Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 11905 del 10/06/2016


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Cassazione civile sez. III, 10/06/2016, (ud. 15/02/2016, dep. 10/06/2016), n.11905

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. TRAVAGLINO Giacomo – Presidente –

Dott. BARRECA Giuseppina Luciana – Consigliere –

Dott. TATANGELO Augusto – Consigliere –

Dott. PELLECCHIA Antonella – rel. Consigliere –

Dott. DI MARZIO Fabrizio – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 28825/2013 proposto da:

O.A., (OMISSIS), domiciliato ex lege in ROMA,

presso la CANCELLERIA DELLA CORTE DI CASSAZIONE, rappresentato e

difeso dagli avvocati STEFANO TONACHELLA, SANDRO FIGLIOZZI giusta

procura speciale a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

M.F., (OMISSIS), elettivamente domiciliato in

ROMA, VIA G. ARIMONDI 5/E, presso lo studio dell’avvocato

M.F., difensore di sè medesimo;

– controricorrente –

e contro

P.L.;

– intimata –

avverso la sentenza n. 5446/2012 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 31/10/2012, R.G.N. 4138/2007;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

15/02/2016 dal Consigliere Dott. GIUSEPPINA LUCIANA BARRECA;

udito l’Avvocato STEFANO TONACHELLA;

udito l’Avvocato SANDRO FIGLIOZZI;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale DOTT.

SERVELLO Gianfranco, che ha concluso per l’inammissibilità, in

subordine rigetto.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

1.- O.A. conveniva in giudizio gli avvocati P. L. e M.F., deducendone l’inadempimento al mandato conferito loro per impugnare la sentenza del Tribunale di Roma che, decidendo in materia di divorzio tra l’attore e la moglie, lo aveva condannato a corrispondere Lire 500.000 mensili a favore di quest’ultima e Lire 1.500.000 nei confronti della figlia. L’attore esponeva che l’atto di appello era stato confezionato con la forma dell’atto di citazione invece che con ricorso e perciò la Corte d’Appello aveva dichiarato inammissibile il gravame, con condanna dell’appellante al pagamento delle spese del grado. Deducendo che i motivi di appello sarebbero stati fondati e quindi sicuramente accolti dal giudice di secondo grado, con riforma della sentenza impugnata nel senso dell’eliminazione dell’assegno in favore della moglie e della riduzione all’importo di Lire 900.000 di quello a favore della figlia, l’attore chiedeva la condanna dei convenuti, in solido, al risarcimento del danno subito per il maggior esborso sostenuto di Lire 1.100.000 mensili e per le spese del grado d’appello, liquidate in lire 2.473.704, oltre alle spese di precetto (pari a Lire 168.485).

1.1.- Si costituiva in giudizio l’avv. P.L., contestando la domanda, e, pur non negando l’errore professionale, opponeva all’attore il ritardo nel conferimento del mandato e la non riformabilità nel merito della sentenza impugnata. Spiegava domanda riconvenzionale per ottenere il pagamento della somma di Lire 18.000.000, o di altra ritenuta di giustizia, per spese legali maturate nelle varie fasi in cui aveva seguito il cliente e da questi mai onorate.

Si costituiva anche l’avv. M.F. ed, eccepito in via preliminare il proprio difetto di legittimazione passiva per essere stato soltanto domiciliatario, chiedeva comunque il rigetto della domanda.

1.2.- Il Tribunale di Roma rigettava sia la domanda principale che la riconvenzionale, compensando tra le parti le spese di lite.

2.- Avverso la sentenza proponeva appello O.A.. Gli appellati si costituivano, contestando il gravame, e l’avv. P. proponendo appello incidentale.

Con la decisione qui impugnata, pubblicata il 31 ottobre 2012, la Corte d’Appello di Roma ha rigettato sia l’appello principale che l’incidentale, compensando le spese del grado tra l’ O. e l’avv. P.; ha condannato l’appellante a rimborsare le spese del secondo grado in favore dell’avv. M..

3.- O.A. propone ricorso affidato a tre motivi.

L’avv. M.F. resiste con controricorso e memoria.

L’altra intimata non si difende.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1.- Col primo motivo di ricorso si denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 342 c.p.c., e/o nullità della sentenza per violazione dell’art. 112 c.p.c. e/o omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio “per avere la Corte d’Appello frainteso i motivi di gravame indicati a pagina 4 e a pagina 14 della citazione in appello e/o per non aver statuito al riguardo”.

