Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 11840 del 18/06/2020

Cassazione civile sez. II, 18/06/2020, (ud. 14/05/2019, dep. 18/06/2020), n.11840

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MANNA Felice – Presidente –

Dott. SAN GIORGIO Maria Rosaria – rel. Consigliere –

Dott. BELLINI Ubaldo – Consigliere –

Dott. SCALISI Antonino – Consigliere –

Dott. SCARPA Antonio – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 26992/2015 proposto da:

S.C., elettivamente domiciliato in ROMA, PIAZZALE DELLE

BELLE ARTI, 6, presso lo studio dell’avvocato ANDREA PALAZZOLO,

rappresentato e difeso dall’avvocato GIOVANNI SARDELLA;

– ricorrente –

contro

D.N.L., elettivamente domiciliato in ROMA, V. VAL D’OSSOLA

25, presso lo studio dell’avvocato GABRIELE LEONTI, rappresentato e

difeso dall’avvocato CRISTIANO LEONARDI;

– controricorrente –

e contro

T.F., D.N.G., C.O.;

– intimati –

avverso la sentenza n. 1309/2014 della CORTE D’APPELLO di CATANIA,

depositata il 08/10/2014;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

14/05/2019 dal Consigliere Dott. MARIA ROSARIA SAN GIORGIO.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1.- D.N.L. convenne in giudizio gli eredi del titolare dell’impresa individuale T.G., D., F., To.Fr. e Ca.Ma.El., nonchè il titolare dell’impresa individuale C.O. e l’arch. S.C., esponendo di essere proprietaria di tre appartamenti in Siracusa che aveva riportato danni a seguito del sisma del 1990; che, con contratto del 4 ottobre 1996, aveva affidato, sulla base del progetto elaborato dall’arch. S., le opere di adeguamento sismico, manutenzione straordinaria e ristrutturazione degli appartamenti all’impresa edile di T.G., cui poi era subentrata quella di C.O.; che poi, temendo che i lavori non fossero stati eseguiti a regola d’arte, aveva chiesto un accertamento tecnico preventivo, e, stante l’esito dello stesso, aveva proceduto, con atto dichiaratorio del 9 ottobre 2000, alla denuncia dei vizi accertati dal ctu ai predetti titolari delle imprese esecutrici dei lavori ed al progettista e direttore dei lavori arch. S., denuncia cui il solo C. aveva dato riscontro. Tanto premesso, la signora D.N. chiese all’adito Tribunale di Siracusa che accertasse la responsabilità dei convenuti ex art. 1669 c.c. e del S. anche ai sensi dell’art. 2226 c.c., e li condannasse in solido alla eliminazione dei vizi ed al risarcimento dei danni nella misura di Euro 500.000,00, pari al costo delle riparazioni, nonchè dei danni conseguenti alla mancata utilizzazione degli immobili.

Si costituirono nel giudizio l’arch. S. e C.O., e, con comparsa di intervento volontario, D.N.G., quale comproprietario degli immobili. In sede di precisazione delle conclusioni l’attrice rinunziò alla domanda di eliminazione dei vizi, tenendo ferma quella di risarcimento dei danni.

Il Tribunale adito, con sentenza in data 25 febbraio 2008, dichiarò la responsabilità dell’impresa T.G. e del direttore dei lavori, arch. S. per i vizi riscontrati nelle opere dagli stessi realizzate presso gli immobili di proprietà dell’attrice, e condannò T.D., F., Fr. e M.E., quali eredi di T.G., e S.C., in solido tra loro, al risarcimento dei danni in favore di D.N.L. nella misura di Euro 150.000,00, ed in favore di D.N.G. nella misura di Euro 70.000,00; dichiarò altresì la responsabilità di C.O., condannandolo al pagamento, a titolo di risarcimento dei danni, di Euro 4956,87 in favore di D.N.L..

2.- Il S. propose appello, per quanto ancora rileva nella presente sede, ritenendo non applicabile nella specie l’art. 1669 c.c., in quanto le opere progettate ed eseguite avevano riguardato non la costruzione di un immobile ma la manutenzione straordinaria, l’adeguamento sismico e la riparazione di un edificio preesistente.

