Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 11859 del 27/05/2011

Cassazione civile sez. II, 27/05/2011, (ud. 05/05/2011, dep. 27/05/2011), n.11859

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. TRIOLA Roberto Michele – Presidente –

Dott. MAZZIOTTI DI CELSO Lucio – rel. Consigliere –

Dott. MANNA Felice – Consigliere –

Dott. SAN GIORGIO Maria Rosaria – Consigliere –

Dott. GIUSTI Alberto – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 28990/2005 proposto da:

ARGENT SRL C.F. (OMISSIS), KER SRL C.F. (OMISSIS),

elettivamente domiciliati in ROMA, VIA CRESCENZIO 91, presso lo

studio dell’avvocato LUCISANO CLAUDIO, che li rappresenta e difende;

– ricorrenti –

contro

V.M. (OMISSIS), R.S.

(OMISSIS), C.D. (OMISSIS), P.R.

(OMISSIS), CO.AN. (OMISSIS), F.

L. (OMISSIS), A.L. (OMISSIS),

LUTETIA SAS di A. BOZZELLI & C. C.F. (OMISSIS), L.L.

(OMISSIS), LAGOLEGO SRL in persona dell’Amministratore Unico

T.M. P.IVA (OMISSIS), elettivamente domiciliati in

ROMA, VIA ANASTASIO II 80, presso lo studio dell’avvocato BARBATO

ADRIANO, che li rappresenta e difende unitamente agli avvocati GRIECI

GIULIO, MANFREDI ROBERTO;

– controricorrenti –

e contro

D.C., PE.GI., PU.LU.;

– intimati –

avverso la sentenza n. 1683/2 005 della CORTE D’APPELLO di MILANO,

depositata il 25/06/2005;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

05/05/2011 dal Consigliere Dott. LUCIO MAZZIOTTI DI CELSO;

udito l’Avvocato LUCISANO Claudio, difensore del ricorrente che si

riporta;

udito l’Avvocato BARBATO Adriano, difensore dei resistenti che si

riporta agli atti;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

GOLIA Aurelio, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Pe.Gi., Pu.Lu., V.M., Co.An., R.S., A.L., C.D., D.C., F.L., L.L., P.R., la s.a.s. Lutetia e la s.r.l. Lagolego – nella qualità di condomini del condominio (OMISSIS) – convenivano in giudizio la s.r.l. Argent esponendo di aver appreso che questa era in procinto di realizzare una discoteca in alcuni locali di sua proprietà all’interno dello stabile condominiale. Gli attori quindi, sostenendo trattarsi di attività vietata dall’articolo 7 del regolamento di condominio contrattuale, chiedevano che venisse inibito alla convenuta di adibire l’unità immobiliare di sua proprietà a discoteca e che venisse ordinata la rimessione in pristino dello stato dei luoghi.

La s.r.l. Argent, costituitasi, chiedeva il rigetto della domanda deducendone l’infondatezza sotto vari profili.

Con sentenza 1361/2002 l’adito tribunale di Corno inibiva alla società convenuta di adibire a discoteca l’unità immobiliare di sua proprietà. Avverso la detta sentenza la s.r.l. Argent e la s.r.l.

Ker (quale soggetto succeduto a titolo particolare nella proprietà dell’immobile in questione) proponevano appello al quale resistevano gli attori in primo grado ad eccezione di D.C. che non si costituiva nel giudizio di secondo grado.

