Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 11911 del 19/06/2020

Cassazione civile sez. III, 19/06/2020, (ud. 28/02/2020, dep. 19/06/2020), n.11911

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SPIRITO Angelo – Presidente –

Dott. TRAVAGLINO Giacomo – rel. Consigliere –

Dott. DI FLORIO Antonella – Consigliere –

Dott. VINCENTI Enzo – Consigliere –

Dott. ROSSETTI Marco – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso n. 27565/2019 r.g. proposto da:

A.M., (cod. fisc. provv. (OMISSIS)), rappresentato e

difeso, giusta procura speciale apposta in calce al ricorso,

dall’Avvocata Lidia Bianco Speroni, presso il cui studio è

elettivamente domiciliato in Brescia, Piazza Vittoria n. 8.

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELL’INTERNO, (cod. fisc. (OMISSIS)), in persona del

Ministro pro tempore, rappresentato e difeso ope legis

dall’Avvocatura dello Stato, domiciliata in via del Portoghesi n.

12;

– controricorrente –

avverso il decreto del Tribunale di Brescia, depositato in data

19.9.2019;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

3/12/2019 dal Dott. Giacomo Travaglino.

Fatto

FATTI DI CAUSA E MOTIVI DI RICORSO

1. Il sig. A.M. ha formulato richiesta di riconoscimento della Protezione internazionale, dichiarando, in sintesi, alla competente Commissione territoriale:

– di essere nato in una villaggio del (OMISSIS), denominato (OMISSIS);

– di aver lavorato, dall’anno 2013, in un negozio gestito dal padre (dopo che quest’ultimo aveva iniziato a star male), sito nella regione di (OMISSIS), nei pressi di (OMISSIS) (distante circa 3-4. ore dalla sua abitazione) dove aveva una camera in affitto con un altro ragazzo;

– di essere celibe e senza figli, di avere ancora la madre, tre sorelle e tre fratelli, mentre il padre era stato ucciso dai talebani nel 2013;

– di appartenere al gruppo etnico (OMISSIS) e di professare la religione musulmana (OMISSIS);

– di aver lasciato il Pakistan il primo gennaio 2014, dopo aver ricevuto una lettera redatta in lingua (OMISSIS) – che presentava alla commissione – con la quale i talebani lo minacciavano di morte, insieme alla sua famiglia, se non si fosse recato da loro;

– di aver precedentemente ricevuto, nell’agosto del 2013, un’altra missiva dei talebani, anch’essa scritta in (OMISSIS) (lingua che non conosceva, e che aveva fatto leggere ad un suo amico) dove si accusavano i (OMISSIS) di vendere filmati sexy, “così rovinando la società”;

– di aver riferito il fatto al padre, che lo aveva invitato a non preoccuparsi, avendo già ricevuto in passato una lettera simile;

– che, due mesi dopo, tornando a casa, due persone con capelli e barba lunghi e con un turbante in testa erano scese da una macchina con i vetri neri, gli avevano coperto il viso e lo avevano costretto a salire nella vettura, portandolo via per poi rinchiuderlo in una stanza;

– che, il giorno dopo, si era presentato uno dei responsabili di quelle persone che gli aveva chiesto il motivo per cui, nonostante gli avvertimenti, il negozio non fosse stato chiuso, prendendogli contemporaneamente il portafoglio, il telefono e tutto quanto aveva con se;

– che, avendo pregato i suoi rapitori di non ucciderlo, gli era stato chiesto, per restare in vita, di unirsi a loro;

– di aver risposto di non poterlo fare, e di non poter nemmeno chiudere il negozio;

– di essere rimasto prigioniero, essendogli stato concessa una settimana di tempo per pensarci;

– che la sera in cui avrebbe dovuto decidere aveva udito degli spari, ed era riuscito a scappare approfittando della confusione e della momentanea assenza della persona che lo sorvegliava;

– che, giunto nei pressi di un’abitazione, aveva bussato, chiedendo aiuto: ne era uscito un uomo armato che, determinatosi ad aiutarlo, lo aveva accompagnato alla stazione degli autobus, comprandogli il biglietto, per consentirgli di far ritorno nel Punjab;

– che, tornato a casa, aveva saputo che il padre, non avendo più avuto sue notizie, era andato a cercarlo al negozio, ma da quel giorno era scomparso; in seguito, aveva appreso che suo padre era morto.

– che, circa un mese dopo la fuga, mentre era in ospedale con sua madre, alcune persone erano andate a cercarlo presso la sua abitazione, mostrando la sua foto ai fratelli più piccoli e poi rinchiudendoli in una stanza mentre perquisivano la casa;

– che, non avendolo trovato, avevano lasciato una lettera ai suoi fratelli prima di andar via;

– che, dopo tali avvenimenti, sua madre e suo zio materno avevano gli organizzato il viaggio di espatrio, mentre la sua famiglia cambiava casa;

– che era arrivato in Libia, ripartendo poi per l’Italia – dove sarebbe approdato il 24 novembre 2016 – a causa della guerra e della mancanza di lavoro in quel Paese.

