Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 11858 del 14/05/2010

Cassazione civile sez. III, 14/05/2010, (ud. 08/04/2010, dep. 14/05/2010), n.11858

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. FINOCCHIARO Mario – Presidente –

Dott. MASSERA Maurizio – Consigliere –

Dott. SEGRETO Antonio – Consigliere –

Dott. VIVALDI Roberta – Consigliere –

Dott. FRASCA Raffaele – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ordinanza

sul ricorso proposto da:

INPGI – ISTITUTO NAZIONALE DI PREVIDENZA DEI GIORNALISTI ITALIANI

GIOVANNI AMENDOLA in persona del suo Presidente pro tempore e legale

rappresentante, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA GIAMBATTISTA

VICO 22, presso lo studio dell’avvocato VECCHIONE GIORGIO, che lo

rappresenta e difende, giusta procura speciale in calce al ricorso

per revocazione;

– ricorrente –

contro

INPS – ISTITUTO NAZIONALE DELLA PREVIDENZA SOCIALE in persona del

Presidente e legale rappresentante pro tempore, elettivamente

domiciliato in ROMA, VIA DELLA FREZZA 17, presso l’AVVOCATURA

CENTRALE DELL’ISTITUTO, rappresentato e difeso dall’avvocato DE RUVO

GAETANO, giusta procura speciale a margine del controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 7558/2009 della CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

del 23.2.09, depositata il 27/03/2009;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio

dell’8/04/2010 dal Consigliere Relatore Dott. FRASCA Raffaele;

udito per il ricorrente l’Avvocato Giorgio Vecchione che si riporta

agli scritti;

E’ presente il P.G. in persona del Dott. ANTONIETTA CARESTIA che

nulla osserva rispetto alla relazione scritta.

 

Fatto

RITENUTO IN FATTO

quanto segue:

1. L’istituto Nazionale di Previdenza dei Giornalisti Italiani Giovanni Amendola (I.N.P.G.I.) ha proposto ricorso per revocazione della sentenza di questa Corte n. 7558 del 27 marzo 2009, con la quale è stato accolto il ricorso proposto dall’I.N.P.S. nei suoi confronti avverso la sentenza resa inter partes in una controversia locativa di sfratto per morosità in grado d’appello dalla Corte d’Appello di Roma e disposto, previa cassazione di essa, il rinvio a detta Corte.

Al ricorso ha resistito l’I.N.P.S..

Il ricorso è soggetto alla disciplina delle modifiche al processo di cassazione, disposte dal D.Lgs. n. 40 del 2006, che si applicano ai ricorsi proposti contro le sentenze ed i provvedimenti pubblicati a decorrere dal 2 marzo 2006 compreso, cioè dalla data di entrata in vigore del d.lgs. (D.Lgs. n. 40 del 2006, art. 27, comma 2).

Essendosi ritenute sussistenti le condizioni per la decisione con il procedimento di cui all’art. 380 bis c.p.c., è stata redatta relazione ai sensi di tale norma, che è stata notificata agli avvocati delle parti e comunicata al Pubblico Ministero presso la Corte.

Parte ricorrente ha depositato memoria.

Diritto

CONSIDERATO IN DIRITTO

quanto segue:

1. Nella relazione ai sensi dell’art. 380 bis c.p.c. si sono svolte le seguenti considerazioni:

“…. 3. – Il ricorso appare inammissibile per due gradate ragioni.

3.1. – La prima è che esso non è rispettoso dell’art. 366 bis c.p.c., applicabile al ricorso in esame nonostante la sua avvenuta abrogazione da parte della L. n. 69 del 2009, tenuto conto che tale abrogazione, giusta il l’art. 58, comma 5 di essa non è efficace riguardo al ricorso, introdotto il 2 luglio 2009, cioè anteriormente all’entrata in vigore di detta legge.