Con sentenza 26/6/2005 la corte di appello di Milano rigettava il gravame osservando: che, secondo gli appellanti, gli attori in primo grado per far valere una clausola del regolamento contrattuale, avrebbero dovuto rivolgersi al conduttore dell’immobile adibito a discoteca, ossia ad un terzo estraneo al contratto; che tale tesi era infondata dal momento che, posta la natura contrattuale del regolamento condominiale, il condomino era responsabile degli effetti della sua disapplicazione anche se consumata dal conduttore stante la sua obbligazione non solo di inserire il regolamento contrattuale nei successivi atti di vendita, ma anche di pretenderne l’applicazione e vigilare in tal senso; che sussisteva quindi la legittimazione passiva della s.r.l. Argent quale diretta responsabile nei confronti degli altri condomini della destinazione d’uso (diretta o tramite conduttore) delle unità immobiliari di cui era pro-prietaria; che il regolamento di condominio predisposto dall’originario unico proprietario dell’intero edificio (ossia la stessa Argent), accettato dagli iniziali acquirenti delle singole unità immobiliari e trascritto nei pubblici registri, assumeva carattere convenzionale e vincolava anche tutti i successivi acquirenti, nonchè i conduttori di dette unità, non solo per le clausole relative alla disciplina dell’uso e del godimento dei servizi e delle parti comuni, ma anche per quelle concernenti i poteri e le facoltà dei singoli condomini sulle loro proprietà esclusive, venendo a costituire con queste ultime una servitù reciproca; che i condomini esponenti non erano tenuti a produrre gli atti di acquisto di tutti gli altri condomini per provare la natura contrattuale del regolamento condominiale in questione; che, secondo parte appellante, l’espressione di cui alla clausola regolamentare in esame “attività propaganti odori, rumori, scuotimenti, fumo eccedenti la normale tollerabilità” costituirebbe “riferimento formale al disposto dell’art. 844 c.c.” per cui la genericità di tale previsione imporrebbe un accertamento in concreto del disturbo arrecato ai singoli condomini; che anche questa tesi era infondata tenuto conto del primo periodo della clausola regolamentare in questione; che dalla lettura integrale e complessiva della clausola appariva evidente la non applicazione nella specie dell’art. 844 c.c., avendo i condomini inteso tutelare “tranquillità, decoro, sicurezza” definendo in astratto ed in via preventiva – proprio per evitare qualunque verifica in concreto sempre difficile e discutibile – cosa bisognava non fare, prevedendo espressamente: la destinazione dei locali al piano interrato (solo laboratorio deposito di merci), il divieto di sopraccarico eccessivo dei locali, balconi e terrazzi, il divieto di usare strumenti musicali dopo le 22,00, il divieto di attività incompatibili con la tranquillità il decoro e la sicurezza del fabbricato; che il tribunale aveva ben evidenziato, con motivata valutazione di merito, tutte le varie componenti che nella situazione di fatto dedotta in giudizio concorrevano a far ritenere violata la tranquillità della collettività condominiale messa in pericolo non dalla attività di birreria in sè, ma da questa in una all’intrattenimento dei clienti con musica e spettacoli sino a tarda ora notturna; che, ad avviso degli appellanti, gli attori non avevano provato il reale turbamento al diritto di godimento delle loro rispettive proprietà e, comunque, i condomini s.a.s. Lutetia e s.r.l. Lagolego non potevano subire alcun disturbo dall’esercizio di una discoteca espletata in orari diversi da quelli di ufficio; che gli appellanti non avevano valutato le conseguenze visive del giorno dopo per sporcizia con ricadute sul decoro dell’edificio; che il regolamento condominiale conteneva una elencazione delle attività vietate per cui, verificato l’inserimento di una determinata attività in detto elenco, non era necessario verificare in concreto la produzione degli inconvenienti che la norma regolamentare mirava ad evitare.

La cassazione della sentenza della corte di appello di Milano è stata chiesta dalla s.r.l. Argent e dalla s.r.l. Ker con ricorso affidato a cinque motivi.

Hanno resistito con controricorso V.M., Co.

A., R.S., A.L., C. D., F.L., L.L., P.R., la s.a.s. Lutetia e la s.r.l. Lagolego. Gli intimati Pe.Gi., P. L., e D.C. non hanno svolto attività difensiva in sede di legittimità.

I resistenti hanno depositato memoria.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo di ricorso le società Argent e Ker denunciano mancanza di motivazione, con riferimento alla carenza di interesse ad agire dei condomini, deducendo che la corte di appello avrebbe dovuto rilevare l’impossibilità di esecuzione forzata della condanna, richiesta verso essa Argent, nei confronti della conduttrice non succeduta a titolo particolare nel rapporto controverso in corso di lite. Inoltre, poichè la condanna riguardava l’esecuzione di un “facere” infungibile, era comunque da escludere una possibilità coercitiva reale: ciò escludeva in radice la sussistenza dell’interesse ad agire.

