Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 11920 del 12/05/2017


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Cassazione civile, sez. I, 12/05/2017, (ud. 14/12/2016, dep.12/05/2017),  n. 11920

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SALVAGO Salvatore – Presidente –

Dott. CAMPANILE Pietro – Consigliere –

Dott. SAMBITO Maria Giovanna C. – Consigliere –

Dott. VALITUTTI Antonio – Consigliere –

Dott. MERCOLINO Guido – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

COMUNE DI SAN FERDINANDO DI PUGLIA, in persona del Sindaco p.t.,

elettivamente domiciliato in Roma, alla via Cicerone n. 28, presso

l’avv. PIETRO DI BENEDETTO, dal quale è rappresentato e difeso in

virtù di procura speciale a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

P.R., elettivamente domiciliato in Roma, alla via L.

Mantegazza n. 24, presso il Dott. MARCO GARDIN, unitamente all’avv.

COSTANTINO VENTURA, dal quale è rappresentato e difeso in virtù di

procura speciale a margine del controricorso;

– controricorrente e ricorrente incidentale –

avverso la sentenza della Corte di Appello di Bari n. 675/15,

pubblicata il 30 aprile 2015;

Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 14

dicembre 2016 dal Consigliere dott. Guido Mercolino;

uditi i difensori delle parti;

udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore

Generale dott. ZENO Immacolata, la quale ha concluso per

l’accoglimento del ricorso principale e del ricorso incidentale per

quanto di ragione.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

1. – P.R., già proprietario di un fondo della superficie di mq. 30.000 sito in (OMISSIS), e riportato in Catasto al foglio (OMISSIS). convenne in giudizio il Comune di San Ferdinando di Puglia, per sentirlo condannare al risarcimento dei danni cagionati dalla perdita della proprietà dell’immobile, occupato ed irreversibilmente trasformato per la realizzazione di un impianto sportivo dichiarato di pubblica utilità con atto del 6 agosto 1979, senza che fosse stato emesso il decreto di espropriazione.

Si costituì il Comune, e resistette alla domanda, assumendo che il procedimento espropriativo si era concluso con un accordo riguardante sia il trasferimento dell’immobile che la misura dell’indennità.

2. Con sentenza non definitiva del 16 ottobre 2001. il Tribunale di Foggia riconobbe efficacia traslativa all’accordo, disponendo la prosecuzione del giudizio per la determinazione del giusto prezzo o dell’indennità dovuta per il trasferimento.

2.1. L’impugnazione proposta dal P. fu accolta dalla Corte d’Appello di Bari. che con sentenza del 3 febbraio 2004 escluse l’efficacia traslativa dell’accordo intervenuto tra le parti, attribuendovi esclusivamente l’effetto di rendere legittima la detenzione del fondo dalla data di scadenza dell’occupazione d’urgenza tino a quella della trasformazione irreversibile, e ricollegando a quest’ultima l’acquisto della proprietà da parte dell’Amministrazione, con il conseguente riconoscimento in favore dell’attore del diritto al risarcimento del danno.

3. – Con sentenza definitiva del 31 marzo 2005, il Tribunale di Foggia accolse la domanda proposta dall’attore, liquidando il risarcimento in base al criterio del valore agricolo medio, e condannando il Comune al pagamento della somma di Euro 7.277.00, oltre interessi.

3.1. — L’impugnazione proposta dal P. avverso quest’ultima sentenza fu parzialmente accolta dalla Corte d’Appello di Bari, che con sentenza del 18 giugno 2007 rideterminò il risarcimento del danno in Euro 47.435,97 e l’indennità per l’occupazione legittima in Euro 11.859,00, in base al criterio di cui al D.L. 11 luglio 1992, n. 333, art. 5-bis, comma 7 – bis convertito con modificazioni dalla L. n. 8 agosto 1992, n. 359, introdotto dalla L. 23 dicembre 1996, n. 662, art. 3, comma 65, oltre interessi e rivalutazione monetaria.

