Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 11881 del 12/05/2017


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Cassazione civile, sez. trib., 12/05/2017, (ud. 04/04/2017, dep.12/05/2017),  n. 11881

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BRUSCHETTA Ernestino – Presidente –

Dott. CAIAZZO Luigi – Consigliere –

Dott. FUOCHI TINARELLI Giuseppe – Consigliere –

Dott. TEDESCO Giuseppe – rel. Consigliere –

Dott. LUCIOTTI Lucio – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso iscritto al n. 26910/2013 R.G. proposto da:

T.A.S. – Turistici Alberghi Siciliani S.p.A., rappresentata e difesa

dall’avv. Mario Calderara, con domicilio eletto in Roma, via

Crescenzio 9, presso lo studio del difensore;

– ricorrente –

contro

Agenzia delle Entrate, in persona del direttore pro tempore,

domiciliata in Roma, via dei Portoghesi 12, presso 12, l’Avvocatura

Generale dello Stato, che la rappresenta e difende ope legis;

– contro ricorrente –

Avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale della

Sicilia, depositata il 12 ottobre 2012;

Udita la relazione svolta nella pubblica udienza del 4 aprile 2017

dal Consigliere Giuseppe Tedesco;

uditi gli Avv. Mario Caldarera e Garofali Mario;

udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore

generale Dott. DEL CORE Sergio, che ha concluso chiedendo il rigetto

del ricorso.

Fatto

FATTI DI CAUSA

La Commissione tributaria regionale della Sicilia (Ctr) ha riformato la sentenza di quella provinciale, che aveva accolto il ricorso della società contro avviso di accertamento con il quale fu accertato maggiore imponibile per l’anno di imposta 2003, a seguito di indagini bancarie su conti e rapporti intestati alla società e ai soci, nonchè fu recuperato un costo ritenuto non deducibile.

Contro la sentenza la società ha proposto ricorso per cassazione sulla base di dieci motivi, cui l’Agenzia delle Entrate reagisce con controricorso.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Il primo motivo di ricorso deduce, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3: a) violazione della L. n. 212 del 2000, art. 7 e della L. n. 241 del 1990, art. 3, anche in combinato disposto con la L. n. 212 del 2000, art. 12, comma 7, e con la L. n. 689 del 1991, art. 18; nonchè violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 42 e D.P.R. n. 633 del 1972, art. 56; b) difetto di motivazione dell’avviso di accertamento.

Si sostiene che il requisito della motivazione degli atti impositivi, prescritto dalla L. n. 212 del 2000, art. 7 e dalle norme relative alle singole imposte, richiede una autonoma valutazione dell’Amministrazione Finanziaria, che non può esaurirsi nel recepimento acritico degli esiti del processo verbale di constatazione.

La censura è infondata. E’ stato chiarito che la motivazione degli atti di accertamento per relationem, con rinvio alle conclusioni contenute nel verbale redatto dalla Guardia di finanza, non è illegittima per mancanza di autonoma valutazione da parte dell’ufficio degli elementi acquisiti, significando semplicemente che l’ufficio stesso, condividendone le conclusioni, ha inteso realizzare una economia di scrittura. Avuto riguardo alla circostanza che si tratta di elementi già noti al contribuente, ciò non arreca alcun pregiudizio al corretto svolgimento del contraddittorio: pertanto, in caso d’impugnazione, il giudice di merito deve accertare, motivando adeguatamente sul punto, se detto verbale sia stato posto nella sfera di conoscenza del contribuente, tenendo presente che tale presupposto deve considerarsi in re ipsa quando il riferimento attiene a verbali di ispezione o verifica redatti alla presenza del contribuente, o a lui comunicati o notificati nei modi di legge” (Cass. 2462 del 2007; Cass. n. 7360 del 2011).

Ciò posto la valutazione della Ctr è immune da censure. Essa, infatti, dopo avere correttamente riconosciuto la possibilità dell’Amministrazione finanziaria di motivare l’atto impositivo per relationem in conformità ai predetti principi, ha avuto cura di precisare che la contribuente aveva avuto piena conoscenza del processo verbale a cui l’atto impositivo rinviava.