Il motivo è infondato posto che, come questa Corte ha più volte affermato, in tema di condominio degli edifici e nell’ipotesi di violazione del divieto contenuto nel regolamento contrattuale di destinare i singoli locali di proprietà esclusiva dell’edificio condominiale a determinati usi, il condominio può richiedere la cessazione della destinazione abusiva sia al conduttore che al proprietario locatore. Peraltro, solo nell’ipotesi di richiesta nei confronti del conduttore, si verifica una situazione di litisconsorzio necessario con il proprietario. Tale situazione non si verifica invece nell’ipotesi in cui convenuto in giudizio sia soltanto il proprietario del locale e non anche il conduttore dello stesso, nei confronti del quale non vi sia stata pertanto richiesta di cessazione immediata dell’uso cui è adibito il negozio (sentenza 29/10/2003 n. 16240). Nell’ipotesi di richiesta nei confronti del conduttore, il proprietario è tenuto a partecipare, quale litisconsorte necessario, nel relativo giudizio in cui si controverta in ordine all’esistenza ed alla validità del regolamento, in quanto le suddette limitazioni costituiscono oneri reali o servitù reciproche che, in quanto tali, afferiscono immediatamente al bene (sentenza 8/3/2006 n. 4920), Va aggiunto che la rigorosa previsione regolamentare in questione è costitutiva di un vincolo di natura reale assimilabile ad una servitù reciproca (ordinanza 18/1/2011 n. 1064). Inoltre il condomino che abbia locato la propria unità abitativa ad un terzo risponde nei confronti degli altri condomini delle ripetute violazioni al regolamento condominiale consumate dal proprio conduttore qualora non dimostri di avere adottato, in relazione alle circostanze, le misure idonee, alla stregua del criterio generale di diligenza posto dall’art. 1176 c.c., a far cessare gli abusi, ponendo in essere iniziative che possono arrivare fino alla richiesta di anticipata cessazione del rapporto di locazione (sentenza 16/5/2006 n. 11383).

Con il secondo motivo le ricorrenti denunciano violazione dell’art. 2697 c.c., in relazione alla asserita natura contrattuale del regolamento, sostenendo che è errata la distribuzione dell’onere della prova adottata dalla corte di appello la quale ha escluso l’obbligo degli attori di produrre tutti gli atti di compravendita di tutte le unità immobiliari facenti parte dell’edificio condominiale.

Gli attori ben avrebbero potuto procurarsi tale documentazione trattandosi di atti pubblici facilmente rintracciabili. La censura non è meritevole di accoglimento in quanto, come affermato dalla corte di appello e non contestato dalle ricorrenti, il regolamento condominiale in questione è stato predisposto dall’originario unico proprietario dell’intero edificio (ossia la s.r.l. Argent), è stato trascritto nei pubblici registri immobiliari (la regolarità di detta trascrizione non ha formato oggetto di dibattito tra le parti) ed è stato accettato dagli attori in primo grado (attuali resistenti) acquirenti delle singole unità immobiliari dagli stessi acquistate con atti di compravendita contenenti ciascuno il richiamo al regolamento condominiale allegato ad ogni contratto. Di fronte a questa situazione probatoria documentale nessun dubbio può sorgere in ordine alla natura contrattuale del regolamento condominiale in questione non essendo di certo necessaria – al fine della dimostrazione di detta natura – l’acquisizione di tutti gli atti di compravendita di ciascun condomino tenuto anche conto che le società ricorrenti non hanno mai dedotto (e provato) l’esistenza di contratti di compravendita di unità immobiliari facenti parte dell’edificio condominiale non contenenti il richiamo al regolamento condominiale in questione. Con il terzo motivo le ricorrenti denunciano vizi di motivazione deducendo che è contraddittoria la motivazione utilizzata dalla corte di appello per asserire che la specifica formulazione del regolamento condominiale (clausola n. 7) non consentiva alcuna indagine in merito alla effettiva intollerabilità di una determinata attività vietata. La clausola regolamentare in esame non indica affatto specifiche attività vietate: ciò imponeva un accertamento di fatto circa l’effettiva intollerabilità dell’attività in questione sia sotto il profilo delle immissioni, sia sotto quello del decoro o della sicurezza del fabbricato. I giudici del merito hanno ritenuto di poter decidere anche in mancanza di detto accertamento. La corte di appello ha addirittura affermato che la norma regolamentare conterrebbe una analitica elencazione delle attività vietate a prescindere dalla verifica dell’effettivo disturbo arrecato. La detta clausola, però, non contiene tra le attività vietate – genericamente indicate – anche quella della discoteca o qualsiasi altra comportante accesso al pubblico.

