Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 11875 del 09/06/2016


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Cassazione civile sez. I, 09/06/2016, (ud. 14/04/2016, dep. 09/06/2016), n.11875

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CAMPANILE Pietro – Presidente –

Dott. GENOVESE Francesco Antonio – Consigliere –

Dott. BISOGNI Giacinto – Consigliere –

Dott. DI MARZIO Mauro – Consigliere –

Dott. LAMORGESE Antonio Pietro – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 21056/2012 proposto da:

FEDERPOL – FEDERAZIONE ITALIANA DEGLI ISTITUTI PRIVATI PER

L’INVESTIGAZIONE E LA SICUREZZA, in persona del legale

rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA

PO 24, presso l’avvocato VINCENZO BRUNETTI, che la rappresenta e

difende, giusta procura a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

FEDERAL DETECTIVES POLIZIA PRIVATA DI C.F.S.;

– intimata –

avverso la sentenza n. 905/2011 della CORTE D’APPELLO di PALERMO,

depositata il 06/07/2012;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

14/04/2016 dal Consigliere Dott. ANTONIO PIETRO LAMORGESE;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

CAPASSO Lucio, che ha concluso per l’accoglimento del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

La “Federpol Federazione Italiana degli Istituti privati per le investigazioni” chiese di inibire alla convenuta “Federpol Polizia Privata di S.C.F.” l’uso della denominazione “Federpol” e di condannarla al risarcimento dei danni. Premesso di essere un’associazione non riconosciuta, senza scopi di lucro, avente ad oggetto la tutela in ambito nazionale degli interessi dei titolari delle licenze governative previste dall’art. 134 T.U. delle leggi di pubblica sicurezza, l’attrice riferì di avere scoperto che un imprenditore individuale di (OMISSIS), esercente l’attività di investigazione privata, utilizzava la medesima denominazione Federpol, usurpandola, al fine di avvantaggiarsi indebitamente e a scopo lucrativo del prestigio e della fama connessi alla propria denominazione.

Il Tribunale di Palermo accolse, anche in sede cautelare, la domanda di inibitoria, ritenendo esistente la confusione nell’utilizzo della denominazione Federpol, in applicazione dell’art. 7 c.c., sulla tutela del nome, e rigettò la domanda di danni per mancanza di prova.

La Corte d’appello di Palermo, con sentenza 6 luglio 2011, ha accolto il gravame di Federal Detective Polizia privata di C.F. S. (nuova denominazione di Federpol-Polizia privata). Ad avviso della Corte, pur essendo astrattamente applicabile non l’art. 7 c.c., a tutela del nome, come ritenuto dal primo giudice, ma l’art. 2564 c.c., a tutela della ditta, era insussistente, in concreto, il rischio di confusione tra i segni contesi e non provata l’esistenza di pregiudizi per l’attrice.

L’associazione attrice ha proposto ricorso per cassazione, affidato a due motivi. L’intimata non ha svolto attività difensiva.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Il primo motivo denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 7 e 2564 c.c., per avere ritenuto applicabile, anzichè la norma di cui all’art. 7 c.c., sulla tutela del nome, quella di cui all’art. 2564 c.c., sulla tutela della ditta, riguardante, invece, soltanto i rapporti tra imprenditori commerciali, mentre l’associazione attrice non svolgeva alcuna attività commerciale.

Il secondo motivo denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., per avere, da un lato, ritenuto applicabile l’art. 2564 c.c., riguardante i rapporti tra imprenditori commerciali e, dall’altro, contraddittoriamente affermato che l’attrice non svolgeva un’attività commerciale e, di conseguenza, non poteva lamentare un rischio di confusione sul mercato, nè pregiudizi di natura patrimoniale; inoltre, la Corte di merito erroneamente avrebbe ritenuto non provati i danni, avendo omesso di considerare che il nome è tutelabile rispetto ad ogni possibile attentato all’identità personale, situazione verificatasi nella specie, in considerazione del rischio di confusione e della lesione dell’affidamento dei terzi circa la riconoscibilità dell’associazione attrice.