La Corte d’appello di Catania ritenne la legittimazione attiva di D.N.L. e G. in relazione all’azione risarcitoria nei confronti del professionista legittimazione contestata dall’appellante alla luce della circostanza che l’incarico di redazione del progetto gli era stato conferito dalla usufruttuaria degli immobili, B.M.E. – in quanto fondata sull’accordo successivo all’originario contratto e relativo ad ulteriori lavori progettuali stipulato anche dalla D.N., e comunque sull’art. 1669 c.c., disciplinante un’azione di natura extracontrattuale, esperibile anche dal proprietario dell’immobile ed anche nei confronti del progettista che abbia concorso a cagionare il danno.

Ciò posto, la Corte di merito rigettò il gravame, osservando che il grave difetto di costruzione che legittima l’applicabilità dell’art. 1669 c.c., può consistere in qualsiasi alterazione conseguente alla imperfetta esecuzione dell’opera che pregiudichi in modo considerevole il normale godimento dell’immobile, includendosi in tale ambito anche l’accertata inefficienza dell’impianto idrico e le rilevati carenze strutturali dipendenti da inidonea progettazione. Ciò che fonda il discrimine tra la disciplina dell’art. 1669, comportante la responsabilità extracontrattuale dell’appaltatore, e quella posta dagli artt. 1667 e 1668, in tema di garanzia per i vizi dell’opera, è la tipologia del difetto, che, se tale da pregiudicare in maniera apprezzabile il normale godimento dell’immobile, ricade nell’ambito di applicazione dell’art. 1669 c.c..

Nella specie erano state accertate deficienze costruttive implicanti grave pregiudizio igienico-sanitario e statico dell’edificio e tali da richiedere un nuovo intervento di ristrutturazione e adeguamento sismico previa demolizione delle opere in precedenza realizzate. Ne conseguiva l’applicabilità del richiamato art. 1669 c.c..

3.- Per la cassazione di tale sentenza ricorre l’arch. S.C. sulla base di un unico, articolato motivo, illustrato anche da successiva memoria. Resiste con controricorso D.N.L..

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1.- Deve preliminarmente essere esaminata la eccezione, sollevata dalla controricorrente, di inammissibilità del ricorso per tardività in quanto non notificato nei termini di cui all’art. 327 c.p.c., nella formulazione vigente ratione temporis. Deduce la signora D.N. che detto termine, essendo stata la sentenza impugnata, non notificata, pubblicata in data 8 ottobre 2014, sarebbe scaduto in data 22 novembre 2015, mentre il ricorso è stato notificato al procuratore della stessa nel domicilio eletto con iter avviato solo in data 1 dicembre 2015 mediante consegna all’UNEP e perfezionatosi lo stesso giorno. Nessuna efficacia esimente, secondo la controricorrente, potrebbe attribuirsi alla circostanza che la notifica valida sia stata preceduta da un tentativo che, pur avviato in pendenza del termine di impugnazione, non si era perfezionato a causa della errata indicazione del luogo richiesto per l’esecuzione della notifica, in quanto la variazione di indirizzo del domiciliatario della controricorrente, avv. Cristiano Leonardi, dalla (OMISSIS), nella stessa città di Catania, era stata tempestivamente comunicata all’Ordine professionale di appartenenza e risultava dal relativo Albo, accessibile a chiunque mediante consultazione telematica.

2. – La eccezione non è meritevole di accoglimento.

Emerge dagli atti che il primo ricorso era stato notificato, tempestivamente, il 4 novembre 2015. Tale notifica non era andata a buon fine per l’avvenuto trasferimento dello studio dell’avv. Leonardi. Ricevuto, in data 30 novembre 2015, l’originale della notifica dagli ufficiali giudiziari, il giorno successivo era stato ripreso, e completato, il procedimento notificatorio presso il nuovo recapito professionale dell’avv. Leonardi, che era privo di poteri procuratori nel giudizio di appello, essendo il difensore della attuale controricorrente nel giudizio di secondo grado l’avv. Mario Vaccarella, il quale svolgeva le sue funzioni nel circondario di Siracusa.