3.2. – Ciò premesso, si rileva che la norma dell’art. 366 bis c.p.c. trovava applicazione anche al ricorso per revocazione, posto che il primo comma dell’art. 391 bis c.p.c. dice che il ricorso per revocazione è disciplinato dall’art. 365 c.p.c., e segg. ed in tale richiamo deve ritenersi compreso anche l’art. 366 bis c.p.c. E’, infatti, meramente suggestiva la prospettazione dottrinale che ha sostenuto l’incompatibilità dell’art. 366 bis c.p.c. con la formulazione del motivo di ricorso revocatorio della sentenza di cassazione ai sensi dell’art. 395 c.p.c., n. 4 perchè non si comprenderebbe come un quesito di diritto possa essere enunciato in riferimento all’errore di cui a detta norma, che è relativo all’erronea percezione di una risultanza di fatto. Detta prospettazione trascura, in realtà, di considerare che l’errore revocazione) ai sensi dell’art. 395 c.p.c., n. 4 è pur sempre un errore del giudice (anche quando viene compiuto dalla Corte di cassazione) relativo all’osservanza della legge processuale che, nel giudicare, gli impone (come emerge dagli artt. 112 e 115 c.p.c.) di considerare i fatti rilevanti nella loro esatta consistenza negli atti di causa e, quindi, gli vieta di supporti inesistenti se esistono in atti o di supporti esistenti se in atti non esistono. Si tratta, dunque, di un vizio che è riconducibile alla nozione di violazione di norme sul procedimento evocata dall’art. 360 c.p.c., n. 4 e che, dunque, se fosse compiuto da una sentenza ricorribile in Cassazione e non esistesse lo speciale mezzo di impugnazione del ricorso per revocazione, sarebbe deducibile ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 4. Ebbene, l’ontologica natura dell’errore revocatorio di fatto di violazione di norma sul procedimento, una volta considerato che l’art. 366 bis c.p.c. esige il quesito di diritto anche per il ricorso per Cassazione ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 4 e che il vizio previsto da tale norma, oltre che per erronea ricostruzione della norma processuale astratta e per erronea sussunzione di fattispecie (processuale) concreta ben ricostruita in fatto sotto di essa, può verificarsi anche quando il giudice nell’applicare la norma processuale non abbia considerato od abbia apprezzato erroneamente circostanze di fatto rilevanti per la sua applicazione, comporta che il quesito di diritto, così come deve essere formulato anche in questa ultima ipotesi (si veda, in termini, Cass. n. 13194 del 2008, a proposito di quesito per il regolamento di competenza su provvedimento ai sensi dell’art. 295 c.p.c.; adde, Cass. n. 4329 del 2009), bene è concepibile anche per l’errore revocatorio di fatto, che si distingue da tale ultima ipotesi solo perchè è errore di percezione e non di valutazione.

La particolarità della deduzione del quesito concernente la revocazione per errore di fatto è rappresentata soltanto dalla necessità di articolazione riassuntiva della questione posta alla Corte con il necessario riferimento al fatto supposto o negato erroneamente per errore di percezione e, quindi, con la succinta descrizione di siffatta erronea percezione.

Tali considerazioni consentono di comporre l’apparente dicotomia fra Cass. (ord.) n. 4640 del 2007 e Cass. (ord.) n. 5075 e (ord.) n. 5076 dall’altro, che parrebbero esigere la prima il quesito di diritto e le seconde la c.d. chiara indicazione, etc. a somiglianzà di quanto l’art. 366 bis c.p.c. correla alla deduzione del vizio di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5.

D’altro canto le Sezioni Unite hanno confermato la ricostruzione sopra sostenuta: Cass. sez. un. n. 26022 del 2008, infatti, ha statuito quanto segue: L’art. 366 bis c.p.c., introdotto dal D.Lgs. n. 40 del 2006, è applicabile anche al ricorso per revocazione, ai sensi dell’art. 391 bis c.p.c. avverso le sentenze della Corte di cassazione (pubblicate a decorrere dal 2 marzo 2006, data di entrata in vigore del detto d.lgs.), con la conseguenza che la formulazione del motivo deve risolversi nell’indicazione specifica, chiara ed immediatamente intelligibile, del fatto che si assume avere costituito oggetto dell’errore e nell’esposizione delle ragioni per cui l’errore presenta i requisiti previsti dall’ari. 395 c.p.c.”.

Poste queste premesse, il ricorso appare inammissibile, perchè i due motivi su cui si fonda non si concludono con la formulazione del quesito di diritto.