4. Sul ricorso per cassazione del P., questa Corte, con sentenza del 30 gennaio 2013, n. 2195, cassò la sentenza impugnata, nella parte riguardante la liquidazione del risarcimento, dando atto dell’intervenuta dichiarazione d’illegittimità costituzionale della norma applicata, per effetto della quale il risarcimento doveva essere liquidato in misura pari al valore di mercato del fondo, e dichiarando assorbite le ulteriori questioni concernenti la determinazione di tale valore.

5. A seguito della riassunzione del giudizio, la Corte d’Appello di Bari, con sentenza del 30 aprile 2015, ha liquidato il risarcimento del danno in Euro 203.282.37, oltre rivalutazione monetaria con decorrenza dal 13 marzo 1986 ed interessi legali sulla somma annualmente rivalutata, e l’indennità per l’occupazione legittima in Euro 48.087,47, oltre interessi dalla medesima data.

Premesso che, a seguito della dichiarazione d’illegittimità costituzionale del D.L. n. 333 del 1992, art. 5 bis il risarcimento del danno per la perdita della proprietà doveva essere liquidato in misura pari al valore di mercato del bene occupato. da assumersi anche come parametro per la liquidazione dell’indennità di espropriazione per le aree edificabili, ai sensi del D.P.R. 8 giugno 2001, n. 327, art. 67 come modificato dalla L. 24 dicembre 2007, n. 244, art. 2, commi 89 e 90, la Corte ha rilevato che il c.t.u. nominato nel giudizio di rinvio aveva determinato il valore venale del fondo alla data di deposito della relazione in Euro 15.50 al mq., pari alla media tra il valore di trasformazione (Euro 16.00 al mq.) e quello medio di mercato (Euro 15,00 al mq.) accertato mediante indagini di mercato, avendo riguardo al comprensorio territoriale urbano in cui ricadeva l’area, alla destinazione urbanistica all’epoca vigente ed all’indice di fabbricabilità del comparto. Precisato che, a seguito dei rilievi formulati dall’attore, il valore del fondo era stato rideterminato in Euro 6,57 al mq. alla data dell’irreversibile trasformazione. verificatasi nel 1986, la Corte ha ritenuto condivisibili le conclusioni del c.t.u., rilevando che quest’ultimo aveva respinto le osservazioni critiche delle parti mediante il richiamo alla letteratura estimativa ed alle indagini effettuate, nonchè alle possibilità legali ed effettive di edificazione sussistenti alla data dell’apprensione del fondo, essendo emerso che a tale data era stato già apposto il vincolo preordinato all’esproprio. Ha infine escluso la risarcibilità del danno derivante dalla diminuzione di valore delle aree residue, osservando che le stesse erano ancora suscettibili di sfruttamento economico. non essendone stata compromessa la destinazione d’uso.

5. – Avverso la predetta sentenza il Comune ha proposto ricorso per cassazione, articolato in tre motivi, illustrati anche con memoria. Il P. ha resistito con controricorso. proponendo a sua volta ricorso incidentale, articolato in sei motivi, ed anch’esso illustrato con memoria.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. – Preliminarmente, va disattesa l’istanza di sospensione del giudizio avanzata dalla difesa del Comune in virtù dell’avvenuta emissione, nelle more della fissazione dell’udienza pubblica, di un decreto di acquisizione sanante del fondo occupato ai sensi del D.P.R. 8 giugno 2001, n. 327, art. 42-bis la cui impugnazione dinanzi al Giudice amministrativo risulta tuttora pendente, avendo il Comune proposto appello al Consiglio di Stato avverso la sentenza del 7 settembre 2016. con cui il Tribunale amministrativo regionale per la Puglia aveva disposto l’annullamento del predetto provvedimento.