La censura è riferita alla dichiarazione di inammissibilità, da parte del giudice d’appello, del primo e del secondo motivo di gravame per violazione dell’art. 342 c.p.c., in quanto le doglianze dell’appellante, secondo la Corte, non avrebbero tenuto conto delle motivazioni in base alle quali la domanda era stata rigettata in primo grado e si sarebbero limitate a riproporre in grado d’appello gli stessi argomenti già disattesi dal primo giudice.

Nel ricorso si sostiene che la Corte d’Appello avrebbe frainteso i motivi di gravame (che, sul punto, non erano due, ma uno soltanto, avendo la Corte equivocato sulle deduzioni preliminari al primo motivo). Inoltre, reputando mancante la critica all’argomentare del primo giudice, il giudice d’appello non avrebbe affatto considerato la parte del motivo col quale si censurava la sentenza di primo grado per non avere preso in esame il contenuto dell’atto di appello nel giudizio di divorzio, al fine di valutarne la possibile e/o probabile fondatezza, e si deduceva che il Tribunale aveva fondato il proprio giudizio esclusivamente sulla sentenza di primo grado (avente il n. 1274/99, resa dal Tribunale di Roma in esito al giudizio di divorzio), senza compararla appunto con i motivi di gravame.

Secondo il ricorrente si sarebbe avuta, oltre alla violazione dell’art. 342 c.p.c., anche la violazione dell’art. 112 c.p.c., con nullità della sentenza impugnata per non avere questa statuito su tutta la domanda proposta.

2.- Il motivo non merita di essere accolto.

Questa Corte, con giurisprudenza ormai consolidata, ha affermato che la responsabilità del prestatore di opera intellettuale nei confronti del proprio cliente per negligente svolgimento dell’attività professionale presuppone la prova del danno e del nesso causale tra la condotta del professionista ed il pregiudizio del cliente e, in particolare, trattandosi dell’attività dell’avvocato, l’affermazione della responsabilità per colpa professionale implica una valutazione prognostica positiva circa il probabile esito favorevole dell’azione giudiziale che avrebbe dovuto essere proposta e diligentemente seguita; tale giudizio, da compiere sulla base di una valutazione necessariamente probabilistica, è riservato al giudice di merito, con decisione non sindacabile da questa Corte se adeguatamente motivata ed immune da vizi logici (così, fra le altre, Cass. n. 10966/04, n. 6967/06, n. 9917/10, e n. 2638/13).

Il principio di diritto è stato correttamente applicato dal Tribunale quando ha rigettato la domanda dell’ O., pur riconoscendo l’errore professionale degli avvocati P. e M., perchè ha ritenuto che l’appello, da questi erroneamente proposto nell’interesse del cliente e perciò dichiarato inammissibile, non avrebbe avuto alcuna seria probabilità di accoglimento.

La Corte d’Appello – chiamata a pronunciarsi sulla valutazione probabilistica espressa, in punto di fatto, dal primo giudice – ha reputato che la relativa motivazione non fosse stata specificamente censurata ai sensi dell’art. 342 c.p.c..

Poichè la pronuncia qui impugnata investe esattamente il motivo d’appello avanzato dall’ O., non è configurabile la violazione dell’art. 112 c.p.c., sostenuta dal ricorrente, essendo evidentemente irrilevante (anche in riferimento dell’art. 360 c.p.c., n. 5, impropriamente evocato nella rubrica del ricorso) che la Corte di merito, equivocando sulle modalità espositive dell’atto di appello, abbia considerato come integrante due diverse censure quello che invece, a detta del ricorrente, costituiva un unico motivo di gravame. Ciò che conta, ai fini del rispetto dell’art. 112 c.p.c., è che il giudice d’appello di questo motivo si sia occupato e su questo abbia pronunciato, non configurandosi vizio di omessa pronuncia solo perchè il giudice abbia trascurato una o più delle argomentazioni poste dalla parte a sostegno della domanda.

Non sussiste perciò il vizio di violazione dell’art. 112 c.p.c..

2.1.- La censura di violazione dell’art. 342 c.p.c..

per un verso, inammissibile, per altro verso, a sua volta, infondata.