Con il quarto motivo di ricorso le società Argent e Ker denunciano vizi di motivazione e violazione dell’art. 2697 c.c., e art. 345 c.p.c., con riferimento alla asserita violazione in concreto della clausola regolamentare. Le ricorrenti deducono che la corte di appello: a) fa proprio un fantomatico (in quanto inesistente) esame della fattispecie concreta che il tribunale avrebbe compiuto affermando che “l’attività di birreria” si sarebbe atteggiata in modo tale da ledere la quiete condominiale; b) vieta l’esercizio dell’attività in questione in tutti gli immobili che compongono il condominio in base alla clausola regolamentare che menziona le attività consentite nei locali ai piani interrati; c) asserisce che sarebbero state dimostrate le conseguenze visive del giorno dopo per sporcizia a causa dei “bivacchi notturni dei giovani nelle aree condominiali adiacenti alla discoteca”; d) vieta l’esercizio dell’attività in questione facendo riferimento alla clausola del regolamento che impedisce “il sovraccarico eccessivo dei locali, balconi, terrazzi” e l’uso di strumenti musicali dopo le ore 22,00 o l’esercizio di qualunque attività incompatibile con il decoro, la tranquillità e la sicurezza del fabbricato. Le dette affermazioni sono tutte errate, non sorrette da un concreto accertamento circa la normale tollerabilità delle emissioni sonore provenienti dalla discoteca, nonchè prive di adeguata motivazione idonea a limitare la libera iniziativa privata. Inoltre la corte di appello ha utilizzato un documento prodotto dalle controparti solo in secondo grado in violazione dell’art. 345 c.p.c..

Con il quinto motivo le ricorrenti, denunciando vizi di motivazione in relazione al reale stato dei luoghi, deducono che la sentenza impugnata ha liquidato con eccessiva facilità l’evidente rilevanza dell’effettivo stato dei luoghi al fine di determinare in concreto la “normale tollerabilità” che sarebbe stata nella specie violata. La corte di appello ha affermato che la tutela della tranquillità deve essere assicurata a tutti i condomini indipendentemente dalla vicinanza di ciascuno alla discoteca e dall’adibizione dei locali ad uffici. Tale affermazione è carente anche sotto il profilo logico in quanto non collegata o collegabile ad un indispensabile accertamento di fatto non compiuto dai giudici del merito.

La Corte rileva l’infondatezza delle dette numerose censure che, per evidenti ragioni di ordine logico, possono essere esaminate congiuntamente per la loro stretta connessione ed interdipendenza risolvendosi tutte – quale più, quale meno sia pur sotto aspetti e profili diversi – essenzialmente nella pretesa di contrastare l’interpretazione data dalla corte di appello alla clausola di cui all’art. 7 del regolamento condominale contrattuale in questione, nonchè in una critica alla motivazione della sentenza impugnata e al percorso argomentativo seguito dalla corte di appello.

Occorre premettere che secondo la giurisprudenza consolidata di questa Corte, l’interpretazione del regolamento contrattuale di condominio da parte del giudice del merito è insindacabile in sede di legittimità, quando non riveli violazione dei canoni di ermeneutica oppure vizi logici.

