Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 11866 del 09/06/2016
Cassazione civile sez. lav., 09/06/2016, (ud. 23/03/2016, dep. 09/06/2016), n.11866
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. DI CERBO Vincenzo – Presidente –
Dott. D’ANTONIO Enrica – Consigliere –
Dott. BALESTRIERI Federico – Consigliere –
Dott. GHINOY Paola – rel. Consigliere –
Dott. LEO Giuseppina – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso 15164-2011 proposto da:
V.G., C.F. (OMISSIS), elettivamente domiciliata
in ROMA, VIA PANAMA 74, presso lo studio dell’avvocato GIANNI
EMILIO IACOBELLI, che la rappresenta e difende, giusta delega in
atti;
– ricorrente –
contro
P.I. S.P.A., C.F. (OMISSIS), in persona del legale
rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA VIA
L.G. FARAVELLI 22, presso lo studio dell’avvocato ARTURO MARESCA,
che la rappresenta e difende, giusta delega in atti;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 1062/2011 della CORTE D’APPELLO di ROMA,
depositata il 15/03/2011 R.G.N. 7329/2008;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del
23/03/2016 dal Consigliere Dott. PAOLA GHINOY;
udito l’Avvocato FARES ILARIA ANITA per delega Avvocato IACOBELLI
GIANNI EMILIO;
udito l’Avvocato GIANNI’ GAETANO per delega verbale Avvocato
MARESCA ARTURO;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.
CERONI Francesca, che ha concluso per il rigetto del ricorso.
Fatto
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
La Corte d’appello di Roma, con la sentenza n. 1062 del 2011, confermava la sentenza del Tribunale della stessa sede che aveva rigettato il ricorso proposto da V.G., al fine di ottenere la dichiarazione di nullità del termine apposto al contratto di lavoro intercorso con P.i. s.p.a. dal 4.8.1998 al 30.9.1998 (per ” necessità di espletamento del servizio in concomitanza di assenza per ferie del personale, nel periodo giugno/settembre”, a norma dell’art. 8 del C.C.N.L. 26/11/1994), ritenendo che l’attesa di oltre sette anni della ricorrente per far valere l’illegittimità del termine e costituire in mora la convenuta, offrendo le proprie prestazioni lavorative, valutata in modo socialmente tipico, configurasse risoluzione consensuale tacita del rapporto di lavoro.
Per la cassazione della sentenza V.G. ha proposto ricorso, affidato a tre motivi, cui ha resistito con controricorso P.i. s.p.a. Le parti hanno depositato anche memorie ex art. 378 c.p.c..
Diritto
MOTIVI DELLA DECISIONE
1. Con il primo ed il secondo motivo, sotto il profilo della violazione e falsa applicazione dell’art. 100, 101, 112 e 418 c.p.c. in relazione agli artt. 24 e 111 Cost., nonchè della violazione dell’art. 112 c.p.c. in relazione all’art. 416 e 418 c.p.c. e agli artt. 434, 436 e 437 c.p.c., e dell’art. 329 c.p.c., la ricorrente lamenta che i giudici di merito abbiano esaminato l’eccezione di risoluzione per mutuo consenso sollevata nella memoria di costituzione di primo grado, mentre il mutuo consenso quale causa autonoma di risoluzione del rapporto di lavoro avrebbe dovuto essere oggetto di domanda riconvenzionale.
1.1. I due motivi sono infondati, considerato che, al di là del contrasto giurisprudenziale circa la natura dell’eccezione di risoluzione del rapporto per mutuo consenso tacito (se, cioè, la stessa debba intendersi come eccezione in senso stretto, v. Cass. 7/5/2009 n. 10526, Cass. 29-3-1982 n. 1939, o in senso lato, in quanto rappresentante “un fatto oggettivamente estintivo dei diritti nascenti dal contratto, che può essere accertato d’ufficio”, v.