4. – In ogni caso, assunto il paradigma dell’art. 395 c.p.c., n. 4 entrambi i motivi non si presentano in alcun modo idonei ad essere ricondotti alla nozione dell’errore di fatto, cui allude l’art. 395 c.p.c., n. 4 e rinvia l’art. 391 bis c.p.c..

Invero, il primo motivo denuncia falsa percezione della realtà ai sensi dell’art. 395 c.p.c., n. 4 sotto il profilo che la sentenza, nell’indicare le conclusioni del Pubblico Ministero presso la Corte, le enuncia come postulanti l’accoglimento del ricorso e non, invece, il suo rigetto, come emergerebbe dal verbale di udienza. Il fatto erroneamente percepito sarebbe il tenore di tali conclusioni, ma l’assunto che tale tenore costituirebbe un fatto agli effetti dell’art. 395 c.p.c., n. 4 e segnatamente un fatto processuale (cioè inerente lo svolgimento del processo di cassazione) è privo di pregio, atteso che il fatto cui allude detta norma dev’essere un fatto che abbia svolto influenza ai fini della decisione e, quando si tratta di fatto processuale si deve trattare di fatto che, in ragione del modo di essere della sua regolamentazione normativa, sia suscettibile di assumere rilievo per la ritualità del giudizio.

Ebbene, ai sensi dell’art. 70 c.p.c., comma 2, il fatto processuale dell’intervento del Pubblico Ministero presso la Corte nel processo di cassazione assume rilievo soltanto nel senso che dev’essere assicurato l’intervento, per cui la sentenza di cassazione potrebbe essere affetta da errore di percezione dell’intervento del Pubblico Ministero solo se desse atto di tale intervento, mentre, in realtà, esso non vi sia stato. Il tenore delle conclusioni assunte dal Pubblico Ministero non è un fatto processuale che svolga di per sè un qualche rilievo in punto di ritualità del giudizio di cassazione, nel senso che ad esso non si ricollega alcun effetto nello svolgimento del processo di cassazione sul piano di un vincolo della Corte a decidere sulle conclusioni o a rispondere ad esse (essendovi, semmai, una ragione di opportunità, specie quando si tratti di conclusioni su questioni opinabili o se ne debba dissentire e sempre che il dissenso non emerga attraverso la risposta fornita alla prospettazione del ricorrente con i motivi o comunque a quanto su di essi si osservi). Si può semmai ipotizzare il caso estremo di una motivazione della sentenza di cassazione che, assunte conclusioni del pubblico ministero di un certo dettaglio, si limiti – del tutto impropriamente – a farle proprie senza aggiungere una qualche autonoma motivazione, che non sia quella da esse emergente: esempio:

il Pubblico Ministero ha concluso per l’accoglimento o il rigetto in base ad un certo precedente e la Corte si limita ad enunciare di condividere le conclusioni invocando il precedente, ma con esito invertito rispetto a quello postulato correttamente dal Pubblico Ministero.

Quello che viene denunciato nella specie come errore di fatto (in situazione nella quale, comunque, nessun riferimento in motivazione la sentenza reca alle conclusioni del Pubblico Ministero), in realtà, appare connotarsi soltanto come un mero errore materiale e la Corte, se lo riterrà possibile, per il tramite della conversione del ricorso in ricorso per correzione di errore materiale, potrà disporre la correzione della sentenza in modo che siano riportate le conclusioni esatte del Pubblico Ministero.

Quanto al secondo motivo, vi si deduce contrarietà della impugnata sentenza con precedente giudicato (art. 395 c.p.c., n. 5) ed esso appare inammissibile perchè la revocazione ai sensi dell’art. 391 bis c.p.c. non è ammessa per il motivo di cui all’art. 395 c.p.c., n. 5 (Cass. sez. un. n. 10867 del 2008) e, del resto, è da escludersi e nella specie non è nemmeno stato prospettato – che la contrarietà possa rivestire carattere di errore di fatto (in termini, sì vedano; Cass. sez. un. n. 23242 del 2005; Cass. n. 17443 del 2008, da ultimo).

Il ricorso, conclusivamente, parrebbe doversi dichiarare inammissibile.

