Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 11878 del 12/05/2017


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Cassazione civile, sez. trib., 12/05/2017, (ud. 04/04/2017, dep.12/05/2017),  n. 11878

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BRUSCHETTA Ernestino Luigi – Presidente –

Dott. CAIAZZO Rosario – Consigliere –

Dott. FUOCHI TINARELLI Giuseppe – Consigliere –

Dott. TEDESCO Giuseppe – rel. Consigliere –

Dott. LUCIOTTI Lucio – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso iscritto al n. 26904/2013 R.G. proposto da:

T.A.S. – Turistici Alberghi Siciliani S.p.A., rappresentata e difesa

dall’avv. Mario Calderara, con domicilio eletto in Roma, via

Crescenzio 9, presso lo studio del difensore;

– ricorrente –

contro

Agenzia delle Entrate, in persona del direttore pro tempore,

domiciliata in Roma, via dei Portoghesi 12, presso 12, l’Avvocatura

Generale dello Stato, che la rappresenta e difende ope legis;

– controricorrente –

Avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale della,

Sicilia, depositata il 12 ottobre 2012;

Udita la relazione svolta nella pubblica udienza del 4 aprile 2017

dal Consigliere Giuseppe Tedesco;

uditi gli Avv. Mario Caldarera e Garofali Mario;

udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore

generale DEL CORE Sergio, che ha concluso chiedendo il rigetto del

ricorso.

Fatto

FATTI DI CAUSA

La Commissione tributaria regionale della Sicilia (Ctr) ha riformato la sentenza di quella provinciale, che aveva accolto il ricorso della società contro tre avvisi di accertamento con i quali, per gli anni di imposta 2002, 2003 e 2004, fu contestato l’omesso versamento di ritenute d’acconto su compensi corrisposti, avendo operato quale sostituto di imposta.

Contro la sentenza la società ha proposto ricorso per cassazione sulla base di otto motivi, cui l’Agenzia delle Entrate reagisce con controricorso.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Il primo motivo di ricorso deduce, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3: a) violazione della L. n. 212 del 2000, art. 7 e della L. n. 241 del 1990, art. 3 anche in combinato disposto con la L. n. 212 del 2000, art. 12, comma 7, e con la L. n. 689 del 1991, art. 18; nonchè violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 42 e D.P.R. n. 633 del 1972, art. 56; b) difetto di motivazione dell’avviso di accertamento.

Si sostiene che il requisito della motivazione degli atti impositivi, prescritto dalla L. n. 212 del 2000, art. 7 e dalle norme relative alle singole imposte, richiede una autonoma valutazione dell’Amministrazione Finanziaria, che non può esaurirsi nel recepimento acritico degli esiti del processo verbale di constatazione.

La censura è infondata. Costituisce fermo orientamento della Suprema corte che la motivazione degli atti di accertamento per relationem, con rinvio alle conclusioni contenute nel verbale redatto dalla Guardia di finanza, non è illegittima per mancanza di autonoma valutazione da parte dell’ufficio degli elementi acquisiti, significando semplicemente che l’ufficio stesso, condividendone le conclusioni, ha inteso realizzare una economia di scrittura, che, avuto riguardo alla circostanza che si tratta di elementi già noti al contribuente, non arreca alcun pregiudizio a corretto svolgimento del contraddittorio (Cass. n. 2728/2001; nello stesso senso Cass. n. 2462/2008; 25146/2005; 17423/2005; 10205/2003): pertanto, in caso d’impugnazione, il giudice di merito deve accertare, motivando adeguatamente sul punto, se detto verbale sia stato posto nella sfera di conoscenza del contribuente, tenendo presente che tale presupposto deve considerarsi in re ipsa quando il riferimento attiene a verbali di ispezione o verifica redatti alla presenza del contribuente, o a lui comunicati o notificati nei modi di legge” (Cass. n. 7360/2011; Cass. n. 9913/2008; Cass. 2462/2007).

Ciò posto la valutazione della Ctr è immune da censure. Essa, infatti, dopo avere correttamente riconosciuto la possibilità dell’Amministrazione finanziaria di motivare l’atto impositivo per relationem in conformità ai predetti principi, ha avuto cura di precisare che la contribuente aveva avuto piena conoscenza del processo verbale a cui l’avviso di accertamento rinviava.