E’ del pari pacifico nella giurisprudenza di legittimità il principio secondo cui l’interpretazione degli atti di autonomia privata si traduce in una indagine di fatto affidata al giudice del merito e censurabile in sede di legittimità solo per il caso di insufficienza o contraddittorietà di motivazione tale da non consentire la ricostruzione dell’iter logico seguito per giungere alla decisione, ovvero per il caso di violazione delle regole ermeneutiche di cui all’art. 1362 c.c. e ss.. L’individuazione della volontà contrattuale – che, avendo ad oggetto una realtà fenomenica ed obiettiva, si risolve in un accertamento di fatto – è censurabile non già quando le ragioni poste a sostegno della decisione siano diverse da quelle della parte, bensì quando siano insufficienti o inficiate da contraddittorietà logica o giuridica.

La giurisprudenza di questa Corte ha anche più volte rilevato che non è sindacabile in sede di legittimità la scelta da parte del giudice del merito del mezzo ermeneutico più idoneo all’accertamento della comune intenzione delle parti, qualora sia stato rispettato il principio del gradualismo, secondo il quale deve farsi ricorso ai criteri interpretativi sussidiali solo quando i criteri principali (significato letterale e collegamento tra le varie clausole contrattuali) siano insufficienti all’individuazione della comune intenzione stessa.

Nella specie il giudice di secondo grado ha ineccepibilmente proceduto all’interpretazione del regolamento contrattuale in questione – ed in particolare dell’art. 7 di tale regolamento – ed alla valutazione del significato letterale e logico delle espressioni “tranquillità”, “decoro” e “sicurezza” adoperate nella menzionata norma regolamentare.

La corte di appello ha ampiamente giustificato tale valutazione – frutto di una “lettura integrale e complessiva della clausola contrattuale” – ed è quindi giunta alla conclusione, come sopra riportato nella parte narrativa che precede, che la norma regolamentare era stata articolata in modo tale ù con la previsione specifica delle attività vietate e consentite – da raggiungere lo scopo di evitare la verifica in concreto della violazione della “tranquillità”, del “decoro” e della “sicurezza” dell’edificio condominiale.

Il procedimento logico-giuridico sviluppato nell’impugnata decisione è ineccepibile, in quanto coerente e razionale, ed il giudizio di fatto in cui si è concretato il risultato dell’interpretazione della norma regolamentare in questione è fondato su un’indagine condotta nel rispetto dei comuni canoni di ermeneutica e sorretto da motivazione, adeguata ed immune dai vizi denunciati.

Le argomentazioni al riguardo svolte nell’impugnata decisione sono esaurienti, logicamente connesse tra di loro e tali da consentire il controllo del processo intellettivo che ha condotto alla indicata conclusione. Il procedimento logico-giuridico sviluppato nell’impugnata decisione è coerente e razionale ed il giudizio di fatto in cui si è concretato il risultato dell’attività interpretativa è fondato su un’indagine condotta nel rispetto dei comuni canoni di ermeneutica tenendo conto del significato letterale e logico delle espressioni contenute nella norma regolamentare in questione.

Il giudice di secondo grado è giunto alla conclusione sopra riportata nella parte narrativa che precede (e dalle ricorrenti criticata) attraverso argomentazioni complete ed appaganti, improntate a retti criteri logici e giuridici nonchè frutto di una precisa ricostruzione della volontà dell’autore dell’atto desumibile dal contenuto della clausola: in tal modo la corte di appello ha dimostrato di aver considerato e valutato il significato logico sotteso alle parti più significative per accertare la detta volontà.

Il giudice di appello ha quindi dato conto delle proprie valutazioni esponendo le ragioni del suo convincimento: alle dette valutazioni le ricorrenti contrappongono le proprie, ma della maggiore o minore attendibilità di queste rispetto a quelle compiute dal giudice del merito non è certo consentito discutere in questa sede di legittimità.

Nella sentenza impugnata sono evidenziati i punti salienti della decisione e risulta chiaramente individuabile la “ratio decidendi” adottata. A fronte delle coerenti argomentazioni poste a base della conclusione cui è pervenuto il giudice di appello, è evidente che le censure in proposito mosse dalle ricorrenti devono ritenersi rivolte non alla base del convincimento del giudice, ma inammissibilmente, al convincimento stesso e, cioè, all’interpretazione del regolamento e della clausola in questione in modo difforme da quello auspicato: le società Argent e Ker contrappongono all’interpretazione ritenuta dalla corte di merito la propria interpretazione investendo essenzialmente il “risultato” interpretativo raggiunto, il che e inammissibile in questa sede.