La sospensione del processo può essere infatti disposta, ai sensi dell’art. 295 c.p.c., quando la decisione dello stesso dipenda dall’esito di un’altra causa pendente dinanzi al medesimo giudice o a un giudice diverso, nel senso che la decisione di quest’ultima sia destinata ad assumere portata vincolante, con efficacia di giudicato. nell’ambito della causa pregiudicata; a tal fine, non è peraltro sufficiente un nesso di mera consequenzialità logica tra le decisioni, ma è necessario un rapporto di pregiudizialità in senso logico-giuridico, che ricorre allorquando una situazione sostanziale rappresenti il fatto costitutivo o comunque un elemento fondante di un’altra situazione sostanziale, sicchè il relativo accertamento risulti idoneo a definire, in tutto o in parte, il thema decidendum del primo giudizio (cfr. ex Cass. Sez. lav., 16 marzo 2016, n. 5229; Cass. Sez. 6, 6 novembre 2015. n. 22784; 24 settembre 2013, n. 21794).

Tale rapporto nella specie non può ritenersi sussistente, avuto riguardo all’intervenuta definizione del presente giudizio. nella parte riguardante l’acquisto a titolo originario della proprietà del fondo occupato da parte del Comune: il giudicato formatosi in ordine alla trasformazione irreversibile del suolo, non preceduta da un provvedimento ablatorio, per effetto della mancata impugnazione della sentenza emessa dalla Corte d’Appello il 3 febbraio 2004, comportando l’inefficacia del successivo decreto di acquisizione sanante (come riconosciuto dallo stesso Tar nella sentenza prodotta). consente infatti di escludere la rilevanza, ai fini della decisione, dell’esito del giudizio pendente dinanzi al Giudice amministrativo per l’annullamento di tale provvedimento. In proposito, è appena il caso di richiamare una recente pronuncia di questa Corte, con cui, nel riconoscersi che l’emanazione di un decreto di acquisizione sanante da parte della Pubblica Amministrazione determina l’improcedibilità delle domande di restituzione e risarcimento del danno proposte in relazione all’illegittima occupazione delle aree acquisite, è stata fatta espressamente salva l’ipotesi in cui, come nella specie, si sia già formato un giudicato in ordine all’illiceità del comportamento dell’Amministrazione ed al conseguente diritto del privato alla restituzione del bene e/o al risarcimento del danno: si è infatti precisato che, in quanto volto a ripristinare con effetto ex nunc la legalità amministrativa violata, tale provvedimento non costituisce un rimedio all’attività illecita dell’Amministrazione, ma una misura estrema, giustificata da attuali ed eccezionali ragioni d’interesse pubblico, e va pertanto adottato tempestivamente, venendo altrimenti meno il potere attribuito dall’art. 42-bis cit. all’Amministrazione (cfr. Cass., Sez. 1, 31 maggio 2016, n. 11258; nel medesimo senso, Cons. Stato, Sez. 4, 15 settembre 2016, n. 3878).

2. – Non merita poi accoglimento, nel suo generico riferimento all’intero ricorso principale, l’eccezione d’inammissibilità sollevata dalla difesa del P. in relazione alla mancata indicazione da parte del Comune degli atti e dei documenti sui quali si fonda l’impugnazione: l’adempimento dell’onere posto a carico del ricorrente dall’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, va infatti verificato con riguardo ad ogni singolo motivo di impugnazione, e la mancata specifica indicazione dei documenti sui quali ciascuno di essi, eventualmente, si fondi può comportarne la declaratoria di inammissibilità soltanto quando si tratti di censure rispetto alle quali uno o più specifici atti o documenti fungano da fondamento, e cioè quando. senza l’esame di quell’atto o di quel documento, risulterebbe impossibile la comprensione del motivo di doglianza e degli indispensabili presupposti fattuali sui quali esso si basa, nonchè la valutazione della sua decisività (cfr. Cass., Sez. Un., 5 luglio 2013, n. 16887). Un esame complessivo del ricorso consente d’altronde di rilevare che l’illustrazione delle censure mosse alla sentenza impugnata è preceduta da un’ampia narrativa, contenente l’esposizione dei fatti di causa, accompagnata da puntuali richiami agli atti e ai documenti sui quali si fonda l’impugnazione, e dalla trascrizione dei passi salienti.