La seconda parte del motivo censura il giudizio della Ctr per non avere colto la carenza che caratterizzava la motivazione dell’atto impositivo, che non aveva tenuto conto del complesso delle osservazioni mosse dal contribuente al processo verbale di constatazione.

La censura è infondata. Si può convenire che nell’impianto delineato dal legislatore, alla facoltà concessa al contribuente di presentare memorie e osservazioni dopo il rilascio del processo verbale di constatazione, si accompagni il dovere di valutazione delle stesse da parte dell’Amministrazione, ma tale dovere non equivale alla necessità di puntuale e analitico contrasto di tutte le eccezioni del contribuente. E’ sufficiente che le osservazioni siano, appunto, “valutate” e che l’Amministrazione dia conto dell’esito di tale valutazione nella motivazione dell’avviso di accertamento. Ora, nella specie, la motivazione dell’avviso di accertamento (trascritta nel motivo) è coerente con tale modo di procedere, se è vero che alcune delle osservazioni del contribuente furono persino recepite. Il superamento delle altre risulta dallo sviluppo complessivo del ragionamento.

2. Il secondo motivo deduce, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 4, violazione dell’art. 112 c.p.c, in quanto la Ctr non aveva deciso sulla eccezione della contribuente di difetto di motivazione dell’avviso di accertamento.

Il motivo è infondato. La sentenza ha valutato l’eccezione ritenendola infondata; nè la ricorrente si può dolere, sotto il profilo in esame (l’omessa pronuncia), che la sentenza non aveva considerato analiticamente tutte le censure svolte su questo punto. Il difetto di motivazione è vizio che, qualora riscontrato, inficia, per ciò solo, l’atto impositivo, rendendo superfluo l’esame del merito. Ne consegue che, su una simile eccezione, l’omessa pronuncia non è configurabile già in via di principio qualora, come è avvenuto nel caso in esame, il giudice abbia esaminato il merito delle censure mosse dal contribuente, ritenendole infondate; e ciò in quanto la pronuncia negativa sul merito implica il rigetto di ogni possibile deduzione incompatibile con la decisione assunta, prime fra tutte le deduzioni relative a vizi formali del provvedimento idonei in astratto a travolgerne la validità, a prescindere dalla fondatezza o infondatezza nel merito della pretesa.

3. Il terzo motivo deduce, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, omesso e/o carente motivazione circa un fatto decisivo per il giudizio.

Il motivo è inammissibile. Nel caso di specie è applicabile, in relazione alla data di pubblicazione della sentenza, la norma del D.L. n. 83 del 2012, art. 54, comma 1, convertito in L. n. 134 del 212, che ha modificato il n. 5 dell’art. 360 c.p.c., comma 1 prevedendo, quale motivo di ricorso per cassazione, l'”omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione fra le parti”.

Senza che sia necessario indagare sui limiti della cognizione demandabile al giudice di legittimità in forza della nuova previsione (Cass. S.U. n. 8053/2014), è agevole rilevare che la ricorrente non deduce alcun fatto il cui esame fu omesso dalla Ctr, ma denuncia in blocco la valutazione positiva dei fatti operata dalla sentenza, pretendendone una diversa.

4. Il quarto motivo di ricorso deduce violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 42, rimproverando alla Ctr di non avere accolto l’eccezione della contribuente con la quale aveva eccepito la nullità dell’avviso a causa della mancata indicazione dell’aliquota applicata.