2. Il Collegio condivide le argomentazioni e le conclusioni della relazione, le quali non sono in alcun modo infirmate dalle argomentazioni che parte ricorrente svolge nella memoria.

Riguardo a queste ultime il Collegio osserva quanto segue:

a) con riferimento alla valutazione di inammissibilità ai sensi dell’art. 366 bis c.p.c. relativa al primo motivo, l’assunto della memoria si risolve nell’attribuire la funzione di quesito di diritto ad una parte dell’esposizione del motivo (alla pagina cinque del ricorso), che risulta del seguente tenore: Con l’impugnata sentenza, infatti, è stato accolto il ricorso proposto dall’I.N.P.S. avverso la sentenza della Corte di Appello di Roma anche sull’erroneo presupposto che il Procuratore Generale avesse concluso per l’accoglimento dello stesso ricorso mentre, come si è detto, egli aveva invece concluso, così come il resistente I.N.P.G.I., per il rigetto enunciando anzi una serie di precedenti decisioni della stessa Corte a sostegno del proprio convincimento circa l’infondatezza di quanto dedotto dall’I.N.P.S. nel ricorso. Si verte quindi nella fattispecie nel caso tipicamente previsto dall’art. 395 c.p.c., n. 4 che giustifica il ricorso per revocazione da parte del ricorrente Istituto;

b) le riportate proposizioni – in disparte ogni rilievo sul fatto che l’attribuzione ad esse di rilevanza enunciativa del quesito si risolve nel desumere quest’ultimo per implicazione dall’illustrazione del motivo, piuttosto che in una ricognizione di collocazione topografica del quesito – non appaiono idonee ad enunciare il quesito, sia perchè la prima di esse è preceduta dalla preposizione anche , la quale, sottintendendo che la decisione sia dovuta anche ad altro, nega la stessa decisività de preteso tatto erroneamente percepito, sia perchè entrambe non indicano in alcun modo come detto atto abbia assunto un’efficacia tale che la decisione ne sia stata l’effetto, di modo che il quesito si risolverebbe bella mera affermazione astratta del paradigma dell’art. 395 c.p.c., n. 4;

c) con riferimento alla valutazione di inammissibilità relativa al secondo motivo, la memoria, postulando addirittura che il quesito sarebbe rappresentato da espressioni del tutto estrapolate dalla illustrazione del motivo, si scontra ancora di più con il principio per cui il quesito non può essere desunto per implicazione del motivo (si veda già Cass. (ord.) n. 16002 del 2007);

d) in ordine alla valutazione di inidoneità dei motivi ad essere ricondotti al detto paradigma, la memoria non si fa carico delle specifiche argomentazioni svolte dalla relazione, integralmente condivise dal Collegio, mentre aggiunge solo un rilievo che merita considerazione, cioè che, se le conclusioni del Pubblico Ministero fossero state quelle formalmente riportate nella sentenza impugnate, il qui ricorrente ed allora resistente avrebbe potuto presentare osservazioni scritte ai sensi dell’art. 379 c.p.c., u.c.: si tratta di argomento privo di valore, atteso che non è spiegato in alcun modo come e perchè il non aver beneficiato di quella possibilità dovrebbe indurre a ravvisare l’errore di cui all’art. 395 c.p.c., n. 4.

Il ricorso per revocazione è, dunque, dichiarato inammissibile.

Il Collegio non ritiene che vi siano le condizioni per intendere il ricorso come postulante una correzione degli errori materiali, perchè la direzione dell’impugnazione esperita non mira allo scopo di realizzare l’effetto ad essa connesso, ma a rimuovere la decisione impugnata.

Le spese del giudizio di cassazione seguono la soccombenza e si liquidano in dispositivo.

P.Q.M.

LA CORTE Dichiara inammissibile il ricorso. Condanna parte ricorrente alla rifusione al resistente delle spese del giudizio di cassazione, liquidate in Euro seimilaquattrocento/00, di cui duecento/00 per esborsi, oltre spese generali ed accessori come per legge.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Terza Civile, il 8 aprile 2010.

Depositato in Cancelleria il 14 maggio 2010

 

 

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