2. La Commissione territoriale ha negato il riconoscimento delle due forme di protezione cd. “maggiori” (status di rifugiato e protezione sussidiaria), senza disporre la trasmissione degli atti al questore per l’emissione di un permesso di soggiorno per motivi umanitari, ritenendo la narrazione dei fatti “non circostanziata e contraddittoria”.

3. Il Tribunale di Brescia ha rigettato il ricorso proposto dal sig. A..

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo la parte ricorrente lamenta: violazione e falsa applicazione di legge e vizio di motivazione apparente in ordine alla valutazione di non credibilità da parte del tribunale della vicenda personale, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, della Convenzione di Ginevra e del D.Lgs. n. 251 del 2007, artt. 7 e 8, in relazione al rigetto della domanda proposta in via principale relativa alla richiesta di riconoscimento dello status di rifugiato.

Con il secondo motivo si lamenta: violazione e falsa applicazione di norme di diritto e vizio di motivazione apparente ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3 e del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, per aver valutato la domanda di protezione sussidiaria in base a generiche informazioni sulla situazione interna del Pakistan, senza considerazione completa delle prove disponibili e senza corretto esercizio dei poteri officiosi.

Con il terzo motivo si censura la sentenza impugnata per violazione e falsa applicazione di norme di diritto e vizio di motivazione apparente per non avere il Tribunale di Brescia riconosciuto l’esistenza di una protezione umanitaria ai sensi del T.U. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, per la minaccia grave alla vita del cittadino straniero derivante da una situazione di violenza per motivi politici.

Possono essere esaminati congiuntamente, in parte qua, le censure aventi ad oggetto la valutazione di non credibilità del ricorrente.

Esse appaiono fondate, nei limiti di cui si dirà.

Questa Corte, con la recente ordinanza n. del 2020, ha ritenuto (con motivazione del tutto condivisa dall’odierno collegio) che possa integrare gli estremi dell’error procedendi, nella valutazione della credibilità del racconto, l’analisi dei singoli elementi della narrazione secondo un criterio puramente atomistico, caratterizzato da una (non legittima) scomposizione/dissociazione/confutazione di ciascun singolo fatto esposto rispetto al generale contesto narrativo, per pervenire poi, ipso facto, ad una valutazione di assoluta e totale non credibilità, così omettendosi la – pur necessaria, e ben diversa – disamina complessiva dell’intera vicenda riferita dal richiedente asilo, che lo ha visto, come meglio si dirà in seguito, e secondo quanto da lui dettagliatamente esposto, costretto a fuggire dal suo Paese d’origine (in termini, di recente, Cass. 7546/2020).

8.2. Va in particolare osservato come la valutazione delle dichiarazioni del richiedente asilo in sede giurisdizionale non possa ritenersi volta alla capillare e frazionata ricerca delle singole, eventuali contraddizioni, pur talvolta esistenti, insite nella narrazione della sua personale situazione, volta che il procedimento di protezione internazionale è caratterizzato, per sua natura, da una sostanziale mancanza di contraddittorio (stante la pressochè sistematica assenza dell’organo ministeriale, peraltro, nel caso di specie, costituitosi con controricorso), con conseguente impredicabilità della diversa funzione – caratteristica del processo civile ordinario – di analitico e perspicuo bilanciamento tra posizioni e tesi contrapposte intra pares. Più che alle regole proprie del processo civile, lo sguardo dell’interprete andrebbe rivolto, mutatis mutandis, alla stessa ragion d’essere ed alla filosofia che permeano il processo penale, teso all’accertamento della verità, per quanto possibile, anche ad opera dell’organo d’accusa, in ossequio ad un elementare principio di civiltà giuridica: e tanto è a dirsi quantomeno in relazione a vicende in cui le dichiarazione della parte lesa appaiono l’unica possibile fonte di prova (si pensi ai reati di violenza sessuale, cui non appare impensabile un’equiparazione ideale della situazione del richiedente asilo, a sua volta parte lesa di violenze in vario modo inflittegli dalle sue stesse condizioni originarie di vita).

8.3.Funzione del procedimento giurisdizionale di protezione internazionale deve, infatti, ritenersi quella – del tutto autonoma rispetto alla precedente procedura amministrativa, della quale esso non costituisce in alcun modo prosecuzione impugnatoria – di accertare, secondo criteri legislativamente predeterminati, la sussistenza o meno del diritto al riconoscimento di una delle tre forme di asilo, onde il compito del giudice chiamato alla tutela di diritti fondamentali della persona appare funzionale – anche al di là ed a prescindere da quanto accaduto dinanzi alla Commissione territoriale – alla complessiva raccolta, accurata e qualitativa, delle predette informazioni, nel corso della quale dissonanze e incongruenze, di per se non decisive ai fini del giudizio finale, andranno opportunamente valutate in una dimensione di senso e di significato complessivamente inteso.