Quanto al primo profilo, va rilevato che la Corte d’Appello ha evidenziato come il rigetto della domanda da parte del primo giudice fosse stato basato anche sull’argomentazione per la quale le obbligazioni di natura economica a carico delle parti nella sentenza di divorzio sono sempre soggette a revisione (e perciò è stata esclusa dal Tribunale l’irreparabilità del danno). La Corte d’Appello ha ritenuto che questa fosse un’autonoma ratio decidendi idonea a passare in giudicato (interno). Questa statuizione del giudice d’appello – a sua volta, costituente autonoma ragione di inammissibilità del primo motivo – non è stata impugnata. Pertanto, ogni censura del ricorrente in merito al mancato accoglimento dello stesso motivo di appello risulta inammissibile in applicazione del principio per il quale, qualora la decisione impugnata si fondi su di una pluralità di ragioni, tra loro distinte ed autonome, ciascuna delle quali logicamente e giuridicamente sufficiente a sorreggerla, è inammissibile il ricorso che non formuli specifiche doglianze avverso una di tali rationes decidendi (cfr., tra le altre, Cass. S.U. n. 7931/13 e Cass. n. 7838/15).

2.1.1.- Peraltro il contenuto del ricorso finisce per corroborare la decisione della Corte d’Appello circa la mancanza del requisito di specificità del gravame. Invero, si desume dal tenore di questo –

come riportato in ricorso – che effettivamente nemmeno una parola è stata spesa dall’appellante sull’articolata motivazione del Tribunale (trascritta per intero alle pagine da 3 a 6 della sentenza qui impugnata) con la quale si è ripercorso l’iter logico-giuridico della prima decisione assunta in sede di divorzio e con la quale si sono confutati proprio quegli stessi argomenti acriticamente riproposti dalla difesa dell’ O. per il tramite della riproduzione dinanzi alla Corte d’Appello dell’atto di appello già dichiarato inammissibile. La sola affermazione della sua mancata considerazione da parte del Tribunale non vale certo a conferire al motivo di gravame la specificità all’evidenza mancante, in quanto la censura (del mancato esame dell’atto di appello) non è stata accompagnata dalla deduzione – sorretta da argomenti validi (e critici rispetto alla sentenza di primo grado) – che proprio per il tramite di quell’esame il Tribunale sarebbe giunto a ribaltare il giudizio di probabile rigetto dell’appello.

In conclusione, il primo motivo di ricorso va rigettato.

3.- Col secondo motivo si denuncia violazione e/o falsa applicazione degli artt. 1218, 1223 e 2697 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, e/o per omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5, “e cioè quello afferente la mancata condanna alla restituzione delle spese di lite liquidate dalla Corte di Appello con sentenza 1037/00”.

La Corte d’Appello ha respinto la corrispondente domanda, avanzata dall’ O. nei confronti degli avv.ti P. e M., quale ulteriore voce di danno risarcibile per l’inadempimento professionale, poichè “una volta esclusa una qualsiasi chance di successo dell’impugnazione, come predisposta dai due professionisti appellati, è esclusa anche la possibilità di un rimborso, sotto forma di risarcimento, di queste spese (come di tutte le conseguenze sfavorevoli della sentenza di condanna)”.

3.1.- Trattasi di decisione di rigetto corretta in diritto ed adeguatamente motivata.

Col motivo di ricorso in esame vengono sostanzialmente riproposti gli assunti del ricorrente circa la propria possibilità di successo nel giudizio di gravame avverso la sentenza di divorzio. Esclusa la fondatezza di questi assunti, e confermato come sopra l’accertamento circa l’insussistenza di chance di riforma della sentenza n. 1274/99 (conclusiva del primo grado del giudizio di divorzio), non può che seguire quanto affermato dalla Corte d’Appello.

Ed invero, il rimborso delle spese processuali di che trattasi si configura come un’autonoma conseguenza dannosa (astrattamente risarcibile ai sensi dell’art. 1223 c.c.) rispetto all’evento di danno costituito dalla perdita di chance di essere vittorioso nello stesso processo. Escluso quest’ultimo, è infondata la pretesa del ricorrente di ottenere il risarcimento dei danni consequenziali.

Infatti, nell’illecito civile contrattuale, la ricostruzione del nesso di derivazione eziologica esistente tra l’inadempimento ascritto alla controparte contrattuale e le conseguenze dannose risarcibili implica la scomposizione del giudizio causale in due autonomi e consecutivi segmenti, il primo volto ad identificare il nesso di causalità materiale che lega l’inadempimento all’evento di danno, il secondo diretto, invece, ad accertare il nesso di causalità giuridica che lega tale evento alle conseguenze dannose risarcibili ai sensi dell’art. 1223 c.c. (cfr. Cass. n. 21255/13), con il corollario che l’esito negativo del primo giudizio preclude l’accertamento delle conseguenze dannose ulteriori.

3.2.- Privo di pregio è l’argomento speso dal ricorrente secondo cui si sarebbe dovuta configurare una sorta di inversione dell’onere della prova per la quale sarebbe stato onere delle controparti dimostrare non solo che l’appello (in quel giudizio dichiarato inammissibile) sarebbe stato invece respinto, ma che lo stesso avrebbe comportato inevitabilmente una condanna dell’appellante al pagamento delle spese di lite.