Il motivo è infondato. E’ vero che questa Corte ha di recente ritenuto che in tema di accertamento delle imposte sui redditi, l’avviso di accertamento che non riporti l’aliquota applicata, ma solo l’indicazione delle aliquote minima e massima, viola il principio di precisione e chiarezza delle indicazioni che è alla base del precetto di cui al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 42, il quale richiede che sia evidenziata l’aliquota applicata su ciascun importo imponibile, al fine di porre il contribuente in grado di comprendere le modalità di applicazione dell’imposta e la ragione del suo debito, senza dover ricorrere all’ausilio di un esperto; con la conseguenza che l’omissione di tale indicazione determina la nullità dell’atto, ai sensi dell’art. 42 cit. comma 3 senza che sia consentita una valutazione di merito circa l’incidenza che essa abbia avuto, in concreto, sui diritti del contribuente (Cass. n. 7635/2014). Peraltro, tale indirizzo risulta affiancato da altro principio secondo il quale grava sul contribuente l’onere di dimostrare l’impossibilità o difficoltà di accertare le aliquote applicate sulla base dei dati contenuti nell’avviso (Cass. n. 17362/2009). Orbene, con riferimento al caso qui all’esame va detto che ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 23, comma 2, lett. a), la ritenuta sulla parte imponibile delle somme e dei valori di cui all’art. 51 TUIR corrisposti in ciascun periodo di paga deve essere operata mediante l’applicazione delle aliquote IRPEF, ragguagliando al periodo di paga i corrispondenti scaglioni annui di reddito. Nel caso di specie, l’Ufficio, come risulta dalla stessa sentenza impugnata, dopo avere indicato i compensi corrisposti al collaboratore nel 2002, nel 2003 e nel 2004, rispettivamente di Euro 35.146,03, Euro 37.290,44 ed Euro 9.957,44, ha contestato una omessa ritenuta alla fonte di Euro 9.418,59, Euro 10.275,00 e Euro 2.290,00.

Ha dunque agito correttamente la CTR nel considerare con accertamento di fatto insindacabile in questa sede, che l’individuazione dell’aliquota applicata, pur non specificata, era agevolmente desumibile dalla percentuale del reddito imponibile ripresa a tassazione, tenuto conto fra l’altro, come esattamente rilevato nella sentenza, che si trattava di un unico rapporto di lavoro.

5. Il quinto motivo di ricorso deduce violazione e falsa applicazione della L. n. 212 del 2000, art. 12, comma 2, nonchè violazione dell’art. 12, comma 5 medesima legge.

Le parti della sentenza investita dalla censura sono quelle nelle quali:

a) la Ctr ha rigettato l’eccezione della contribuente, che aveva lamentato di non essere stata informata all’inizio della verifica fiscale dei diritti e delle facoltà accordare al contribuente. Secondo il ricorrente, ad onta di quanto scritto nel verbale, era onere dell’Amministrazione Finanziaria provare, essendo il fatto contestato, che quanto affermato nel documento riproduceva il reale svolgimento dei fatti;

b) ha ritenuto che la verifica non si era protratta oltre il dovuto, e ciò sulla base del rilievo che la norma dell’art. 12, comma 5 – secondo la quale “La permanenza degli operatori civili o militari dell’amministrazione finanziaria, dovuta a verifiche presso la sede del contribuente, non può superare i trenta giorni lavorativi, prorogabili per ulteriori trenta giorni nei casi di particolare complessità dell’indagine individuati e motivati dal dirigente dell’ufficio” – è riferibile ai giorni di permanenza presso a sede del contribuente e non all’intero periodo intercorrente tra il momento dell’accesso e quello della conclusione del controllo. Diversamente, secondo la contribuente, i trenta giorni previsti dalla norma debbono considerarsi lavorativi e consecutivi, per cui essa sarebbe violata ogni qual volta la permanenza dei verificatori presso la sede dell’impresa si sia protratta oltre trenta giorni consecutivi, con esclusione dal computo dei giorni festivi.

Il motivo è, nel suo insieme, infondato. L’una e l’altra ragione indicate nella sentenza sono perfettamente in linea con la giurisprudenza di questa corte: a) In tema di accertamenti tributari, il processo verbale di constatazione, redatto dalla Guardia di finanza o dagli altri organi di controllo fiscale, è assistito da fede privilegiata ai sensi dell’art. 2700 c.c., quanto ai fatti in esso descritti: per contestare tali fatti è pertanto necessaria la proposizione della querela di falso (Cass. n. 15191 del 2014; Cass. n. 2949 del 2006)”, querela che nel caso di specie non è stata proposta; b) “In tema di verifiche tributarie, la L. 27 luglio 2000, n. 212, art. 12, comma 5 nel fissare agli operatori civili o militari dell’Amministrazione finanziaria il termine di trenta giorni lavorativi (successivamente prorogabile) di permanenza presso la sede del contribuente, si riferisce ai soli giorni di effettiva attività lavorativa svolta presso tale sede, escludendo, quindi, dal computo quelli impiegati per verifiche ed attività eseguite in altri luoghi; nè, in materia, assumono alcuna rilevanza le disposizioni, peraltro di natura meramente amministrativa, assunte – come il D.M. Finanze 30 dicembre 1993 – per mere finalità di autorganizzazione e di coordinamento della capacità operativa dell’Amministrazione finanziaria da destinare all’azione accertatrice”. (Cass. n. 23595/2011).