3. Con il primo motivo d’impugnazione, il Comune denuncia la violazione e la falsa applicazione dell’art. 132 c.p.c., n. 4, in relazione all’art. 111 Cost., osservando che, ai fini della liquidazione del danno per la perdita della proprietà e dell’indennità per l’occupazione legittima, la sentenza impugnata si è limitata a richiamare le conclusioni del c.t.u., senza spiegare le ragioni del convincimento raggiunto, nonostante le critiche specificamente formulate dalle parti alla relazione di consulenza.

4. – Con il secondo motivo, l’Amministrazione deduce la violazione e la falsa applicazione del D.P.R. n. 327 del 2001, art. 37, comma 3, e art. 40 nonchè l’omesso esame di un fatto controverso e decisivo per il giudizio, censurando la sentenza impugnata nella parte in cui ha attribuito natura edificatoria al fondo occupato, sebbene, secondo le previsioni urbanistiche già in vigore alla data di emissione del decreto di occupazione, lo stesso fosse destinato a verde pubblico ed alla realizzazione d’impianti sportivi, con ridotti indice di fabbricabilità ed altezza massima degli edifici, e fosse comunque situato in un’area ai confini del territorio del Comune e non raggiunta dai servizi pubblici. Premesso che la dichiarazione d’illegittimità costituzionale del D.L. n. 333 del 1992, art. 5 bis non ha fatto venir meno la rigida dicotomia, introdotta da tale disposizione, tra aree edificabili ed aree agricole o comunque non edificabili, afferma che il riconoscimento dell’edificabilità del fondo, ai fini della liquidazione del risarcimento del danno e dell’indennità di espropriazione, dipende esclusivamente dalla classificazione urbanistica. mentre la c.d. edificabilità di fatto assume rilievo soltanto in via suppletiva, in assenza di disciplina urbanistica. Sostiene pertanto che, ai sensi del D.P.R. n. 327 del 2001, art. 42 bis l’attore aveva diritto ad un’indennità pari al 10% del valore venale del fondo, da determinarsi in Euro 2,20 al mq., in base ai prezzi correnti nel Comune per immobili aventi analoghe caratteristiche ed ubicazione. Aggiunge che la stima compiuta dal c.t.u.. oltre ad essere stata effettuata sulla base degl’indici ufficiali di variazione dei prezzi, risulta del tutto sganciata dal valore effettivo dell’area, emergente da un atto di compravendita posto in essere dallo stesso attore e dai valori medi accertati dalla Commissione provinciale espropri: il valore di trasformazione è stato calcolato sulla base di quello di un’area destinata alla costruzione di un capannone industriale, in contrasto con l’inedi-licabilità del fondo e senza tener conto delle obiezioni sollevate dalle parti.

5. – Con il primo motivo del ricorso incidentale, il P. denuncia la violazione e la falsa applicazione degli artt. 112 e 384 c.p.c., censurando la sentenza impugnata per aver omesso di esaminare i motivi d’impugnazione dichiarati assorbiti dalla sentenza di cassazione, con cui era stata lamentata la mancata valutazione delle critiche mosse alla relazione del c.t.u. nominato in appello, e per aver disposto una nuova c.t.u., senza considerare le risultanze delle altre due precedentemente espletate.

6. – Con il secondo ed il terzo motivo, il controricorrente deduce la nullità della sentenza impugnata per violazione dell’art. 132 c.p.c., n. 4, nonchè l’omesso esame di un fatto controverso e decisivo per il giudizio, osservando che, nel richiamare le conclusioni del c.t.u. nominato nel giudizio di rinvio, la sentenza impugnata non ha tenuto conto dei rilievi formulati da esso controricorrente in ordine all’operato del consulente, il quale, nel determinare il valore del fondo, e) aveva dichiarato di essersi formato il proprio convincimento attraverso colloqui informali con operatori commerciali non identificabili, h) aveva indebitamente mescolato il metodo sintetico-comparativo con quello del valore di trasformazione, calcolando la media aritmetica del relativi risultati, e) nell’applicazione del metodo sintetico, non aveva tenuto conto del valore di un fondo situato nel medesimo Comune. accertato dalla Corte d’Appello in un altro giudizio, d) aveva assunto come riferimento la data della stima, anzichè quella della perdita della proprietà, procedendo poi alla devalutazione del risultato, e) aveva escluso la diminuzione di valore dell’area residua, senza tener conto dell’interclusione e del degrado dalla stessa subiti.