All’opposto, spetta al contraente che assume di essere stato danneggiato dall’inadempimento della controparte contrattuale dimostrare i danni seguiti all’inadempimento dedotto ed accertato (come nella specie). In caso di inadempimento del mandato rilasciato all’avvocato per la difesa in giudizio civile, il fallimento della prova concernente la chance di successo in questo giudizio (nella specie, il giudizio di appello), con la previsione del suo più che probabile insuccesso (nella specie, il rigetto nel merito), determina – tenuto conto del principio della soccombenza, di cui all’art. 91 c.p.c. – la presunzione che l’appellante sarebbe stato condannato comunque al pagamento delle spese del grado. Sarebbe stato onere del danneggiato, qui ricorrente, dimostrare che, nel caso concreto, vi sarebbero stati quanto meno i presupposti per la compensazione delle spese.

Non risultando dal ricorso che nei pregressi gradi sia stata fornita prova di siffatti presupposti (nè peraltro che gli stessi siano stati allegati già dinanzi al Tribunale ed alla Corte d’Appello –

non rilevando che se ne faccia cenno nel presente ricorso), non può che concludersi nel senso del rigetto del secondo motivo di ricorso.

4.- Col terzo motivo si denuncia nullità della sentenza per violazione dell’art. 112 c.p.c. e/o per violazione e/o falsa applicazione degli artt. 1218, 1223 e 2697 c.c., dell’art. 40 codice deontologico forense in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, e/o per omesso esame circa un fatto decisivo del giudizio in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5, costituito dalla mancata condanna alla restituzione delle spese del precetto intimato”.

Il ricorrente sostiene che la Corte d’Appello non si sarebbe occupata della domanda volta ad ottenere la restituzione di tali ultime spese oppure, in alternativa, che l’avrebbe rigettata senza adeguata motivazione.

La prima censura, relativa all’asserita omessa pronuncia, infondata poichè – come rilevato dallo stesso ricorrente, sia pure in subordine – la Corte d’Appello, in effetti, ha finito per ricomprendere anche le spese di precetto in “… tutte le conseguenze sfavorevoli della sentenza conseguita all’errore professionale degli avvocati convenuti, poi appellati. Quindi, ha esaminato il corrispondente motivo di appello e l’ha rigettato, reputando tutte queste conseguenze non risarcibili, per le ragioni di cui si è detto trattando del secondo motivo di ricorso.

4.1.- Inammissibile, inoltre, è il motivo in esame per la parte in cui assume che il fatto di inadempimento che avrebbe dato causa alle spese di precetto non sarebbe quello della scelta errata della forma dell’atto di appello da parte degli avvocati, ma piuttosto quello della mancata informazione indirizzata al cliente della dichiarazione di inammissibilità del gravame e della sua condanna alle spese di lite; informazione che, a detta del ricorrente, gli avrebbe consentito di dare spontanea esecuzione a questa condanna senza dover sopportare anche le spese del precetto intimatogli dalla controparte.

L’inammissibilità consegue al fatto che non risulta che l’inadempimento dei professionisti all’obbligo di informazione sia stato mai accertato nei gradi di merito. Il ricorrente assume che si tratterebbe di fatto non contestato: di siffatta non contestazione non vi è traccia in sentenza; nè di essa è detto nel controricorso (negando il resistente la circostanza, anche con la memoria depositata ex art. 378 c.p.c.).

Pertanto, in ossequio al disposto dell’art. 366 c.p.c., n. 6, il ricorrente avrebbe dovuto dare conto in ricorso degli atti processuali delle controparti dai quali si sarebbe dovuta evincere la non contestazione. Inoltre, avrebbe dovuto censurare la sentenza d’appello per non avere la Corte territoriale affermato la responsabilità dei professionisti anche per l’inadempimento al (distinto) obbligo di informazione, traendone le debite conseguenze.

In mancanza, il motivo è, come detto, inammissibile.

In conclusione, il ricorso va rigettato.

Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo.

Avuto riguardo all’epoca di proposizione del ricorso per cassazione (posteriore al 30 gennaio 2013), la Corte dà atto dell’applicabilità del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater (nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17).

PQM

La Corte rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento, in favore del resistente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida complessivamente nell’importo di Euro 7.200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre rimborso spese generali, IVA e CPA. Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, il 15 febbraio 2016.

Depositato in Cancelleria il 10 giugno 2016

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