La seconda parte del motivo censura il giudizio della Ctr per non avere colto la carenza che caratterizzava la motivazione dell’atto impositivo, che non aveva tenuto conto del complesso delle osservazioni mosse dal contribuente al processo verbale di constatazione.

La censura è infondata. Si può convenire che nell’impianto delineato dal legislatore, alla facoltà concessa al contribuente di presentare memorie e osservazioni dopo il rilascio del processo verbale di constatazione, si accompagni il dovere di valutazione delle stesse da parte dell’Amministrazione, ma tale dovere non equivale alla necessità di puntuale e analitico contrasto di tutte le eccezioni del contribuente. E’ sufficiente che le osservazioni siano “valutate” e che l’Amministrazione dia conto dell’esito di tale valutazione nella motivazione dell’avviso di accertamento. Ora, nella specie, la motivazione dell’avviso di accertamento (trascritta nel motivo) è coerente con tale modo di procedere, se è vero che alcune delle osservazioni del contribuente furono recepite. Il superamento delle altre risulta dallo sviluppo complessivo del ragionamento.

2. Il secondo motivo deduce, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. e 3 n. 4, violazione dell’art. 112 c.p.c., in quanto la Ctr non aveva deciso sulla eccezione della contribuente di difetto di motivazione dell’avviso di accertamento.

Il motivo è infondato. La sentenza ha valutato l’eccezione ritenendola infondata; nè la ricorrente si può dolere, sotto il profilo in esame (l’omessa pronuncia) che la sentenza non aveva considerato analiticamente tutte le censure svolte su questo punto. Il difetto di motivazione è vizio che, qualora riscontrato, inficia, per ciò solo, l’atto impositivo, rendendo superfluo l’esame del merito. Ne consegue che, su una simile eccezione, l’omessa pronuncia non è configurabile già in via di principio qualora, come è avvenuto nel caso in esame, il giudice abbia esaminato il merito delle censure mosse dal contribuente, ritenendole infondate; e ciò in quanto la pronuncia negativa sul merito implica il rigetto di ogni possibile deduzione incompatibile con la decisione assunta, prime fra tutte le deduzioni relative a vizi formali del provvedimento idonei in astratto a travolgerne la validità, a prescindere dalla fondatezza o infondatezza nel merito della pretesa.

3. Il terzo motivo deduce, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 5, omesso e/o carente motivazione circa un fatto decisivo per il giudizio.

Il motivo è inammissibile. Nel caso di specie è applicabile, in relazione alla data di pubblicazione della sentenza, la norma del D.L. n. 83 del 2012, art. 54, comma 1, convertito in L. n. 134 del 212, che ha modificato l’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, prevedendo, quale motivo di ricorso, l'”omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione fra le parti”.

Senza che sia necessario indagare sui limiti della cognizione demandabile al giudice di legittimità in forza della nuova previsione (Cass. S.U. n. 8053/2014), è agevole rilevare che la ricorrente non deduce alcun fatto il cui esame fu omesso dalla Ctr, ma denuncia in blocco la valutazione positiva dei fatti operata dalla sentenza, pretendendone una diversa.

4. Il quarto motivo di ricorso deduce violazione e falsa applicazione della L. n. 212 del 2000, art. 12, comma 2, nonchè violazione dell’art. 12, comma 5, della medesima legge.

Le parti della sentenza investita dalla censura sono quelle nelle quali:

a) la Ctr ha rigettato l’eccezione della contribuente, che aveva lamentato di non essere stata informata all’inizio della verifica fiscale dei diritti e delle facoltà accordare al contribuente. Secondo il ricorrente, ad onta di quanto scritto nel verbale, era onere dell’Amministrazione Finanziaria provare, essendo il fatto contestato, che quanto affermato nel documento riproduceva il reale svolgimento dei fatti;

b) ha ritenuto che la verifica si era protratta oltre il dovuto, e ciò sulla base del rilievo che la norma dell’art. 12, comma 5 – secondo la quale “La permanenza degli operatori civili o militari dell’amministrazione finanziaria, dovuta a verifiche presso la sede del contribuente, non può superare i trenta giorni lavorativi, prorogabili per ulteriori trenta giorni nei casi di particolare complessità dell’indagine individuati e motivati dal dirigente dell’ufficio” – si riferisce ai giorni di effettiva permanenza presso la sede del contribuente. Diversamente, secondo la contribuente, i trenta giorni previsti dalla norma debbono considerarsi lavorativi e consecutivi, per cui essa sarebbe violata ogni qual volta la permanenza dei verificatori presso la sede dell’impresa si sia protratta oltre trenta giorni consecutivi, con esclusione dal computo dei giorni festivi.