7. Con il quinto motivo, il controricorrente deduce la violazione e la falsa applicazione dell’art. 111 Cost. e dall’art. 6 della Convenzione Europea per la Salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà Fondamentali, resa esecutiva con L. 4 agosto 1955, n. 848, censurando la sentenza impugnata per aver omesso di tener conto della relazione della prima c.t.u., espletata in epoca anteriore all’entrata in vigore del D.L. n. 333 del 1992, art. 5 bis e delle successive modificazioni, e quindi conforme alle norme costituzionali ed ai principi della CEDU la cui applicazione ha determinato la dichiarazione d’illegittimità costituzionale di quelle disposizioni. Premesso che l’oggetto del giudizio di rinvio era costituito dalla determinazione del valore di mercato del fondo illegittimamente acquisito dal Comune, afferma che tutte le c.t.u. espletate avevano consentito di accertarne la vocazione edificatoria, confermata sia dal piano regolatore generale approvato con Delib. 23 settembre 2002, n. 58 che aveva incluso l’area in microzona omogenea F4 con indice di fabbricabilità territoriale non superiore ad 1 mc./mq., sia dall’avvenuta realizzazione di uno stadio e dei relativi servizi.

8. Le predette censure, da esaminarsi congiuntamente, in quanto aventi ad oggetto la comune problematica relativa alla determinazione del valore di mercato del fondo illegittimamente occupato, sono parzialmente fondate.

Com’è noto, la determinazione di procedere alla rinnovazione della c.t.u., invece di avvalersi dei risultati di altre consulenze precedentemente espletate, costituisce espressione di un potere discrezionale del giudice di merito, il cui esercizio, non censurabile in sede di legittimità, non richiede una specifica motivazione, fermo restando l’obbligo del giudice di motivare adeguatamente il proprio convincimento in sede di decisione, se del caso esplicitando le ragioni della propria adesione alle conclusioni del nuovo consulente e del dissenso dall’operato di quelli precedenti (cfr. Cass., Sez. 3, 30 marzo 2010, n. 7622; 17 dicembre 2009, n. 26499; 14 novembre 2008, n. 27247; Cass., Sez. 1, 3 aprile 2007, n. 8355). Nella specie, pertanto, la determinazione assunta in proposito dal giudice di rinvio non richiedeva una previa valutazione delle consulenze precedentemente espletate, nè una pronuncia in ordine alle censure mosse dalla difesa dell’attore alla relazione del c.t.u. nominato nel giudizio d’appello. Queste ultime, in particolare, dovevano ritenersi assorbite per effetto della nomina del nuovo consulente e dell’adesione alle sue conclusioni, la quale. tuttavia, non esonerava il giudice di rinvio dal dovere di tener conto, ai fini della decisione, delle critiche sollevate al riguardo dalle parti e del diverse) avviso emergente dalle precedenti relazioni: se è vero, infatti, che l’adesione alle conclusioni del c.t.u. non richiede ordinariamente una specifica motivazione. ben potendo il relativo obbligo ritenersi assolto attraverso il richiamo alla relazione di consulenza come fonte del proprio convincimento, è anche vero, però, che tale richiamo diventa insufficiente a fronte di argomentate critiche delle parti o di una pluralità di relazioni divergenti, le quali impongono al giudice di spiegare le ragioni della preferenza accordata al parere di uno dei consulenti, fornendo risposta alle censure sollevate o giustificando il dissenso dalle altre relazioni, a meno che le stesse non abbiano già formato oggetto di esame critico da parte di quella richiamata (cfr. Cass., Sez. lav., 26 agosto 2013, n. 19572; Cass., Sez. 1, 3 marzo 2011. n. 5148; Cass., Sez. 2, 30 ottobre 2009, n. 23063).

