Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 11843 del 12/05/2017


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Cassazione civile, sez. trib., 12/05/2017, (ud. 26/04/2017, dep.12/05/2017),  n. 11843

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CHINDEMI Domenico – Presidente –

Dott. BOTTA Raffaele – Consigliere –

Dott. ZOSO Liana Maria Teresa – rel. Consigliere –

Dott. STALLA Giacomo – Consigliere –

Dott. CARBONE Enrico – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 880-2013 proposto da:

IMMOBILIARE VILLA LAURA SPA, elettivamente domiciliato in ROMA VIALE

PARIOLI 180, presso lo studio dell’avvocato GIANPAOLO RUGGIERO,

rappresentato e difeso dall’avvocato DOMENICO FATA;

– ricorrente –

contro

COMUNE DI BOLOGNA, elettivamente domiciliato in ROMA VIA EMANUELE

GIANTURCO 11, presso lo studio dell’avvocato RITA COLLELUORI, che lo

rappresenta e difende;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 85/2011 della COMM.TRIB.REG. di BOLOGNA,

depositata il 21/11/2011;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

26/04/2017 dal Consigliere Dett. LIANA MARIA TERESA ZOSO.

Fatto

ESPOSIZIONE DEI FATTI DI CAUSA

1. La società Immobiliare Villa Laura s.p.a. impugnava l’avviso di accertamento e di irrogazione delle sanzioni notificato dal Comune di Bologna il 3 aprile 2008 con riguardo alla maggiore Ici dovuta per l’anno 2005 in relazione ad un fabbricato rientrante nella categoria catastale D e privo di rendita. Sosteneva la ricorrente che, in attuazione della L. n. 342 del 2000, art. 74, comma 1, l’imposta calcolata sulla nuova rendita poteva essere richiesta solamente a decorrere dal 1 gennaio dell’anno successivo a quello della notifica della nuova rendita. La commissione tributaria provinciale di Bologna accoglieva il ricorso. Proposto appello da parte del Comune, la commissione tributaria regionale dell’Emilia-Romagna lo accoglieva sul rilievo che la Corte di cassazione a Sezioni Unite, con la sentenza numero 3160/2011, aveva risolto i precedenti contrasti giurisprudenziali inerenti la tassazione Ici degli immobili posseduti da imprese e distintamente contabilizzati stabilendo che la determinazione dell’imponibile, ai sensi del D.Lgs. n. 504 del 1992, art. 5 si applicava solo fino all’anno in cui la richiesta di attribuzione di rendita non era stata formulata, mentre dal momento in cui il proprietario aveva fatto la richiesta, pur applicando ormai in via precaria il metodo contabile, diventava titolare di una situazione giuridica nuova derivante dall’adesione al sistema generale della rendita catastale, sicchè poteva essere tenuto a pagare una somma maggiore (ove intervenisse un accertamento in tal senso) o del diritto di pagare una somma minore potendo, quindi, chiedere il relativo rimborso nei termini di legge. La C.T.R., poi, rigettava la richiesta di non applicazione delle sanzioni formulata nel corso del giudizio d’appello in quanto costituiva domanda nuova che non era stata sollevata nè nel ricorso introduttivo nè in quello d’appello.

2. Avverso la sentenza della CTR propone ricorso per cassazione la società Immobiliare Villa Laura s.p.a. formulando due motivi illustrati con memoria. Si è costituito in giudizio con controricorso il Comune di Bologna.

3. Con il primo motivo la ricorrente deduce violazione di legge, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, in relazione al D.Lgs. n. 546 del 1992, artt. 57 e 8 e nullità della sentenza, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 4, derivante da omessa pronuncia. Sostiene la ricorrente che il contrasto giurisprudenziale formatosi in ordine alla esigibilità della maggiore imposta accertata dalla data della notifica dell’atto di attribuzione della rendita oppure dal momento della domanda di attribuzione di rendita era stato risolto solamente con la sentenza della Cassazione a Sezioni Unite numero 3160 del 2011 sicchè era legittima la domanda di non applicazione delle sanzioni formulata all’udienza di discussione nel giudizio d’appello in data 24 ottobre 2011. La CTR non avrebbe potuto dichiarare l’inammissibilità della domanda poichè si trattava di una mera sollecitazione di avvalersi del potere attribuito dalla legge di escludere le sanzioni in caso di incertezza normativa. E ciò in quanto, nell’esplicazione del potere di disapplicare le sanzioni tributarie non penali ai sensi del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 8, il giudice tributario non è vincolato al principio della domanda ed, una volta che il contribuente abbia formulato l’istanza nel giudizio tributario, egli ha diritto alla corrispondente pronuncia sicchè, ove la commissione tributaria non provveda, la decisione è in tal caso impugnabile per omessa pronuncia per violazione del principio della corrispondenza tra chiesto e pronunciato.

4. Con il secondo motivo deduce violazione di legge, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, in relazione al D.Lgs. n. 546 del 1992, artt. 57 e 8, nonchè omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5. Sostiene la ricorrente che la CTR da un lato ha dato atto che il ricorrente aveva agito sulla base di una giurisprudenza di legittimità e di merito che era stata successivamente superata, dall’altro e contraddittoriamente non ha ritenuto di disapplicare le sanzioni.