Cass. 6-81997 n. 7270, Cass. 22-11-2006 n. 24802, Cass. 24-5-2007 n. 12075, Cass. 20-6-2012 n. 10201, Cass. 17-3- 2014 n. 6125), questa Corte ha chiarito che “di certo, comunque, la proposizione della risoluzione del rapporto per mutuo consenso tacito non costituisce oggetto di una necessaria domanda riconvenzionale, in quanto con essa il convenuto non oppone una controdomanda intesa ad ottenere un provvedimento positivo sfavorevole all’attore, ma chiede semplicemente il rigetto della domanda attrice” (vedi Cass. 4-8-2015 n. 16339, Cass. 8- 10-2014 n. 21253, Cass. 16-3-2012 n. 4233, Cass. 24-9-2010 n. 20178, Cass. 24-7-2007 n. 16314, Cass. 23-22005 n. 3767). Nella fattispecie, quindi, deve ritenersi che legittimamente la Corte territoriale abbia esaminato l’eccezione ritualmente sollevata nella memoria di costituzione di primo grado ed accolta dal Tribunale, senza peraltro che alcuna censura di inammissibilità fosse stata formulata.
2. Come terzo motivo, ancora sul capo di sentenza che ha ritenuto la risoluzione del rapporto per mutuo consenso, la ricorrente deduce violazione di legge in tema di imprescrittibilità dell’ azione di nullità (ex artt. 1421 e 1422 c.c.), mancato assolvimento da parte della resistente dell’onere della prova su di essa gravante, violazione degli artt. 2697 e 2729 c.c., artt. 115 e 116 c.p.c. Addebita alla Corte d’appello di aver valorizzato quale prova dell’intento risolutorio esclusivamente la rilevante lunghezza del periodo di non attuazione del rapporto, in assenza di ulteriori circostanze che denotassero una volontà abdicativa.
2.1. Il motivo è ammissibile, contrariamente a quanto eccepito da Poste, in quanto non è inteso a sollecitate un diverso apprezzamento delle risultanze probatorie, ma a far valere specifici vizi logici ed errori di diritto nella ricostruzione relativa alla sussistenza di una volontà risolutoria operata dalla Corte territoriale.
2.2. Il motivo è altresì fondato.
Secondo il costante insegnamento di questa Corte di legittimità (cfr. Cass. n. 3536 del 2015, Cass. ord. n. 6932/2011, Cass. n. 17150/2008), nel giudizio instaurato ai fini del riconoscimento della sussistenza di un unico rapporto di lavoro a tempo indeterminato sul presupposto dell’illegittima apposizione al contratto di un termine finale ormai scaduto, per la configurabilità di una risoluzione del rapporto per mutuo consenso, è necessario che sia accertata – sulla base del lasso di tempo trascorso dopo la conclusione dell’ultimo contratto a termine, nonchè del comportamento tenuto dalla parti e di eventuali circostanze significative – una chiara e certa comune volontà delle parti di porre fine ad ogni rapporto lavorativo; la mera inerzia del lavoratore dopo la scadenza del termine contrattuale è quindi di per sè insufficiente a ritenere sussistente una risoluzione del rapporto per mutuo consenso (cfr., da ultimo, Cass. n. 2305/2010, Cass. n. 5887/2011), mentre grava sul datore di lavoro che eccepisca tale risoluzione l’onere di provare le circostanze dalle quali possa ricavarsi la volontà chiara e certa delle parti di porre definitivamente fine al rapporto di lavoro (Cass. n. 2279/2010, n. 16303/2010, 15624/2007).
La valutazione del significato e della portata del complesso di tali elementi di fatto compete al giudice di merito, le cui conclusioni non sono censurabili in sede di legittimità se non sussistono vizi logici o errori di diritto; coerentemente, con riferimento alla prova presuntiva, questa Corte ha più volte affermato che “è incensurabile in sede di legittimità l’apprezzamento del giudice di merito circa la valutazione della ricorrenza dei requisiti di precisione, gravità e concordanza richiesti dalla legge per valorizzare elementi di fatto come fonti di presunzione, sempre che la motivazione adottata appaia congrua dal punto di vista logico, immune da errori di diritto e rispettosa dei principi che regolano la prova per presunzioni” (v. fra le altre, Cass. 27-102015 n. 21876, Cass. 15-1-2015 n.10958, Cass. 20-7-2006 n. 16728, Cass. 23-1-2006 n. 1216).