Entrambi i motivi, da esaminare congiuntamente, sono infondati, anche se la motivazione dev’essere in parte corretta, a norma dell’art. 384 c.p.c., comma 4.

La sentenza impugnata, in effetti, si espone alla critica di contraddittorietà che le è stata rivolta, laddove ha individuato nell’art. 2564 c.c., il fondamento dell’azionato diritto dell’attrice al nome e all’immagine, senza tuttavia accertare, in concreto, lo svolgimento di un’attività commerciale da parte della stessa.

La Corte palermitana ha richiamato la giurisprudenza di questa Corte, secondo la quale l’utilizzazione della denominazione sociale altrui, disciplinata dagli artt. 2564 c.c. e segg., si sottrae all’applicazione dell’art. 7 dello stesso codice, attesa la prevalenza su tale ultima disposizione di carattere generale della citata normativa specifica (vd. Cass. n. 10521/1994, n. 4036/1995).

Tuttavia, ne ha travisato il significato, che è evidentemente quello di limitare l’applicabilità della normativa in tema di segni distintivi ai protagonisti dell’attività commerciale, cioè ai soggetti imprenditori e, di conseguenza, ha errato laddove ha ritenuto irrilevante l’accertamento della natura giuridica dell’attività svolta dall’attrice (a nulla rileverebbe, a suo avviso, che “la stessa non eserciti attività commerciale”).

Infatti, se si esclude la natura commerciale dell’attività, allora la tutela del diritto al nome e alla connessa identità sarebbe attratta nella disciplina dettata dall’art. 7 c.c., invocabile non solo dalle persone fisiche ma, analogicamente, anche dalle persone giuridiche, private o pubbliche, e dalle associazioni, che sono titolari di un analogo interesse ad evitare confusione con altri soggetti e, quindi, a chiedere la cessazione dei fatti di usurpazione, cioè di indebita assunzione del nome altrui, quale segno distintivo (v. Cass. n. 1185/1981, n. 18218/2009). Innegabile è, quindi, il diritto delle associazioni, anche non riconosciute, alla tutela della propria identità, a norma degli artt. 2 Cost. e 7 c.c., anche mediante inibitoria dell’uso illegittimo da parte dei terzi della denominazione altrui, quando ingeneri una confusione suscettibile di arrecare un pregiudizio al soggetto che ne è titolare e di comprometterne l’immagine nell’ambiente sociale (v.

Cass. n. 11129/2003).

La conclusione cui è pervenuta la sentenza impugnata è, però, corretta.

Il giudizio sulla confondibilità, con riferimento alle specifiche caratteristiche dei segni in contestazione, alle circostanze del caso e all’esistenza, in concreto, di potenziali pregiudizi al titolare della denominazione che si assume usurpata, è rimesso, evidentemente, al giudice di merito ed è incensurabile in sede di legittimità, ove congruamente e correttamente motivata (v. Cass. n. 5343/1984).

La Corte di merito, con adeguato e incensurato apprezzamento di fatto, ha ritenuto insussistente, in concreto, il paventato rischio di confusione, in considerazione della palese diversità dei segni utilizzati (“Federpol Federazione Italiana degli Istituti privati per le investigazioni” e “Federpol Polizia Privata di S. C.F.”); inoltre, ad avviso della medesima Corte, il prefisso utilizzato, “Feder”, indicava verosimilmente il termine “Federale” (evocativo della polizia federale), piuttosto che “Federazione”; il suffisso “Pol” era eccessivamente generico e diversi erano sia l’oggetto che l’ambito territoriale in cui le due associazioni operavano (la prima era un’associazione di categoria operante nell’intero territorio nazionale, la seconda era un’agenzia investigativa privata operante a (OMISSIS)).

Il ricorso è rigettato. Non si deve provvedere sulle spese, non avendo l’intimata svolto attività difensiva.

PQM

La Corte rigetta il ricorso.

Così deciso in Roma, il 14 aprile 2016.

Depositato in Cancelleria il 9 giugno 2016

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