Al riguardo, questa Corte a Sezioni Unite (sent. n. 14594 del 2016) ha avuto modo di affermare che, in caso di notifica di atti processuali non andata a buon fine per ragioni non imputabili al notificante, questi, appreso dell’esito negativo, per conservare gli effetti collegati alla richiesta originaria deve riattivare il processo notificatorio con immediatezza e svolgere con tempestività gli atti necessari al suo completamento, ossia senza superare il limite di tempo pari alla metà dei termini indicati dall’art. 325 c.p.c., salvo circostanze eccezionali di cui sia data prova rigorosa, come, nella specie, è puntualmente stato fatto.

Nè può dubitarsi della sussistenza, nella specie, del presupposto che, alla stregua della richiamata pronuncia delle Sezioni Unite, è necessario per poter procedere in maniera valida alla nuova notifica dopo il fallimento della prima, e cioè che quest’ultima non sia andata a buon fine “per ragioni non imputabili al notificante”.

Anche in questo caso soccorre l’orientamento della giurisprudenza di legittimità, secondo il quale, qualora risulti il trasferimento del difensore domiciliatario della parte destinataria della notifica, al fine di stabilire se il mancato perfezionamento della notifica sia imputabile al notificante, occorre distinguere a seconda che il difensore al quale viene effettuata detta notifica eserciti o meno la sua attività nel circondario del tribunale dove si svolge la controversia, essendo nella prima ipotesi onere del notificante accertare, anche mediante riscontro delle risultanze dell’albo professionale, quale sia l’effettivo domicilio del difensore, a prescindere dalla comunicazione, da parte di quest’ultimo, nell’ambito del giudizio, del successivo mutamento. (Cass., sentt. n. 15056 del 2018, n. 20527 del 2017). Nella specie, si versa, invero, nel secondo caso, esercitando l’avv. Vaccarella, come già precisato, in altro circondario. Ne consegue che la notifica del ricorso deve ritenersi tempestiva.

3.- Il ricorrente denuncia il vizio di violazione o falsa applicazione dell’art. 1669 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per la inapplicabilità della richiamata disposizione codicistica all’attività di riparazione e manutenzione, non costituente attività costruttiva, ed alla ipotesi di preesistenza del vizio allo svolgimento dell’attività in questione. Avrebbe errato la Corte etnea nel ritenere che l’unica condizione necessaria e sufficiente a determinare la responsabilità ex art. 1669 c.c., consista nella gravità del vizio, idoneo a pregiudicare il godimento dell’immobile, a prescindere dalla valutazione della natura dell’attività svolta, escludendo, quindi, che il danno debba comunque trovare la sua radice eziologica in un’attività di costruzione di un immobile, laddove, secondo il ricorrente, la disposizione evocata non potrebbe trovare applicazione con riferimento ad opere di mera riparazione o modificazione di preesistenti edifici o altri immobili destinati a lunga durata, alle quali si applicherebbe, in presenza delle condizioni prescritte, la disciplina della responsabilità dell’appaltatore per difformità o vizi dell’opera ai sensi dell’art. 1667 c.c.. Nella specie, l’oggetto dell’incarico conferito all’attuale ricorrente pacificamente consisteva nelle opere di ristrutturazione, adeguamento antisismico e manutenzione straordinaria da svolgere nei tre appartamenti di proprietà della D.N., facenti parte di un edificio di vecchia costruzione, e, pertanto, non sussumibili nell’ambito dell’art. 1669 c.c.. Per di più, la disciplina recata dalla disposizione in esame avrebbe illegittimamente trovato applicazione, nella specie, con riferimento ad un vizio non solo preesistente all’attività demandata all’appaltatore, ma la cui eziologia era stata individuata dalla stessa committente negli eventi sismici del 1990.