8.1. Tale obbligo non può ritenersi sufficientemente adempiuto dalla sentenza impugnata, la cui motivazione, nonostante il richiamo della relazione depositata dal consulente nominato in sede di rinvio, risulta affetta da gravi lacune e insanabili contraddizioni, concernenti gli aspetti più significativi dell’operazione di stima del fondo occupato, e quindi tali da rendere oggettivamente incomprensibile il percorso logico-giuridico seguito per giungere alla decisione. Pur dando atto del contrasto tra le relazioni dei consulenti nominati nelle precedenti fasi del giudizio e delle censure sollevate dal P. nel precedente ricorso per cassazione, nonchè di quelle sollevate in ordine alla nuova stima, la Corte di merito ha omesso di esaminarle approfonditamente. limitandosi a riportare le conclusioni del nuovo consulente, senza peraltro dare conto di alcuni aspetti decisivi delle questioni affrontate, e dichiarando di condividere i chiarimenti forniti, tutt’altro che esaurienti rispetto alle critiche proposte.

In particolare, sebbene tra le parti fosse controversa la natura del fondo occupato, la Corte di merito si è astenuta dal prendere una precisa posizione in ordine alla vocazione edificatoria dello stesso, omettendo innanzitutto di verificare se la cassazione della precedente sentenza di appello avesse lasciato o meno impregiudicata la relativa questione, e fornendo indicazioni improprie e contraddittorie in ordine ai dati utilizzati per la stima: da un lato. infatti, essa ha richiamato un precedente della giurisprudenza di legittimità riguardante l’individuazione dei criteri di valutazione delle aree agricole a seguito della dichiarazione d’illegittimità costituzionale del D.L. n. 333 del 1992, art. 5-bis, comma 4, e della L. 22 ottobre 1971, n. 865, art. 15, comma 1 e art. 16, commi 5 e 6 (cfr. Corte cost., sent. n. 181 del 2011), peraltro non riferibili al risarcimento del danno da occupazione illegittima, ma all’indennità di espropriazione; dall’altro, si è attenuta alla stima compiuta dal c.t.u. sulla base dell’indice di fabbricabilità del comprensorio territoriale urbano in cui ricadeva il fondo occupato, accennando genericamente alla destinazione urbanistica del suolo, senza chiarire quale fosse ed in riferimento a quale epoca fosse stata individuata. La necessità di un siffatto accertamento non può ritenersi venuta meno per effetto della dichiarazione d’illegittimità costituzionale del D.L. n. 333 cit., art. 5-bis, comma 7-bis, che, in riferimento alle sole aree edificabili, estendeva alla liquidazione del danno da occupazione illegittima i criteri dettati dal comma primo della medesima disposizione per la determinazione dell’indennità di espropriazione, con esclusione della riduzione del 40% e previsione di un aumento del 10% (cfr. Corte cost., sent. n. 349 del 2007). E’ pur vero, infatti, che per effetto di tale pronuncia si è determinata una riunificazione dei criteri di liquidazione del danno da occupazione legittima, essendo tornato applicabile anche alle aree edificabili il criterio fondato sul valore di mercato del bene, mai venuto meno per quelle prive di vocazione edificatoria; peraltro, ai fini dell’applicazione di tale criterio riveste una portata decisiva l’edificabilità del fondo, quale caratteristica che nell’ambito di un comune contratto di compravendita giustifica normalmente il riconoscimento di un prezzo più elevato, e la cui rilevanza è tuttora riconosciuta dal D.P.R. 8 giugno 2001, n. 327, artt. 32 e 37 ai fini della determinazione dell’indennità di espropriazione, anch’essa ormai fondata sul valore di mercato del bene, a seguito delle sentenze della Corte costituzionale n. 348 del 2007 e n. 181 del 2011; inoltre, avuto riguardo alla natura cogente delle norme che disciplinano l’utilizzazione del territorio, in funzione di una razionale programmazione del suo sfruttamento, la nozione di edificabilità non può essere svincolata dalla classificazione urbanistica del fondo, non potendosi attribuire alcun rilievo a caratteristiche obiettive dell’immobile eventualmente idonee a giustificarne una destinazione incompatibile con quella prevista dagli strumenti urbanistici, e potendosi per converso valorizzare forme di sfruttamento diverse ed ulteriori rispetto a quella agricola soltanto nella misura in cui le stesse non si pongano in contrasto con la predetta destinazione (cfr. in riferimento all’indennità di espropriazione, Cass., Sez. 1, 7 ottobre 2016, nn. 20229 e 20230; 26 settembre 2016, n. 18843).