Diritto

ESPOSIZIONE DELLE RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Osserva la Corte che il primo motivo di ricorso è infondato. Secondo l’orientamento ormai consolidato della Corte di legittimità, l’accertamento della sussistenza della oggettiva incertezza dell’interpretazione normativa, ai fini della disapplicazione delle sanzioni, può essere operata dal giudice tributario solo in presenza di domanda del contribuente (la quale non può, pertanto, essere formulata per la prima volta in sede di appello o in sede di legittimità (cfr. Cass. n. 4787 del 2017; Cass. nn. 22890/2006; Cass. 25676 del 2008; Cass. 7502/2009; Cass. 8823 e 4031 del 2012; Cass. 24060 del 2014; Cass. 440 e 9335 del 2015). Nella fattispecie, detta richiesta è stata pacificamente formulata, per la prima volta, in appello dalla società contribuente. Va, quindi, richiamato il consolidato principio, in virtù del quale l’inosservanza del divieto di introdurre una domanda nuova in appello (o un’eccezione nuova non rilevabile d’ufficio), ai sensi dell’art. 345 c.p.c. e, per il giudizio tributario, del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 57, e, correlativamente, dell’obbligo del giudice di secondo grado di non esaminare nel merito tale domanda è rilevabile d’ufficio in sede di legittimità, poichè costituisce una preclusione all’esercizio della giurisdizione, che può essere verificata nel giudizio di cassazione, anche d’ufficio, non rilevando in contrario neppure che l’appellato abbia accettato il contraddittorio sulla domanda anzidetta (Cass. nn. 11202 del 2003, 12417 e 19605 del 2004, 28302 del 2005). In relazione al potere delle Commissioni tributarie di dichiarare l’inapplicabilità delle sanzioni, in caso di obiettive condizioni di incertezza sulla portata e sull’ambito di applicazione delle norme alle quali la violazione si riferisce, potere conferito dal D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 8 e ribadito, con più generale portata, dal D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 472, art. 6, comma 2, e quindi dal D.Lgs. 27 luglio 2000, n. 212, art. 10, comma 3, la ricorrente ribadisce che la disapplicazione delle sanzioni costituisce un potere-dovere delle Commissioni tributarie, esercitabile (in ogni stato e grado) non solo su istanza di parte ma anche d’ufficio. L’assunto non è meritevole di accoglimento. Ciò in quanto, in ragione del fatto che l’incertezza sulla corretta applicazione delle norme sussisteva già prima della pronuncia da parte delle Sezioni Unite, non vi è motivo per discostarsi dal principio già affermato secondo cui la disapplicazione da parte del giudice delle sanzioni per violazioni di norme tributarie, qualora abbia accertato che le stesse sono state commesse in presenza ed in connessione con una situazione di oggettiva incertezza nell’interpretazione normativa, è possibile, anche in sede di legittimità, solo se domandata dal contribuente nei modi e nei termini processuali appropriati (Cass. n. 14402/2016 e Cass. 24060/2014).

6. Il secondo motivo è inammissibile in quanto risulta formulato con riferimento all’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5 laddove, nel ricorso per cassazione, non è ammessa la mescolanza e la sovrapposizione di mezzi d’impugnazione eterogenei, facenti riferimento alle diverse ipotesi contemplate dall’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, non essendo consentita la prospettazione di una medesima questione sotto profili incompatibili, quali quello della violazione di norme di diritto, che suppone accertati gli elementi del fatto in relazione al quale si deve decidere della violazione o falsa applicazione della norma, e del vizio di motivazione, che quegli elementi di fatto intende precisamente rimettere in discussione; o quale l’omessa motivazione, che richiede l’assenza dì motivazione su un punto decisivo della causa rilevabile d’ufficio, e l’insufficienza della motivazione, che richiede la puntuale e analitica indicazione della sede processuale nella quale il giudice d’appello sarebbe stato sollecitato a pronunciarsi, e la contraddittorietà della motivazione, che richiede la precisa identificazione delle affermazioni, contenute nella sentenza impugnata, che si porrebbero in contraddizione tra loro. Infatti, l’esposizione diretta e cumulativa delle questioni concernenti l’apprezzamento delle risultanze acquisite al processo e il merito della causa mira a rimettere al giudice di legittimità il compito di isolare le singole censure teoricamente proponibili, onde ricondurle ad uno dei mezzi d’impugnazione enunciati dall’art. 360 c.p.c., per poi ricercare quale o quali disposizioni sarebbero utilizzabili allo scopo, così attribuendo, inammissibilmente, al giudice di legittimità il compito di dare forma e contenuto giuridici alle lagnanze del ricorrente, al fine di decidere successivamente su di esse (cfr. Cass. n. 21611 del 20/09/2013; Cass. n. 19443 del 23/09/2011).

6. Il ricorso va, dunque, rigettato e le spese processuali, liquidate come da dispositivo, seguono la soccombenza.

PQM

La corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente a rifondere al Comune di Bologna le spese processuali che liquida in Euro 2300,00, oltre al rimborso delle spese forfettarie nella misura del 15% ed oltre agli accessori di legge.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 26 aprile 2017.

Depositato in Cancelleria il 12 maggio 2017

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