonti;

-) che il rilascio del permesso di soggiorno per motivi umanitaria non potesse essere concessa perchè l’inattendibilità della vicenda narrata dal ricorrente era di ostacolo al riconoscimento in suo favore della protezione per motivi umanitari;

-) che infatti non era stata dimostrata la sussistenza di alcuna situazione di vulnerabilità del ricorrente; che i corsi da questi frequentati in Italia, da soli, non erano sufficienti a giustificare il rilascio del permesso di soggiorno per motivi umanitari; che la mera circostanza che la qualità della vita fosse migliore in Italia che in Gambia non giustificava il rilascio del suddetto permesso di soggiorno;

tale decreto è stato impugnato per cassazione da S.J. con ricorso fondato su un motivo;

il Ministero dell’Interno non si è difeso.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. L’unico motivo del ricorso, se pur formalmente unitario, contiene in realtà plurime censure.

2. Con una prima censura (pp. 3-9) il ricorrente lamenta che erroneamente il Tribunale l’avrebbe ritenuto inattendibile.

Deduce che in realtà egli, sia dinanzi alla Commissione territoriale che dinanzi al Tribunale, aveva compiuto ogni ragionevole sforzo per circostanziare la propria domanda, fornendo una narrazione “del tutto coerente con la realtà del proprio paese di provenienza”; che non vi era stata alcuna contraddittorietà tra la versione dei fatti fornita dinanzi alla Commissione territoriale, e quella fornita dinanzi al Tribunale; che in realtà dinanzi al Tribunale egli aveva soltanto ulteriormente precisato il racconto già svolto in sede amministrativa; che il racconto da lui narrato doveva ritenersi verosimile “in considerazione del contesto sociopolitico del Gambia”; a tale allegazione il ricorrente fa seguire ampi stralci di tre articoli, tratti dal Web e di cui non è indicato l’autore, nei quali è descritta in termini estremamente negativi la situazione dei diritti umani e dell’efficienza degli apparati statali nel Gambia.

2. Il motivo è infondato.

La valutazione delle dichiarazioni del richiedente asilo in sede giurisdizionale non può ritenersi volta alla capillare e frazionata ricerca delle singole, eventuali contraddizioni, pur talvolta esistenti, insite nella narrazione della sua personale situazione, volta che il procedimento di protezione internazionale è caratterizzato, per sua natura, da una sostanziale mancanza di contraddittorio (stante la sistematica assenza dell’organo ministeriale), con conseguente impredicabilità della diversa funzione – caratteristica del processo civile ordinario – di analitico e perspicuo bilanciamento tra posizioni e tesi contrapposte inter pares.

Più che alle regole proprie del processo civile, lo sguardo dell’interprete andrebbe rivolto, mutatis mutandis, alla stessa ragion d’essere ed alla filosofia che permeano il processo penale, teso all’accertamento della verità, per quanto possibile, anche ad opera dell’organo d’accusa, in ossequio ad un elementare principio di civiltà giuridica: e tanto è a dirsi quantomeno in relazione a vicende in cui le dichiarazione della parte lesa appaiono l’unica possibile fonte di prova (si pensi ai reati di violenza sessuale, cui non appare impensabile un’equiparazione ideale della situazione del richiedente asilo, a sua volta parte lesa di violenze in vario modo inflittegli dalle sue stesse condizioni originarie di vita).

Funzione del procedimento giurisdizionale di protezione internazionale deve, infatti, ritenersi quella – del tutto autonoma rispetto alla precedente procedura amministrativa, della quale esso non costituisce in alcun modo prosecuzione impugnatoria – di accertare, secondo criteri legislativamente predeterminati, la sussistenza o meno del diritto al riconoscimento di una delle tre forme di asilo, onde il compito del giudice chiamato alla tutela di diritti fondamentali della persona appare funzionale – anche al di là ed a prescindere da quanto accaduto dinanzi alla Commissione territoriale – alla complessiva raccolta, accurata e qualitativa, delle predette informazioni, nel corso della quale dissonanze e incongruenze, di per se non decisive ai fini del giudizio finale, andranno opportunamente valutate in una dimensione di senso e di significato complessivamente inteso.