8.2. – La sentenza impugnata precisa poi che il valore del fondo occupato è stato determinato dal c.t.u. in base alla media aritmetica tra il valore medio di mercato, accertato attraverso indagini compiute presso agenzie immobiliari della zona per aree aventi caratteristiche similari a quelle del fondo occupato, ed il valore di trasformazione dell’immobile.

Il generico riferimento ai valori accertati presso soggetti non meglio identificati non può ritenersi peraltro sufficiente a giustificare il risultato cui è pervenuto il consulente. avuto riguardo alle contestazioni sollevate dalle parti in ordine alla relazione da lui depositata, riportate in parte qua nel ricorso e nel controricorso, ed alle quali egli non ha fornito risposta neppure a seguito della riconvocazione per chiarimenti. essendosi limitato a precisare di aver acquisito i dati necessari attraverso colloqui informali con operatori del settore: tale modo di procedere non è conforme alle regole proprie del metodo di stima sintetico-comparativo, il quale, risolvendosi nell’attribuire al bene da stimare il prezzo di mercato di immobili ritenuti omogenei, con riferimento non solo agli elementi materiali, quali la natura, la posizione. la consistenza morfologica e simili, e temporali, ma soprattutto alla sua classificazione urbanistica, richiede necessariamente l’indicazione degli elementi di comparazione utilizzati e la dimostrazione della loro rappresentatività in relazione alle caratteristiche degl’immobili cui si riferiscono (cfr. Cass., Sez. 1, 26 marzo 2012. n. 4783; 16 marzo 2012, n. 4210).

Quanto al metodo adottato per la stima, se è vero che l’utilizzazione del metodo sintetico-comparativo, consistente nell’individuazione del prezzo di mercato d’immobili aventi caratteristiche omogenee e situati nella medesima zona, non esclude la possibilità di un riscontro del relativo risultato mediante il confronto con quello ottenuto con il metodo analitico-ricostruttivo, fondato sul calcolo del costo di trasformazione dell’immobile, e viceversa, non potendosi stabilire tra i due criteri un rapporto di regola ad eccezione (cfr. Cass., Sez. 6, 31 marzo 2016, n. 6243: 22 marzo 2013, n. 7288), è anche vero, però, che il superamento della differenza attraverso il mero calcolo della media aritmetica dei risultati si risolve, nella specie, in un’accentuazione dei profili di arbitrarietà della stima, già predicabili in base all’incertezza dei dati di riferimento.

In conclusione, il ragionamento svolto dalla Corte di merito a sostegno del valore attribuito al fondo occupato, ai fini tanto della liquidazione del danno da occupazione appropriativa quanto della determinazione dell’indennità di occupazione. risulta affetto da lacune argomentative e carenze logiche talmente gravi da non risolversi nella mera insufficienza della motivazione, ma da tradursi nel vizio previsto dall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 così come riformulato dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54 convertito con modificazioni dalla L. 7 agosto 2012, n. 134, configurabile non solo nell’ipotesi in cui la motivazione manchi del tutto sotto l’aspetto materiale o grafico, ma anche quando, come nella specie, essa possa considerarsi meramente apparente e comunque obiettivamente incomprensibile.

9. – Con il terzo motivo, il ricorrente lamenta la violazione e la falsa applicazione del D.P.R. n. 327 del 2001, art. 32, comma 1, rilevando che, nel richiamare le conclusioni del c.t.u., la sentenza impugnata non ha considerato che quest’ultimo aveva determinato il valore del fondo con riferimento all’epoca di svolgimento delle operazioni di consulenza, anzichè a quella del decreto di occupazione, riportandolo a quest’ultima data mediante un procedimento di devalutazione.