Dalla riportata corretta operazione ermeneutica la corte di appello ha fatto discendere coerentemente l’affermazione che: era vietata qualsiasi attività dei condomini nelle rispettive proprietà esclusive incompatibili con le norme igieniche, con la tranquillità degli altri condomini o con il decoro o con la sicurezza dell’edificio; i locali ai piani interrati (come quelli della discoteca in questione) potevano essere adibiti solo a laboratorio e deposito mezzi; era vietato il sovraccarico eccessivo dei locali e l’uso di strumenti musicali dopo le ore 22,00; risultava evidente, senza bisogno di particolari accertamenti tecnici, la violazione della clausola di cui all’art. 7 del regolamento contrattuale derivante dall’utilizzo dei locali in questione come discoteca frequentata da 800 persone con conseguente incompatibilità con la tranquillità, il decoro e la sicurezza del fabbricato da assicurare a tutti i condomini indipendentemente dalla ubicazione delle singole proprietà esclusive di ciascun condomino; ciò era agevolmente desumibile dall’intrattenimento dei clienti con musica e spettacoli anche oltre le ore 22,00 e dagli inevitabili effetti derivanti dall’attività della discoteca.

La corte territoriale ha ampiamente giustificato le dette affermazioni sorretta da argomentazioni ineccepibili in quanto coerenti e razionali, oltre che adeguate, congrue ed immuni da vizi logici e giuridici, per cui si sottraggono alle critiche di cui sono state oggetto con i motivi di ricorso in esame.

Va solo aggiunto che è inammissibile la censura relativa all’asserita violazione dell’art. 345 c.p.c., per aver la corte di appello attribuito valore probatorio ad un documento (esposto inviato da alcuni condomini all’amministratore condominiale contenente lamentele per i disturbi arrecati dall’esercizio della discoteca) prodotto in sede di appello in violazione della citata norma.

In proposito è appena il caso di rilevare che la corte di merito ha fatto riferimento al detto esposto solo per trame ulteriore argomento a sostegno e rafforzamento di un convincimento già autonomamente raggiunto in base alla interpretazione della clausola regolamentare in questione e delle conseguenze derivanti da tale interpretazione.

Pertanto la critica a detto argomento aggiuntivo manca del carattere di decisività posto che altra espressa ragione risulta essere da sola sufficiente a reggere la decisione impugnata.

Va di conseguenza applicato il principio pacifico secondo cui le affermazioni “ad abundantiam” contenute nella motivazione della sentenza, consistenti in argomentazioni rafforzative di quella contenente la premessa logica della statuizione contenuta nel dispositivo, vanno considerate di regola superflue quindi giuridicamente irrilevanti ai fini della censurabilità qualora l’argomentazione rafforzata sia di per sè sufficiente a giustificare la pronuncia adottata.

Analoghe considerazioni valgono anche con riferimento all’errore in cui è incorso il giudice di appello nell’indicare l’attività di “birreria” e non di discoteca: si tratta infatti di un evidente errore ininfluente posto che la motivazione della sentenza impugnata ha ad oggetto l’attività di discoteca (e non di birreria) vietata di per sè espressamente dalla norma regolamentare – correttamente interpretata – senza necessità di verificare in concreto la messa in pericolo della tranquillità, del decoro e della sicurezza dell’edificio condominiale alla cui tutela ed al cui rispetto sono interessati tutti i condomini indipendentemente dalla localizzazione delle singole unità immobiliari di proprietà esclusiva di ciascun condomino.

In definitiva il ricorso deve essere rigettato con conseguente condanna delle soccombenti società ricorrenti al pagamento in solido delle spese del giudizio di cassazione liquidate nella misura indicata in dispositivo.

P.Q.M.

la Corte rigetta il ricorso e condanna le ricorrenti in solido al pagamento delle spese del giudizio di cassazione che liquida in complessivi Euro 200,00, oltre Euro 2.000,00 a titolo di onorali ed oltre accessori come per legge.

Così deciso in Roma, il 5 maggio 2011.

Depositato in Cancelleria il 27 maggio 2011

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