Il motivo è, nel suo insieme, infondato. L’una e l’altra ragione indicate nella sentenza sono perfettamente in linea con la giurisprudenza di questa corte: a) In tema di accertamenti tributari, il processo verbale di constatazione, redatto dalla Guardia di finanza o dagli altri organi di controllo fiscale, è assistito da fede privilegiata ai sensi dell’art. 2700 cod. civ., quanto ai fatti in esso descritti: per contestare tali fatti è pertanto necessaria la proposizione della querela di falso (Cass. n. 15191 del 2014; Cass. n. 2949 del 2006)”, querela che nel caso di specie non è stata proposta; b) “In tema di verifiche tributarie, il quinto comma della L. 27 luglio 2000, n. 212, art. 12, nel fissare agli operatori civili o militari dell’Amministrazione finanziaria il termine di trenta giorni lavorativi (successivamente prorogabile) di permanenza presso la sede del contribuente, si riferisce ai soli giorni di effettiva attività lavorativa svolta presso tale sede, escludendo, quindi, dal computo quelli impiegati per verifiche ed attività eseguite in altri luoghi; nè, in materia, assumono alcuna rilevanza le disposizioni, peraltro di natura meramente amministrativa, assunte – come il D.M. Finanze 30 dicembre 1993 – per mere finalità di autorganizzazione e di coordinamento della capacità operativa dell’Amministrazione finanziaria da destinare all’azione accertatrice. (In applicazione del principio, la S.C. ha respinto il ricorso del contribuente che riteneva superato il termine in esame, in base al mero computo dei giorni trascorsi tra l’inizio e la fine delle attività di verifica) (Cass. n. 23595/2011).

Sempre con riferimento a questo aspetto della decisione, la ricorrente ritiene che la questione interpretativa non sarebbe rilevante, posto che la verifica si era protratta oltre i trenta giorni. Il rilievo è inammissibile, perchè l’errore, peraltro genericamente imputato alla Ctr, riguarderebbe non l’interpretazione della norma, ma la ricostruzione del fatto.

5. Il quinto motivo deduce, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 37, comma 3, artt. 32 e 39, del D.P.R. n. 633 del 1972, artt. 51 e 54.

La ricorrente su duole del fatto che la Ctr, in presenza di un accertamento fondato su dati bancari attinti da conti correnti intestati a soggetti diversi dalla società, ne aveva ritenuto illegittima l’utilizzazione, sulla base del rilievo che la contribuente non aveva provato che le operazioni rinvenute sui conti altrui non fossero ad essa riferibili. La ricorrente non nega che legittimamente l’Amministrazione possa, quando procede alla ricostruzione del reddito di un contribuente, utilizzare anche dati bancari desunti da conti e rapporti intestati a soggetti diversi; sottolinea però che tale utilizzazione implica che l’amministrazione provi che i conti e le singole operazioni siano riferibili all’imprenditore.

La ricostruzione teorica proposta dalla ricorrente è sicuramente esatta; ciò non toglie che il motivo sia ugualmente infondato. A tale problematica la motivazione dedica due affermazione fra loro coordinate. La prima è quella su cui è fondato il motivo, che realmente potrebbe dare l’impressione che la Ctr abbia imposto al contribuente l’onere di provare che i conti e i rapporti altrui non gli fossero riferibili a prescindere dalla prova della riferibilità fornita dal Fisco. Ma a tale affermazione ne segue un’altra, introdotta con le parole “in altri termini”, che chiarisce il pensiero della Ctr su questo punto: l’Ufficio è autorizzato “a procedere all’accertamento fiscale anche attraverso indagini su conti correnti bancari formalmente intestati a terzi, ma che si ha motivo di ritenere connessi e inerenti al reddito del contribuente, ipotesi questa che i verificatori hanno corroborato nei limiti di cui di seguito. Invero a fronte delle consistenti e frequenti movimentazioni rilevate, compatibili con la dinamica aziendale, non risulta fornito (…) alcun valido elemento che possa giustificare come non riconducibili alla società le operazioni a cui si effettua riferimento. L’emissione di assegni, tratti dal conto del socio e rappresentante legale della società contribuente, in favore del direttore della struttura, ovvero il pagamento di rate di mutuo registrate nella contabilità societaria, confortano la riconducibilità delle dette operazioni all’azienda”.

