Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 11804 del 05/05/2021

Cassazione civile sez. III, 05/05/2021, (ud. 14/12/2020, dep. 05/05/2021), n.11804

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. FRASCA Raffaele – Presidente –

Dott. OLIVIERI Stefano – Consigliere –

Dott. FIECCONI Francesca – Consigliere –

Dott. VALLE Cristiano – rel. Consigliere –

Dott. MOSCARINI Anna – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso n. 31222/2018 proposto da:

Vita S.r.l., in persona del legale rappresentante in carica,

elettivamente domiciliato in Roma, alla via F. Confalonieri n. 5

presso lo studio dell’avvocato Ronchini Enrico, che lo rappresenta e

difende;

– ricorrente –

contro

Roma 26 Costruzioni S.r.l., in persona del legale rappresentante in

carica, elettivamente domiciliato in Roma, alla via L. Caro n. 62

presso lo studio dell’avvocato Ciccotti Simone, che lo rappresenta e

difende;

– controricorrente –

Avverso la sentenza n. 1860/2018 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 23/03/2018;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

14/12/2020 dal consigliere relatore Dott. Cristiano Valle, osserva

quanto segue.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

I) La Vita S.r.l. convenne in giudizio dinanzi al Tribunale di Roma, sezione distaccata di Ostia, la Roma 26 Costruzioni S.r.l., deducendo di avere concluso con la detta società un contratto a mezzo del quale le era conferito l’incarico di promuovere la vendita di porzioni immobiliari di un centro residenziale e commerciale sito in (OMISSIS), ed affermava che il comportamento omissivo della società convenuta non le aveva consentito di adempiere l’incarico e chiedeva, quindi, la condanna della Roma 26 Costruzioni S.r.l. al risarcimento dei danni derivanti sia dalle mancate provvigioni sulla vendita delle unità immobiliari e dall’espletamento di attività pubblicitaria, nonchè da lesione dell’immagine commerciale.

I.1) Nel contraddittorio con la Roma 26 Costruzioni S.r.l. il Tribunale rigettò la domanda, con compensazione delle spese di lite.

I.2) La Vita S.r.l. ripropose la domanda di risarcimento dei danni in appello e la Corte territoriale ha riformato la sentenza di primo grado, riconoscendole il danno emergente in misura di Euro tremiladuecentoventiquattro, pari a quanto speso dalla società per la pubblicità degli immobili della Roma 26 Costruzioni S.r.l., e ha rigettato la domanda con riferimento al danno all’immagine e comunque alla credibilità commerciale, ritenendolo non provato, e quello da lucro cessante, per insussistenza degli elementi costitutivi, con compensazione delle spese del grado.

I.3) La Vita S.r.l. propone due motivi di ricorso avverso sentenza della Corte di Appello di Roma.

I.4) Resiste con controricorso la S.r.l. Roma 26 Costruzioni.

I.5) Il P.G. non ha formulato conclusioni.

I.6) La sola parte controricorrente ha depositato memoria nell’imminenza dell’adunanza camerale.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

II) La Vita S.r.l. censura come segue la sentenza d’appello.

II.1) Il primo motivo è formulato ai sensi dell’art. 329 c.p.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, e si rivolge avverso la motivazione della sentenza d’appello, laddove la Corte territoriale “ha rilevato l’intempestività della produzione documentale, negando il risarcimento del danno da lucro cessante, in virtù del tardivo deposito del documento attestante l’iscrizione del legale rappresentante della Vita S. r.l. all’Albo o al Ruolo dei mediator”.

II.2) Il secondo motivo è proposto ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 e verte sulla mancata disamina del documento di iscrizione, della Vita S.r.l., all’Albo dei mediatori.

II.1.1) Il primo motivo è inammissibile.

Parte ricorrente, nelle ultime tre righe della pagina 1 e nelle prime 4 della pagina 2, sostiene di non aver voluto produrre gli atti ed i documenti su cui il ricorso si fonda, così intendendo riferirsi all’obbligo di cui all’art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4 e lo giustifica invocando giurisprudenza nomofilattica (Sez. U n. 22726 del 2011), ossia affermando di voler fare affidamento sulla presenza dei detti atti e documenti, che dice “contenuti nel fascicolo d’ufficio e nei fascicoli di parte ivi inseriti”, precisando di avere fatto l’istanza di trasmissione (del fascicolo di ufficio) di cui all’art. 369, u.c..