10. – La predetta censura va esaminata congiuntamente a quella proposta con il quarto motivo del ricorso incidentale, con cui il controricorrente denuncia la violazione dell’art. 2929 c.c. e degli artt. 324 e 384 c.p.c., sostenendo che la determinazione del valore del fondo con riferimento alla data della stima, anzichè a quella della perdita della proprietà, costituisce violazione del giudicato formatosi in ordine a quest’ultimo evento, per effetto dell’accertamento risultante dalla precedente sentenza di appello e da quella di cassazione.

11. – I motivi sono fondati.

Questa Corte ha infatti affermato ripetutamente che, ai fini della liquidazione del danno per la perdita della proprietà del fondo illegittimamente occupato per la realizzazione di un’opera pubblica, occorre far riferimento al valore dell’immobile al momento in cui il fatto illecito si è consumato (ovverosia a quello della radicale trasformazione del fondo oppure alla data di scadenza dell’occupazione legittima, se intervenuta nel corso della stessa), esprimendo poi il medesimo valore in termini monetari che tengano conto delle variazioni dei prezzi verificatesi fino alla data della decisione. La sentenza impugnata ha fatto invece riferimento ai prezzi di mercato correnti all’epoca dell’ultima c.t.u., espletata ad oltre venticinque anni di distanza dalla data della trasformazione irreversibile del fondo, ragguagliando a quest’ultima data il valore ottenuto mediante l’applicazione degl’indici ufficiali di variazione dei prezzi registrati nel periodo considerato. Tale criterio di liquidazione non può ritenersi corretto, in quanto, vertendosi in tema d’illecito istantaneo, il risarcimento deve consistere nel ristoro della perdita patrimoniale prodottasi alla data in cui si è verificato, senza che possano andare a vantaggio o a nocumento del danneggiato le vicende attraversate dal mercato immobiliare nel periodo successivo al giorno in cui egli ha perso il diritto di proprietà (cfr. Cass., Sez. 1, 18 giugno 2012, n. 9950; 22 agosto 2011, n. 17462; 11 febbraio 2008, n. 3189).

12. – E’ infine inammissibile, per sopravvenuto difetto d’interesse, il sesto motivo del ricorso incidentale, con cui il controricorrente lamenta la violazione e la falsa applicazione della L. 25 giugno 1865, n. 2359, artt. 48 e 55, della L. 22 ottobre 1971, n. 865, art. 19 e dell’art. 2043 c.c., censurando la sentenza impugnata per aver disposto il versamento presso la Cassa Depositi e Prestiti della somma liquidata a titolo di risarcimento del danno ed il pagamento diretto di quella liquidata a titolo d’indennità per l’occupazione legittima.

Come risulta dalla documentazione prodotta dal Comune ai sensi dell’art. 372 c.p.c., successivamente alla proposizione del ricorso incidentale il dispositivo della sentenza impugnata, nella parte censurata dal P., è stato infatti oggetto di correzione ai sensi dell’art. 287 c.p.c., disposta dalla Corte d’Appello con ordinanza del 23 settembre 2015, a seguito della quale deve ritenersi venuto meno l’interesse del controricorrente ad una pronuncia di questa Corte in ordine al motivo in esame.

13. La sentenza impugnata va pertanto cassata, nei limiti segnati alle censure accolte, con il conseguente rinvio della causa alla Corte d’Appello di Bari, che provvederà, in diversa composizione, anche al regolamento delle spese del giudizio di legittimità.

PQM

La Corte accoglie parzialmente il ricorso principale ed i primi cinque motivi del ricorso incidentale, dichiara inammissibile il sesto motivo del ricorso incidentale, cassa la sentenza impugnata, in relazione alle censure accolte, e rinvia alla Corte di Appello di Bari. anche per la liquidazione delle spese processuali.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Prima Civile, il 14 dicembre 2016.

Depositato in Cancelleria il 12 maggio 2017

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