Insomma la Ctr ha ritenuto comprovata la riferibilità dei conti all’impresa e da ciò ne ha tratto la conseguenza, chiarendo il senso dell’affermazione precedente, che spettava al contribuente fornire la prova che quei conti non gli erano riferibili.

La affermazione è perfettamente in linea con la giurisprudenza di questa Suprema corte, nei due punti essenziali della intera ricostruzione: a) è onere dell’Amministrazione, di provare la riferibilità dei conti o delle singole operazioni, al contribuente può essere soddisfatto anche mediante presunzioni; b) una volta fornita tale prova è il contribuente a dover dimostrare l’estraneità delle operazioni all’attività economica svolta.

6. Il sesto motivo deduce violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 917 del 1986, art. 109, nonchè contemporaneamente omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio. Il punto investito dal censura è la valutazione della sentenza della ctr nella parte in cui ha negato la deduzione dei costi inerenti a una fattura, ritenendo che essa fosse da imputare a finanziamenti ottenuti dalla società.

Il motivo è inammissibile, perchè mescola mezzi di censura diversi (violazione di legge e vizio di motivazione), in termini tali da non consentire di individuare se sia stata proposta o l’una o l’altra o entrambe. Il rimprovero mosso alla Ctr è di avere deciso sulla base di un’errata causale riportata sulla fattura, disconoscendo la reale natura del costo, che andava annoverato fra quelli deducibili. In questo senso il motivo pecca anche di autosufficienza, perchè non trascrive il documento che la Ctr non avrebbe correttamente valutato.

7. Il settimo motivo deduce, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 32, comma 1. Il punto della sentenza oggetto di censura è quello in cui si tratta dell’autorizzazione all’accesso alla documentazione bancaria, e ciò sotto un duplice profilo: la contribuente non discute della esistenza e della legittimità di tale autorizzazione, ma imputa alla Ctr di averne avallato l’utilizzazione per una verifica fiscale diversa rispetto a quella per la quale fu rilasciata. Insomma, secondo la ricorrente, l’autorizzazione fu rilasciata per una verifica fiscale che non fu poi compiuta, per poi essere ripresa nel corso di una seconda verifica. La Ctr ritenne invece che l’utilizzazione avvenne nel corso dell’unico accertamento, essendo questo stato solo sospeso.

Il motivo risente dell’opzione interpretativa della L. n. 212 del 2000, art. 12, comma 5, seguita dalla contribuente. Infatti la censura mossa alla Ctr si fonda pur sempre sul presupposto che l’accertamento non potrebbe prolungarsi oltre il termine di trenta giorni lavorativi consecutivi. Quindi, posto che i dati furono acquisiti successivamente, è gioco forza, secondo la contribuente, che l’autorizzazione fu utilizzata nel corso di una seconda verifica.