La difesa della parte ricorrente omette, tuttavia, di rilevare che la sentenza delle Sez. U n. 22726 del 03/11/2011, da essa richiamata, ha inteso esentare la parte dall’onere di produrre atti e documenti facendo riferimento alla loro presenza nel fascicolo d’ufficio, così esentandosi dall’onere di cui al citato art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4 ma ha rimarcato che resta fermo l’onere di cui all’art. 366 c.p.c., n. 6, cioè quello di indicazione specifica di atti e documenti e tanto implica che si debba ottemperare sia all’onere di riproduzione diretta od indiretta del contenuto dei detti atti e documenti, sia all’onere di localizzarli in sede di legittimità e, dunque, nel fascicolo d’ufficio cui si dichiara di fare riferimento ed eventualmente, nel suo interno, nei fascicoli di parte, se l’atto o il documento si assuma ivi inserito.

Ciò posto, il motivo si fonda sulla sentenza di primo grado, là dove essa avrebbe affermato che non sarebbe stata idonea a dar luogo all’applicazione dell’art. 329 c.p.c., ossia ad acquiescenza, per mancata impugnazione, ma di tale sentenza riproduce il passo rilevante nell’esposizione del fatto (e lo si riprende soltanto nel motivo), ma non ne offre la localizzazione, in quanto non precisa se si sia inteso fare riferimento alla sua presenza in copia direttamente nel fascicolo d’ufficio (evidentemente depositata come duplice copia ai sensi dell’art. 72 disp. att. c.p.c. ed inserita dal cancelliere), oppure alla sua presenza nel proprio fascicolo di parte (della società ricorrente), che, rivestendo la qualifica di appellante nel giudizio di appello, era onerata del deposito ai sensi dell’art. 347 c.p.c., comma 2. Tantomeno la Vita S.r.l. offre localizzazione del documento, inerente all’iscrizione all’Albo dei mediatori, e della conclusionale con cui venne depositato.

II.1.2) In via gradata, il motivo ove scrutinabile, è infondato, atteso che esattamente la sentenza impugnata ha ritenuto che l’affermazione del Tribunale sull’irritualità della produzione fosse una ragione del decidere (ratio decidendi) ulteriore, e comunque tendente ad escludere la debenza del danno da lucro cessante, nel presupposto di una qualificazione della mediazione come atipica.

Deve considerarsi, inoltre, che parte ricorrente con il proprio appello non aveva – almeno così pare sulla base di quanto di detto atto riportato – inteso prospettare che il documento recante l’iscrizione fosse producibile in appello sul presupposto della sua indispensabilità e, del resto, non avendo articolato appello sul punto, sarebbe stato contraddittorio dedurlo.

La Vita S.r.l. tanto sostiene nella parte finale del motivo, ma – a prescindere da quanto appena rilevato, che renderebbe inammissibile la censura – si deve ritenere che essa sia priva di fondamento, una volta considerato come ratio decidendi l’affermazione della sentenza di primo grado in ordine alla irritualità della produzione con la conclusionale.

La giurisprudenza nomofilattica (Sez. U n. 10790 del 04/05/2017 Rv. 643939 – 01, sebbene in motivazione non massimata sul punto) con riferimento al potere giudiziale sulle prove in fase d’impugnazione di merito ha tenuto a precisare che “Nè in tal modo si mette in dubbio la natura del giudizio d’appello come mera revisio prioris instantiae anzichè come iudicium novum: infatti, in nessun caso il potere del giudice d’appello di ammettere la prova indispensabile potrebbe essere esercitato riguardo a prove già in prime cure dichiarate inammissibili perchè dedotte in modo difforme dalla legge o a prove dalla cui assunzione il richiedente sia decaduto a seguito di particolari vicende occorse nel giudizio di primo grado, non essendo queste – a rigori – neppure prove “nuove” (su ciò v. Cass. n. 26009/10; Cass. n. 10487/04).”. Ne consegue che il documento, comprovante l’iscrizione all’Albo dei mediatori, non avrebbe potuto essere prodotto ed invocato come documento nuovo in appello.