Sempre con riferimento a questo aspetto della decisione, la ricorrente ritiene che tuttavia la questione interpretativa non sarebbe rilevante, posto che la verifica si era comunque protratta oltre i trenta giorni. Il rilievo è inammissibile, perchè l’errore, peraltro genericamente imputato alla Ctr, riguarderebbe non l’interpretazione della norma, ma la ricostruzione del fatto.

6. Il sesto motivo deduce violazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, degli art. 2727 e 2730 c.c., nonchè dell’art. 2697 c.c. La ricorrente si duole perchè la Ctr aveva attribuito valore di presunzione grave, precisa e concordante alle dichiarazioni del dipendente, in assenza di elementi ulteriori in grado di confermarne la veridicità.

Il motivo è infondato. Com’è noto, nel processo tributario, le dichiarazioni rese da un terzo, acquisite dalla Guardia di finanza e trasfuse nel processo verbale di constatazione, a sua volta recepito dall’avviso di accertamento, hanno valore indiziario, concorrendo a formare il convincimento del giudice, anche se non rese in contraddittorio col contribuente (Cass. n 6946 del 2015; Cass. n. 21813/2012). Tuttavia, nella motivazione della sentenza, non si legge alcuna affermazione in contrasto con tale principio. Invero la Ctr non ha affatto sostenuto che le dichiarazioni del terzo potevano costituire da sole il fondamento della decisione, ma ne ha riscontrato positivamente l’utilizzabilità ai fini della decisione in esito a una valutazione complessiva e unitaria degli elementi di indagine. In particolare ha considerato i mezzi con i quali i pagamenti furono eseguiti: una pluralità di assegni bancari; e seppure con riferimento a uno solo degli assegni vi era la certezza che il conto di traenza fosse riferibile alla società, la Ctr ritenne che la mancata indagine per stabilire se gli ulteriori assegni fossero riconducibili a clienti della contribuente, ugualmente non inficiava il valore probatorio delle dichiarazioni del terzo, risultando non credibile che “le prestazioni del M. non fossero in alcun modo ricompensate, neppure tramite, i primi correlati al raggiungimento dei traguardi contrattualmente previsti”.

E’ stato recentemente chiarito (Cass. n. 646/2012) che sarebbe “inesatto pretendere che gli indizi scaturenti da fonti orali possano assurgere a fonte di prova presuntiva unicamente se confortati da ulteriori indagini, da eseguirsi necessariamente da parte dell’Ufficio. Infatti, gli elementi assunti a fonte di presunzione non devono neppure essere necessariamente plurimi, (benchè l’art. 2729 c.c., D.P.R. n. 600 del 1973, art. 38 e D.P.R. n. 633 del 1972, art. 54 si esprimano al plurale), potendosi il convincimento del giudice fondare anche su un elemento unico, preciso e grave, la valutazione della cui rilevanza, peraltro, nell’ambito del processo logico applicato in concreto, non è sindacabile in sede di legittimità ove sorretta da motivazione adeguata e logicamente non contraddittoria (Cass. n. 656 del 2014)”.

7. Il settimo motivo e l’ottavo motivo sono inammissibili, in quanto ripetono letteralmente le censure dedotte con il secondo e il terzo motivo, che sono stati già esaminati e disattesi.

PQM

La Corte rigetta il ricorso; condanna la ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 2.900,00, oltre alle spese prenotate a debito.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, il 4 aprile 2017.

Depositato in Cancelleria il 12 maggio 2017

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