Nel peculiare settore della protezione internazionale devono, difatti, riaffermarsi, ad ancor più forte ragione, ratione materiae, i condivisibili ed illuminanti principi affermati da questo stesso giudice di legittimità nella sua più autorevole espressione (Cass. ss.uu. 10531/2013) sul tema della giustizia della decisione, sottolineandosi come la rilevabilità d’ufficio delle eccezioni in senso lato (tematica “classica” di diritto processuale) sia posta in funzione di una concezione del processo che semplicisticamente è stata definita come pubblicistica, ma che, andando a fondo, fa leva sul valore della giustizia della decisione, che deve ritenersi valore primario del processo (valore primario che, a più forte ragione, permea quei procedimenti nei quali i valori in gioco hanno riguardo alle persone, alla loro storia, ai loro diritti fondamentali, sempre e comunque garantiti dalla Carta costituzionale e dalle Convenzioni internazionali).

Quanto all’attendibilità complessiva del richiedente asilo, ove, rispetto ad alcuni dettagli, residuino all’organo giudicante dubbi in parte qua, è convincimento del collegio (diversamente da quanto opinato, non condivisibilmente, nell’ordinanza di questa Corte n. 16028 del 2019) che possa trovare legittima applicazione il principio del beneficio del dubbio.

Il D.Lgs. n. 251 del 2017, art. 3, infatti, dispone che: “Qualora taluni elementi o aspetti delle dichiarazioni del richiedente la protezione internazionale non siano suffragati da prove, essi sono considerati veritieri se l’autorità competente a decidere sulla domanda ritiene che: a) il richiedente ha compiuto ogni ragionevole sforzo per circostanziare la domanda; b) tutti gli elementi pertinenti in suo possesso sono stati prodotti ed è stata fornita una idonea motivazione dell’eventuale mancanza di altri elementi significativi; c) le dichiarazioni del richiedente sono ritenute coerenti e plausibili e non sono in contraddizione con le informazioni generali e specifiche pertinenti al suo caso, di cui si dispone; d) il richiedente ha presentato la domanda di protezione internazionale il prima possibile, a meno che egli non dimostri di aver avuto un giustificato motivo per ritardarla; e) dai riscontri effettuati il richiedente è, in generale, attendibile”.

Come ricordato nel rapporto Beyond Proof Credibility Assessment in EU Asylum Systems dell’UNHCR,”nonostante gli sforzi che il richiedente (ed eventualmente anche la stessa autorità accertante) possa fare per cercare di raccogliere le prove dei fatti affermati, può darsi che permangano tuttavia dubbi relativamente a tutte o ad alcune delle sue affermazioni”e che, talvolta, “la stessa vita o l’incolumità del richiedente potrebbero essere messe a rischio ove la protezione internazionale gli fosse ingiustamente negata”. Quest’orientamento dell’UNHCR è significativamente suffragato da quanto affermato dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo in materia di onere della prova: “stante la particolare situazione in cui si trovano i richiedenti asilo, sarà frequentemente necessario concedere loro il beneficio del dubbio quando si vada a considerare la credibilità delle loro dichiarazioni e dei documenti presentati a supporto” (CEDU, R.C. v. Svezia, 2010, paragrafo 50; CEDU, N. v. Svezia, 2010, paragrafo 53; CEDU, A.A. v. Svizzera, 2014, paragrafo 59).

Ulteriore conferma della legittimità di tale impianto teorico in tema di valutazione della credibilità del richiedente asilo emerge dal tessuto normativo del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 5, lett. e), secondo il quale, nella valutazione di credibilità, si deve verificare anche se il richiedente “è, in generale, attendibile”. Pur senza escludere, in astratto, che una specifica incongruenza relativa anche soltanto ad un profilo accessorio, come le modalità di fuga, possa, per il ruolo specifico della circostanza narrata, inficiare del tutto la valutazione di credibilità – e dunque di efficacia probatoria – la norma, ponendo come condizione che il racconto sia “in generale, attendibile” non può che esser intesa nel senso di ritenere sufficiente che il racconto sia credibile “nell’insieme” – e dunque, attribuendo alle parole il loro esatto valore semantico,”complessivamente”, “globalmente”, appunto “in generale”. Attribuire invece alla locuzione il significato opposto di “integralmente”, “totalmente”, “specificamente”, “credibile in suo ogni particolare”, significherebbe sovvertire il testo e il senso della norma.