La inapplicabilità nella specie dell’art. 1669 c.c., secondo il ricorrente, comporterebbe poi la illegittimità della decisione impugnata con riferimento ai motivi di appello attinenti al difetto di legittimazione attiva di D.N.L. e G., per avere egli ricevuto l’incarico dalla sola usufruttuaria degli appartamenti di cui si tratta, signora B.M.E., motivi rigettati dalla Corte territoriale alla stregua del rilievo che nell’ambito dell’art. 1669 c.c., la legittimazione del proprietario trova sicuro fondamento. Infine, l’accoglimento della censura del ricorrente determinerebbe la cassazione della sentenza impugnata anche nella parte relativa alla quantificazione del danno ex art. 1669 c.c., ed alla porzione di responsabilità ai sensi della stessa disposizione ascrivibile alla condotta dell’arch. S..

4. – La doglianza non coglie nel segno.

4.1. – Il ricorrente ripropone la questione, già affrontata nel giudizio di merito, della latitudine della disposizione codicistica che pone a carico dell’appaltatore la responsabilità nei confronti del committente nel caso in cui, trattandosi di edifici o di altre cose immobili destinate per loro natura a lunga durata, l’opera, per vizio del suolo o per difetto della costruzione, rovini in tutto o in parte, ovvero presenti evidente pericolo di rovina o gravi difetti.

La tesi esposta nel ricorso si sostanzia nell’affermazione che, ove l’opera commissionata all’appaltatore consista non già nella costruzione di un edificio o di altro immobile destinato per sua natura a lunga durata, ma nella mera riparazione o modificazione di preesistenti immobili, non sarebbe configurabile la responsabilità ex art. 1669 c.c..

4.2. – Sulla questione se l’art. 1669 c.c., trovi applicazione anche alle ristrutturazioni immobiliari, ovvero solo nelle ipotesi di nuove costruzioni e di ricostruzione o costruzione di una nuova parte dell’immobile, era emerso nella giurisprudenza di legittimità un contrasto che ha trovato composizione con la sentenza delle Sezioni Unite n. 7756 del 2017, la quale ha enunciato il seguente principio di diritto:” L’art. 1669 c.c., è applicabile, ricorrendone tutte le altre condizioni, anche alle opere di ristrutturazione edilizia e, in genere, agli interventi manutentivi o modificativi di lunga durata su immobili preesistenti, che (rovinino o) presentino (evidente pericolo di rovina o) gravi difetti incidenti sul godimento e sulla normale utilizzazione del bene, secondo la destinazione propria di quest’ultimo”.

4.2.1. – Le Sezioni Unite hanno, così sentenziando, superato l’orientamento espresso in particolare dalla Seconda Sezione civile della Corte di Cassazione con la sentenza n. 24143 del 2007, riferita ad un caso di opere di impermeabilizzazione e pavimentazione del terrazzo condominiale di un edificio preesistente, in cui si era osservato che l’art. 1669 c.c., delimita con una certa evidenza il suo ambito di applicazione alle opere aventi ad oggetto la costruzione di edifici o di altri beni immobili di lunga durata, ivi inclusa la sopraelevazione di un fabbricato preesistente, di cui ravvisa la natura di costruzione nuova ed autonoma, e non si estende anche alle modificazioni o alle riparazioni apportate ad un edificio o ad altre preesistenti cose immobili, da identificare a norma dell’art. 812 c.c.. A tale conclusione era pervenuta la Corte attraverso l’interpretazione letterale della norma, laddove questa “raccorda il termine “opera” a quello di “edifici o di altre cose immobili, destinate per loro natura a lunga durata”, per poi connettere e disciplinare le conseguenze dei vizi costruttivi della medesima opera, così significando che la costruzione di un edificio o di altra cosa immobile, destinata per sua natura a lunga durata, costituisce presupposto e limite di applicazione della responsabilità prevista in capo all’appaltatore”. Sicchè, ove non ricorra la ipotesi di costruzione di un edificio o di altre cose immobili di lunga durata, ma un’opera di mera riparazione o modificazione su manufatti preesistenti, non sarebbe applicabile l’art. 1669 c.c., ma, ricorrendone le condizioni, troverebbero applicazione le norme sulla garanzia ex art. 1667 c.c..