Così ricostruito il senso della censura, se ne palesa la sua inammissibilità, non solo perchè la nozione di permanenza non va intesa come durata complessiva della verifica, che può subire ritardi o sospensione giustificate da varie esigenze, compre quella dell’effettuazione di accertamenti bancari, il cui compimento dipende dai tempi di risposta da parte degli istituti di credito interessati. Ma principalmente perchè gli accertamenti bancari, anche se effettuati nel corso della verifica, sono da questa indipendenti, per cui la sola valutazione da farsi dovrebbe semmai riguardare l’autorizzazione per l’esecuzione di quelle stesse indagini, ex sensi del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 51, comma 2, n. 7) e D.P.R. n. 600 del 1973, art. 32, comma 1, n. 7). A questo aspetto è dedicata la seconda censura inserita nel motivo in esame, sempre per violazione delle stessa norma indicate nella rubrica, violazione ravvisata nel non avere la Ctr tratto le debite implicazioni da fatto che l’autorizzazione fu rilasciata per l’indagine nei conti della società, mentre furono acquisiti i dati bancari riguardanti soggetti diversi. La censura è infondata, perchè postula che l’autorizzazione debba essere specifica per ogni singolo conto o rapporto di cui si chiede documentazione; al contrario l’autorizzazione è pur sempre riferita al contribuente sottoposto a verifica, che consente di acquisire i dati dei conti di terzi, fermo l’onere dell’Amministrazione finanziaria di provarne la riferibilità nei termini sopra chiariti (Cass. n. 26829/2014).

Ma di là da tali considerazioni, il motivo nel suo insieme non tiene conto che, secondo l’orientamento di questa Suprema corte, la rilevanza dell’autorizzazione in parola si esaurisce sul piano organizzativo e interno. La sua mancanza potrebbe pregiudicare la legittima utilizzazione dei dati acquisiti solo se da ciò ne sia derivato un concreto pregiudizio per il contribuente (Cass. n. 16874/2009; n. 20420/2014; n. 3628/2017).

8. L’ottavo motivo deduce, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 e n. 4, violazione dell’art. 112 c.p.c, per non avere la Ctr deciso sulla eccezione con cui la contribuente aveva dedotto l’illegittimità dell’autorizzazione all’espletamento delle indagini finanziarie.

Il motivo è infondato. Nel momento in cui la Ctr ha ritenuto utilizzabili ai fini dell’accertamento i dati bancari acquisiti, ha implicitamente rigettato ogni e qualsiasi deduzione incompatibile con quella conclusione.

9. Il nono motivo deduce, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 e n. 4, violazione dell’art. 112 c.p.c., per non avere la Ctr deciso sull’eccezione con cui fu richiesto, per l’ipotesi che fossero stati ritenuti fondati i rilievi indicati nell’avviso di accertamento, l’Amministrazione finanziaria avrebbe dovuto riconoscere una proporzionale quota dei costi inerenti ai maggiori ricavi accertati.

Il motivo è infondato. Mutatis mutandis vale quanto detto a proposito del precedente motivo. Dal riconoscimento di una percentuale di costi, ne sarebbe derivato la riduzione dell’imponibile e quindi la riduzione della pretesa impositiva, e quindi una ulteriore ragione di rigetto dell’appello dell’Ufficio, che invece su questo punto è stato accolto. Il che, appunto, porta con sè l’implicito rigetto della stessa eccezione.

10. Il decimo motivo, coordinato con il precedente, deduce, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 omesso esame di fatto decisivo, per non avere al corte chiarito le ragioni della mancato riconoscimento dei maggiori costi conseguenti all’accertamento del maggiore imponibile sulla scorta delle indagini bancarie.

Il motivo è inammissibile. Non deduce un vizio di motivazione, ma semmai una violazione di legge, che però non sussiste. Secondo la giurisprudenza di questa Suprema corte soltanto i caso di accertamento induttivo puro, D.P.R. n. 600 del 1963, ex art. 39, comma 2, il Fisco deve riconoscere una deduzione in misura percentuale forfetaria dei costi di produzione, mentre in ipotesi di accertamento analitico o analitico presuntivo (come le indagini bancarie), è il contribuente che deve dimostrare, con onere probatorio a suo carico, l’esistenza dei presupposti per la deducibilità di costi afferenti ai maggiori ricavi o compensi, senza che l’Ufficio possa o debba procedere al riconoscimento forfetario di componenti negativi (Cass. n. 25317/2014; n. 20679/2014).

PQM

La Corte rigetta il ricorso; condanna la ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 7.200,00, oltre alle spese prenotate a debito.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2000, art. 13, comma 1-quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma dell’art. 1-bis dello stesso art. 13.

Così deciso in Roma, il 4 aprile 2017.

Depositato in Cancelleria il 12 maggio 2017

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