Non appare poi senza significato, seguendo un ragionamento “a contrario, che il dato normativo di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 18, in materia di revoca della protezione, consente che essa sia disposta se “il riconoscimento dello status di protezione sussidiaria è stato determinato, in modo esclusivo, da fatti presentati in modo erroneo o dalla loro omissione, o dal ricorso ad una falsa documentazione dei medesimi fatti”. Una attenta lettura del testo conduce ad una conclusione (del tutto diversa rispetto a quella fatta propria in talune decisioni di questo giudice di legittimità: Cass. sez. VI, 19/02/2019, n. 4892) per la quale la sopravvenuta scoperta della falsità dei fatti integra i presupposti della revoca solo quando essi, “in modo esclusivo” abbiano precedentemente determinato il riconoscimento della protezione, come recita limpidamente la norma. Non, dunque, una qualsiasi falsità concernente fatti diversi da quelli su cui è fondata la protezione riconosciuta, poichè l’art. 18, non può che riguardare i presupposti di fatto accertati sulla base del falso od erroneo presupposto per cui è stata ritenuta integrata la fattispecie costitutiva del diritto riconosciuto; ma solo questi, non altri.

In definitiva, un approccio differente, rispetto ai principi suesposti, alla valutazione di credibilità rischia trasfigurarla da strumento di valutazione della prova in giudizio sulla lealtà processuale, o persino in condizione di ammissibilità o presupposto del riconoscimento del diritto, così finendo per espandere l’influenza della sua valutazione negativa ben oltre il piano della prova dei soli fatti ritenuti indimostrati per la mancanza di prova. Una interpretazione, questa, che appare priva di alcun fondamento di diritto positivo e di ordine sistematico.

2.1. Nel caso di specie, i criteri appena esposti risultano correttamente applicati dal giudice di merito, alla luce della indiscutibile accuratezza e analiticità dell’indagine svolta.

Il Tribunale infatti, ha esaminato nel suo complesso il racconto dell’odierno ricorrente; ha valutato i fatti narrati e valutato la plausibilità di essi alla stregua dei criteri in precedenza indicati: dunque non può dirsi violato, sotto tale profilo, il D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3.

2. Con una seconda censura (pagine 9-10 del ricorso) il ricorrente dichiara di voler censurare il rigetto della domanda di rilascio del permesso di soggiorno per motivi umanitari (così il ricorso, pagina 9, per ultimo capoverso).

L’illustrazione di tale censura è così strutturata:

-) dapprima sono riportate, una via l’altra, quattro massime tratte da altrettante sentenze di questa Corte, concernenti la procedura per il riconoscimento della protezione internazionale, ed in particolare il dovere del giudice di accertare anche d’ufficio la sussistenza delle situazioni legittimanti previste dal D.Lgs. n. 251 del 2007;

-) all’esito della trascrizione di tali massime il ricorrente afferma (p. 10, ultimo capoverso) essere “del tutto evidente che il Tribunale non abbia seguito le linee guida tracciate dalla S.C.”, e che se le avesse seguite, e se avesse acquisito corrette informazioni sul paese di origine del ricorrente, “il Tribunale avrebbe senz’altro riconosciuto al ricorrente la richiesta protezione internazionale”.

2.1. Il motivo è inammissibile per più ragioni.

In primo luogo, è inammissibile perchè dalla sua illustrazione non è dato comprendere se, con esso, il ricorrente abbia inteso censurare il rigetto della domanda di protezione sussidiaria; il rigetto della domanda di rilascio del permesso di soggiorno per motivi umanitari, oppure tutti e due.

Mentre, infatti, l’illustrazione del motivo esordisce lamentando il rigetto della domanda di “protezione umanitaria” (rectius, rilascio del permesso di soggiorno per motivi umanitari), l’illustrazione di esso fa riferimento alla domanda di concessione della protezione sussidiaria.

2.2. In secondo luogo il motivo è inammissibile perchè, a tutto concedere (e cioè supponendo che con esso il ricorrente abbia inteso censurare il rigetto della richiesta di protezione sussidiaria, del D.Lgs. n. 251 del 2007, ex art. 14), la reputata inattendibilità del ricorrente esonerava il Tribunale dall’adempimento del c.d. dovere di cooperazione istruttoria.