Peraltro, anche il principio di diritto di cui alla citata sentenza, espresso nel senso che (massima ufficiale): “Nel giudizio di appello, costituisce prova nuova indispensabile, ai sensi dell’art. 345 c.p.c., comma 3, nel testo previgente rispetto alla novella di cui al D.L. n. 83 del 2012, conv., con modif., dalla L. n. 134 del 2012, quella di per sè idonea ad eliminare ogni possibile incertezza circa la ricostruzione fattuale accolta dalla pronuncia gravata, smentendola o confermandola senza lasciare margini di dubbio oppure provando quel che era rimasto indimostrato o non sufficientemente provato, a prescindere dal rilievo che la parte interessata sia incorsa, per propria negligenza o per altra causa, nelle preclusioni istruttorie del primo grado.”, deve essere sempre applicato ribadendo che il lassismo nell’esegesi del concetto di indispensabilità deve misurarsi con le preclusioni, all’allegazione del fatto stesso che il documento o la prova “indispensabili” debbano dimostrare, che si siano potute verificare in primo grado. In altri termini, anche la prova nuova indispensabile, nel senso ritenuto dalla richiamata pronuncia nomofilattica, in tanto è ammissibile in appello, in quanto serva per dimostrare un fatto che era stato allegato in primo grado e che era rimasto indimostrato. La prova nuova, pur se dedotta quale indispensabile, non può servire per introdurre direttamente tale fatto. Nel caso di specie, il documento prodotto con la comparsa conclusionale era stato anche il mezzo per l’introduzione nel processo del fatto, dell’iscrizione all’Albo, e tale introduzione era certamente avvenuta oltre le preclusioni (al cd. thema decidendum) scattate nei termini di cui all’udienza ai sensi dell’art. 183 c.p.c. e ciò tenuto conto che la mancata iscrizione, all’Albo, era stata eccepita fin dalla costituzione dalla parte convenuta, come afferma la sentenza d’appello alla pag. 2 (“Eccepiva peraltro la mancata allegazione da parte dell’attrice dell’iscrizione nel ruolo degli agenti in affari di mediazione ai sensi della L. n. 39 del 1989.”).

In punto di indispensabilità della prova nuova il regime applicabile al giudizio di appello era quello introdotto dalla L. 18 giugno 2009, n. 69, giusta l’art. 58 di detta legge, dato che il giudizio pendeva in primo grado alla data di entrata in vigore di detta legge (ossia al 04/07/2009, in quanto l’appello risulta proposto nel 2012, come da indicazione sul frontespizio della sentenza qui impugnata).

La norma applicabile, ossia l’art. 345 c.p.c., aveva, pertanto, la seguente formulazione:

“Nel giudizio d’appello non possono proporsi domande nuove e, se proposte, debbono essere dichiarate inammissibili d’ufficio. Possono tuttavia domandarsi gli interessi, i frutti e gli accessori maturati dopo la sentenza impugnata, nonchè il risarcimento dei danni sofferti dopo la sentenza stessa.

Non possono proporsi nuove eccezioni, che non siano rilevabili anche d’ufficio.

Non sono ammessi nuovi mezzi di prova e non possono essere prodotti nuovi documenti, salvo che il collegio non li ritenga indispensabili ai fini della decisione della causa ovvero che la parte dimostri di non aver potuto proporli o produrli nel giudizio di primo grado per causa ad essa non imputabile. Può sempre deferirsi il giuramento decisorio.”.

II.1.3) Il primo mezzo, è, conclusivamente, inammissibile.

II.2.1) Il secondo motivo è assorbito dalla sorte del primo e, in ogni caso, dalle considerazioni da ultimo svolte in ordine alla non connotabilità del documento comprovante l’iscrizione all’Albo dei mediatori come indispensabile.

III) Il ricorso deve, pertanto, essere dichiarato inammissibile.

IV) Le spese di lite, di questa fase di legittimità, seguono la soccombenza e sono liquidate come in dispositivo, in considerazione del valore della causa e dell’attività processuale espletata.

V) Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, deve darsi atto della sussistenza dei presupposti, consistenti nella dichiarazione di integrale rigetto, o d’integrale inammissibilità dell’impugnazione, per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

PQM

dichiara inammissibile il ricorso;

condanna la ricorrente al pagamento delle spese di lite, che liquida in Euro 7.200,00, oltre Euro 200,00 per esborsi, oltre rimborso forfetario al 15%, oltre CA e IVA per legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato eventualmente dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Corte di Cassazione sezione terza civile, il 14 dicembre 2020.

Depositato in Cancelleria il 5 maggio 2021

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