In contrasto con tale interpretazione, la sentenza n. 22553 del 2015, sempre della Seconda sezione civile, aveva ritenuto che risponde ai sensi dell’art. 1669 c.c., anche l’autore di opere realizzate su di un edificio preesistente, allorchè queste incidano sugli elementi essenziali dell’immobile o su elementi secondari rilevanti per la funzionalità globale. Nella fattispecie che aveva dato luogo alla citata pronuncia, le opere avevano riguardato lavori di straordinaria manutenzione presso uno stabile condominiale, consistiti nel rafforzamento dei solai e delle rampe delle scale (queste ultime ricostruite completamente). Siffatto orientamento muove dalla considerazione che la lettura della norma giustifica una diversa impostazione ermeneutica, “perchè non a caso il legislatore discrimina tra “edificio o altra cosa immobile destinata a lunga durata”, da un lato, e “opera”, dall’altro. L’opera cui allude la norma non si identifica necessariamente con l’edificio o con la cosa immobile destinata a lunga durata, ma ben può estendersi a qualsiasi intervento, modificativo o riparativo, eseguito successivamente all’originaria costruzione dell’edificio, con la conseguenza che anche il termine “compimento”, ai fini della delimitazione temporale decennale della responsabilità, ha ad oggetto non già l’edificio in sè considerato, bensì l’opera, eventualmente realizzata successivamente alla costruzione dell’edificio”. Ha osservato, inoltre, la Corte nella richiamata sentenza che “l’etimologia del termine “costruzione” non necessariamente deve essere ricondotta alla realizzazione iniziale del fabbricato, ma ben può riferirsi alle opere successive realizzate sull’edificio pregresso, che abbiano i requisiti dell’intervento costruttivo”. Ne consegue, secondo la stessa sentenza, che anche “gli autori di tali interventi di modificazione o riparazione possono rispondere ai sensi dell’art. 1669 c.c., allorchè le opere realizzate abbiano una incidenza sensibile sugli elementi essenziali delle strutture dell’edificio ovvero su elementi secondari od accessori, tali da compromettere la funzionalità globale dell’immobile stesso”.

4.2.2. – A quest’ultimo, meno restrittivo orientamento hanno aderito le Sezioni Unite con la richiamata pronuncia del 2017, sulla base di ragioni di interpretazione storico-evolutiva, letterale e teleologica, chiarendo anzitutto che anche opere più limitate, aventi ad oggetto riparazioni straordinarie, ristrutturazioni, restauri o altri interventi di natura immobiliare, possono rovinare o presentare evidente pericolo di rovina del manufatto, tanto nella porzione riparata o modificata, quanto in quella diversa e preesistente che ne risulti altrimenti coinvolta per ragioni di statica.

Ma, soprattutto, l’attenzione delle Sezioni Unite si è soffermata sull’ipotesi dei “gravi difetti”, rilevando che già in passato la giurisprudenza di questa Corte, pur non esaminando in maniera immediata e consapevole la questione in esame, si era occupata dell’art. 1669 c.c., presupponendone (per difetto di contrasto fra le parti o per altre ragioni) l’applicabilità anche in riferimento ad opere limitate, pervenendo a soluzioni applicative di detta norma che prescindevano dalla necessità logica di un’edificazione ab imo o di una costruzione ex novo: erano stati inquadrati nell’ambito della norma in oggetto i gravi difetti riguardanti la pavimentazione interna ed esterna di una rampa di scala e di un muro di recinzione (sentenza n. 2238/12); opere di pavimentazione e di impiantistica (n. 1608/00); infiltrazioni d’acqua, umidità nelle murature e in generale problemi rilevanti d’impermeabilizzazione (nn. 84/13, 21351/05, 117/00, 4692/99, 2260/98, 2775/97, 3301/96, 10218/94, 13112/92, 9081/92, 9082/91, 2431/86, 1427/84, 6741/83, 2858/83, 3971/81, 3482/81, 6298/80, 4356/80, 206/79, 2321/77, 1606/76 e1622/72); un ascensore panoramico esterno ad un edificio (n. 20307/11); l’inefficienza di un impianto idrico (n. 3752/07); l’inadeguatezza recettiva d’una fossa biologica (n. 13106/95); l’impianto centralizzato di riscaldamento (nn. 5002/94, 7924/92, 5252/86 e 2763/84); il crollo o il disfacimento degli intonaci esterni dell’edificio (nn. 6585/86, 4369/82 e 3002/81, 1426/76); il collegamento diretto degli scarichi di acque bianche e dei pluviali discendenti con la condotta fognaria (n. 5147/87); infiltrazioni di acque luride (n. 2070/78).