Ai richiedenti asilo ed ai richiedenti protezione sussidiaria la legge accorda infatti una speciale posizione di favore nel processo, rappresentata dall’attenuazione degli oneri assertivi e probatori. Infatti è dovere (e non facoltà) del giudice, anche dinanzi a narrazioni prive di riscontri obiettivi, attivarsi per acquisire “informazioni precise e aggiornate circa la situazione generale esistente nel Paese di origine dei richiedenti asilo e, ove occorra, dei Paesi in cui questi sono transitati” (cit. D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, comma 3), acquisendo di propria iniziativa le informazioni necessarie, e senza arrestarsi alla mera constatazione che l’istante non abbia fornito prova dei suoi assunti (ex plurimis, Sez. 6-1, Ordinanza n. 19716 del 25/07/2018, Rv. 650193-01; Sez. 6-1, Ordinanza n. 26921 del 14/11/2017, Rv. 647023-01; Sez. 6-1, Ordinanza n. 25534 del 13/12/2016, Rv. 642305-01; Sez. 6-1, Sentenza n. 16221 del 24/09/2012, Rv. 624099-01; Sez. 6-1, Ordinanza n. 16202 del 24/09/2012, Rv. 623728-01; Sez. 1, Sentenza n. 26056 del 23/12/2010, Rv. 615675-01).

Questo dovere c.d. “di cooperazione istruttoria”, tuttavia, non sorge ipso facto sol perchè il giudice di merito sia stato investito da una domanda di protezione internazionale, ma è subordinato alla circostanza che il richiedente sia stato in grado di fornire una versione dei fatti quanto meno coerente e plausibile.

Se manca questa attendibilità, non sorge quel dovere, poichè l’una è condizione dell’altro (Sez. 1, Ordinanza n. 3340 del 05/02/2019, Rv. 652549-02; Sez. 6-1, Ordinanza n. 16925 del 27/06/2018, Rv. 649697-01).

Questi principi sono già stati pacificamente affermati da questa Corte sia con riferimento all’ipotesi di richiesta di asilo, sia con riferimento all’ipotesi di richiesta di protezione sussidiaria giustificata dal rischio di morte o tortura, D.Lgs. n. 251 del 2007, ex art. 14, lett. (a) e (b), (Sez. 6-1, Ordinanza n. 16925 del 27/06/2018, Rv. 649697-01).

Nè è necessario prendere posizione, nella presente sede, circa la dibattuta questione della sussistenza del dovere di cooperazione istruttoria ufficioso anche nel caso in cui, a sostegno della domanda di protezione sussidiaria, il richiedente abbia invocato l’ipotesi di cui del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. (c) e cioè la sussistenza, nel proprio paese di origine, di una situazione di violenza indiscriminata derivante da conflitto armato che lo esponga a pericolo per la vita o la salute.

Il Tribunale, infatti, con riferimento a tale domanda il dovere di cooperazione istruttoria l’ha certamente assolto, negando che in Gambia esista una situazione di conflitto armato, ed invocando a fondamento della prova decisione due fonti: l’una del 2017 proveniente da un organismo comunitario (VEAS0); l’altra del 2018 proveniente dall’organizzazione delle Nazioni Unite per i rifugiati (UNHCR).

Il ricorrente non ha in alcun modo contrastato l’attendibilità e la pertinenza delle fonti citate dal tribunale, limitandosi a contrapporre ad esse tre contributi: due dei quali tratti dalla stampa d’opinione, ed il terzo addirittura da fonte ignota (non risultando esistente, od ancora esistente, il sito web (OMISSIS) dal quale quel contributo sarebbe stato tratto). Ancora, due dei contributi invocati dal ricorrente sono privi di data, mentre il terzo è anteriore di tre anni a quelli citati dal Tribunale.

In definitiva, il ricorrente ha inteso censurare il giudizio (di fatto) sulla insussistenza in Gambia d’una guerra, contrapponendo alle fonti citate dal Tribunale fonti meno autorevoli, meno indipendenti, meno note e meno aggiornate. Di qui l’inammissibilità della censura.

3. Non è luogo a provvedere sulle spese, poichè la parte intimata non ha svolto attività difensiva.

3.1. Il rigetto del ricorso comporta l’obbligo del pagamento, da parte sua, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per l’impugnazione, ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater (nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17).

Non rileva la circostanza che il ricorrente abbia chiesto l’ammissione al patrocinio a spese dello Stato, poichè in atti non è stata prodotta alcuna Delibera di ammissione al suddetto beneficio.

P.Q.M.

la Corte di Cassazione:

(-) dichiara inammisibile il ricorso;

(-) dà atto che sussistono, allo stato, i presupposti previsti dal D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, per il versamento da parte del ricorrente di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per l’impugnazione.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Terza Civile della Corte di Cassazione, il 28 febbraio 2020.

Depositato in Cancelleria il 19 giugno 2020

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