8.5. Quanto all’attendibilità complessiva del richiedente asilo, ove, rispetto ad alcuni dettagli, residuino all’organo giudicante dubbi in parte qua, è convincimento del collegio (diversamente da quanto opinato, non condivisibilmente, nell’ordinanza di questa Corte n. 16028 del 2019) che possa trovare legittima applicazione il principio del beneficio del dubbio.

8.6. Il D.Lgs. n. 251 del 2017, art. 3, infatti, dispone che: “Qualora taluni elementi o aspetti delle dichiarazioni del richiedente la protezione internazionale non siano suffragati da prove, essi sono considerati veritieri se l’autorità competente a decidere sulla domanda ritiene che: a) il richiedente ha compiuto ogni ragionevole sforzo per circostanziare la domanda; b) tutti gli elementi pertinenti in suo possesso sono stati prodotti ed è stata fornita una idonea motivazione dell’eventuale mancanza di altri elementi significativi; c) le dichiarazioni del richiedente sono ritenute coerenti e plausibili e non sono in contraddizione con le informazioni generali e specifiche pertinenti al suo caso, di cui si dispone; d) il richiedente ha presentato la domanda di protezione internazionale il prima possibile, a meno che egli non dimostri di aver avuto un giustificato motivo per ritardarla; e) dai riscontri effettuati il richiedente è, in generale, attendibile”.

8.7. Come ricordato nel rapporto Beyond Proof Credibility Assessment in EU Asylum Systems dell’UNHCR,”nonostante gli sforzi che il richiedente (ed eventualmente anche la stessa autorità accertante) possa fare per cercare di raccogliere le prove dei fatti affermati, può darsi che permangano tuttavia dubbi relativamente a tutte o ad alcune delle sue affermazioni” e che, talvolta, “la stessa vita o l’incolumità del richiedente potrebbero essere messe a rischio ove la protezione internazionale gli fosse ingiustamente negata”. Quest’orientamento dell’UNHCR è significativamente suffragato da quanto affermato dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo in materia di onere della prova: “stante la particolare situazione in cui si trovano i richiedenti asilo, sarà frequentemente necessario concedere loro il beneficio del dubbio quando si vada a considerare la credibilità delle loro dichiarazioni e dei documenti presentati a supporto” (CEDU, R.C. v. Svezia, 2010, paragrafo 50; CEDU, N. v. Svezia, 2010, paragrafo 53; CEDU, A.A. v. Svizzera, 2014, paragrafo 59).

8.8. Ulteriore conferma della legittimità di tale impianto teorico in tema di valutazione della credibilità del richiedente asilo emerge dal tessuto normativo del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 5, lett. e), secondo il quale, nella valutazione di credibilità, si deve verificare anche se il richiedente “è, in generale, attendibile”. Pur senza escludere, in astratto, che una specifica incongruenza relativa anche soltanto ad un profilo accessorio, come le modalità di fuga, possa, per il ruolo specifico della circostanza narrata, inficiare del tutto la valutazione di credibilità – e dunque di efficacia probatoria – la norma, ponendo come condizione che il racconto sia “in generale, attendibile” non può che esser intesa nel senso di ritenere sufficiente che il racconto sia credibile “nell’insieme” – e dunque, attribuendo alle parole il loro esatto valore semantico,”complessivamente”, “globalmente”, appunto “in generale”. Attribuire invece alla locuzione il significato opposto di “integralmente”, “totalmente”, “specificamente”, “credibile in suo ogni particolare”, significherebbe sovvertire il testo e il senso della norma.

8.9. Non appare poi senza significato, seguendo un ragionamento “a contrario, che il dato normativo di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 18, in materia di revoca della protezione, consente che essa sia disposta se “il riconoscimento dello status di protezione sussidiaria è stato determinato, in modo esclusivo, da fatti presentati in modo erroneo o dalla loro omissione, o dal ricorso ad una falsa documentazione dei medesimi fatti”. Una attenta lettura del testo conduce ad una conclusione (del tutto diversa rispetto a quella fatta propria in talune decisioni di questo giudice di legittimità: Cass. sez. VI, 19/02/2019, n. 4892) per la quale la sopravvenuta scoperta della falsità dei fatti integra i presupposti della revoca solo quando essi, “in modo esclusivo” abbiano precedentemente determinato il riconoscimento della protezione, come recita limpidamente la norma. Non, dunque, una qualsiasi falsità concernente fatti diversi da quelli su cui è fondata la protezione riconosciuta, poichè l’art. 18, non può che riguardare i presupposti di fatto accertati sulla base del falso od erroneo presupposto per cui è stata ritenuta integrata la fattispecie costitutiva del diritto riconosciuto; ma solo questi, non altri.