In tutte le ipotesi indicate dalle Sezioni Unite era del tutto indifferente che i gravi difetti riguardassero una costruzione interamente nuova ovvero edificata precedentemente, essendosi, invece, indagato l’aspetto funzionale del prodotto conseguito.

Le Sezioni Unite hanno altresì sottolineato il superamento della originaria visione dell’art. 1669 c.c., come norma di protezione dell’incolumità pubblica, valorizzando la non meno avvertita esigenza che l’immobile possa essere goduto ed utilizzato in maniera conforme alla sua destinazione.

Completano e confermano la validità di tale esito ermeneutico, secondo il supremo collegio, l’irrazionalità (non conforme ad un’interpretazione costituzionalmente orientata) di un trattamento diverso tra fabbricazione iniziale e ristrutturazione edilizia, questa non diversamente da quella potendo essere foriera dei medesimi gravi pregiudizi; e la pertinente osservazione (v. la richiamata sentenza n. 22553/15) per cui costruire, nel suo significato corrente (oltre che etimologico) implica non l’edificare per la prima volta e dalle fondamenta, ma l’assemblare tra loro parti convenientemente disposte (cum struere, cioè ammassare insieme).

4.3. – Sulla scia della richiamata sentenza delle Sezioni Unite n. 7756 del 2017, la successiva sentenza della Seconda Sezione 18891 dello stesso anno ha ritenuto che anche il venditore che, sotto la propria direzione e controllo, abbia fatto eseguire sull’immobile successivamente alienato opere di ristrutturazione edilizia ovvero interventi manutentivi o modificativi di lunga durata, che rovinino o presentino gravi difetti, ne risponde nei confronti dell’acquirente ai sensi dell’art. 1669 c.c..

4.4. – Nella specie, la Corte di merito, nell’esercizio dei poteri spettanti al giudice del merito, ha ritenuto essere state accertate nelle opere realizzate, attraverso gli espletati accertamenti tecnici d’ufficio, gravi difetti nelle opere appaltate, tali da comprometterne la funzionalità e pregiudicare il godimento dell’immobile sì da richiedere un nuovo intervento di ristrutturazione e adeguamento sismico previa demolizione delle stesse opere già realizzate. Pertanto, alla luce del principio espresso dalla illustrata sentenza delle Sezioni Unite n. 7756 del 2017, non vi è dubbio sull’applicabilità, nella specie, dell’art. 1669 c.c..

5. – Restano assorbite dal rigetto dell’esaminato profilo di censura le ulteriori doglianze, che costituiscono mero precipitato della interpretazione restrittiva dell’art. 1669 c.c., che, per quanto fin qui esposto, va disattesa.

6. – Conclusivamente, il ricorso deve essere rigettato, ed il ricorrente condannato al pagamento delle spese processuali, quantificate come in dispositivo. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, si dà atto che sussistono i presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma del medesimo art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

PQM

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio, che liquida in complessivi Euro 5600,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00, ed agli accessori di legge. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del medesimo art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Seconda Civile, il 14 maggio 2019.

Depositato in Cancelleria il 18 giugno 2020

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