In questo senso, elementi relativi alla sfera del lavoratore che di per sè sono sprovvisti di significato univoco, quali la percezione del trattamento di fine rapporto, con la quale il lavoratore si limita a riscuotere un credito che gli è dovuto sulla base della situazione in fatto realizzatasi (cfr., Cass., n.15628/2001, in motivazione) e il reperimento di altra attività lavorativa, normalmente determinato dalla necessità di soddisfare bisogni primari di natura alimentare (cfr. Cass. n. 839/2010, in motivazione, nonchè, in senso analogo, Cass. n. 15900/2005, in motivazione), possono assumere significato concludente sulla base della valutazione delle caratteristiche che tali circostanze hanno assunto nel caso concreto, inserite nel coacervo degli ulteriori elementi che consentano di individuare una consapevole opzione risolutoria (in applicazione di tali principi, Cass. 27-10-2015 n. 21876, ha confermato la decisione di merito che aveva ritenuto che il decorso di un significativo lasso temporale, di circa 6 anni, tra la cessazione dell’ultimo contratto e la messa in mora del datore da parte del lavoratore, in uno al reperimento, nelle more, di altra occupazione a tempo indeterminato, costituissero indici sufficienti della volontà delle parti di porre definitivamente fine a ogni rapporto lavorativo).
Tali principi, del tutto conformi a quanto disposto dagli artt. 1372 e 1321 cod. civ., vanno ribaditi anche in questa sede, così confermandosi l’indirizzo ormai prevalente basato, in sostanza, sulla necessaria valutazione dei comportamenti e delle circostanze di fatto, idonei ad integrare una chiara manifestazione consensuale tacita di volontà in ordine alla risoluzione del rapporto, non essendo all’uopo sufficiente il semplice trascorrere del tempo e neppure la mera mancanza, seppure prolungata, di operatività del rapporto. Al riguardo, quindi, non può condividersi il diverso indirizzo che, valorizzando esclusivamente il “piano oggettivo” nel quadro di una presupposta valutazione sociale “tipica” (v. Cass. 6/7/2007 n. 15264 e da ultimo Cass. 5-6-2013 n. 14209), prescinde del tutto dal presupposto che la risoluzione per mutuo consenso tacito costituisce pur sempre una manifestazione negoziale, anche se tacita (v. da ultimo Cass. n. 20704 del 14-10.2015, Cass. 28-1-2014 n. 1780).
2.3. Nel caso in esame, la Corte territoriale (esaminando per prima l’eccezione di risoluzione per mutuo consenso, in quanto di per sè idonea a definire la controversia, posponendo la questione della legittimità o meno del termine contrattuale) non si è tuttavia attenuta a tali principi. Ha valorizzato infatti la mancanza di totale operatività del rapporto protratta per oltre sette anni, ritenendola espressiva di una volontà risolutoria secondo un criterio di “tipicità sociale”, mentre il tempo intercorso non è di per sè significativo, neppure parametrato alla breve durata del rapporto, in difetto di ulteriori circostanze che ne connotino il decorso in modo univoco, così giungendo a configurare la consapevole opzione risolutoria in difetto di univoci, concordanti elementi.
3. Segue a tutte le considerazioni che precedono la cassazione della sentenza impugnata, con rinvio alla Corte d’appello di Roma, in diversa composizione, che dovrà rivalutare la fattispecie alla luce dei principi sopra indicati e regolare anche il regime delle spese del giudizio di legittimità.
PQM
La Corte accoglie il terzo motivo di ricorso, rigettati gli altri.
Cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia, anche per le spese, alla Corte d’appello di Roma in diversa composizione.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 23 marzo 2016.
Depositato in Cancelleria il 9 giugno 2016