8.10. In definitiva, un approccio differente, rispetto ai principi suesposti, alla valutazione di credibilità rischia trasfigurarla da strumento di valutazione della prova in giudizio sulla lealtà processuale, o persino in condizione di ammissibilità o presupposto del riconoscimento del diritto, così finendo per espandere l’influenza della sua valutazione negativa ben oltre il piano della prova dei soli fatti ritenuti indimostrati per la mancanza di prova. Una interpretazione, questa, che appare priva di alcun fondamento di diritto positivo e di ordine sistematico.

9. Nel caso di specie, i criteri dianzi esposti non risultano correttamente applicati dal giudice di merito, nonostante l’indiscutibile accuratezza e analiticità dell’indagine svolta.

9.1. Le pretese contraddizioni di cui è cenno nel provvedimento impugnato si riferiscono, difatti, a singole vicende, talvolta marginali, senza che le stesse risultino poi collocate in una più ampia e complessiva valutazione dell’intero narrato dinanzi alla Commissione territoriale – al di là di evidenti e rilevanti imprecisioni e non corrette valutazioni persino dei singoli fatti storici, quali l’assenza di notizie circa i rapimenti di uomini adulti (tale non essendo l’ A. al momento dei fatti appena diciannovenne); ovvero la circostanza dell’incendio al negozio, logicamente avvenuto dopo le minacce subite, e non ex abrupto e enza previo avviso (come invece ritenuto, in via ipotetica e alternativa, dalla Corte d’appello), senza tacere della valutazione della documentazione prodotta a supporto delle dichiarazioni rese in sede di audizione dinanzi alla Commissione territoriale, della quale si dubita in punto di autenticità (con ciò discostandosi dai principi suesposti quanto al beneficio del dubbio), per concludere poi in termini di (non motivata) “equivocità” e “non decisività”, specie con riguardo al contenuto della lettera di minaccia, scritta in lingua Pashto (la cui efficacia probatoria viene esclusa per il solo fatto che essa non risultava scritta in (OMISSIS) ovvero in (OMISSIS), senza che tale illazione sia fornita di una convincente motivazione, risultando del tutto verosimile, sul piano logico, che lo scrivente conoscesse soltanto quella lingua).

Alla necessaria rivalutazione del giudizio di credibilità del ricorrente consegue la simmetrica esigenza di una nuova valutazione dell’esistenza, o meno, dei presupposti per il riconoscimento delle due forme di protezione cd. “maggiori”.

Pienamente fondato risulta il terzo motivo di ricorso.

Il giudizio comparativo tra la attuale condizione del ricorrente nel Paese di accoglienza e la situazione, individuale ed oggettiva, in cui si troverebbe in caso di rimpatrio non risulta essere stato correttamente condotto dal Tribunale bresciana (sul punto, da ultimo, Cass. 1104/2020).

Si legge, difatti, nel corpo della motivazione dello stesso decreto oggi impugnato – all’esito della pur corretta acquisizione, da parte del tribunale, delle informazioni necessarie all’adempimento del suo indefettibile potere/dovere di cooperazione – di una situazione complessiva della regione del Punjab tale da ritenere che il contesto sociale, politico e ambientale sia idoneo a costituire un significativo vulnus agli interessi di rango primario della persona, con conseguente, oggettiva vulnerabilità della posizione del richiedente asilo (in tal senso, di recente, risultano essersi espressi la Corte di appello di Milano, il Tribunale di Venezia, quello di Salerno e quello di Ancona (provvedimenti che, pur non costituendo, ovviamente, precedenti in alcun modo vincolanti, vanno pur sempre considerati da questa Corte, chiamata ad assicurare la conforme applicazione del diritto su tutto il territorio nazionale).

Lo stesso Tribunale, infine, riconosce, nella parte finale del suo articolato provvedimento “il fattivo inserimento del ricorrente nel contesto sociale del nostro Paese – pur ritenendo (correttamente, in punto diritto) non sufficiente la sola circostanza dell’integrazione lavorativa e sociale ai fini del più complesso giudizio comparativo di cui sopra.

Il ricorso è pertanto accolto, nei limiti di cui in motivazione, con rinvio del procedimento al Tribunale di Brescia che, in altra composizione, applicherà i principi suesposti.

PQM

La Corte accoglie il ricorso, cassa il decreto impugnato e rinvia il procedimento al tribunale di Brescia che, in altra composizione, applicherà i principi di cui in motivazione.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dà atto della non sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, se dovuto, per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, il 28 febbraio 2020.

Depositato in Cancelleria il 19 giugno 2020

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