Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 11799 del 12/05/2017


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Cassazione civile, sez. un., 12/05/2017, (ud. 06/12/2016, dep.12/05/2017),  n. 11799

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONI UNITE CIVILI

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CANZIO Giovanni – Primo Presidente –

Dott. AMOROSO Giovanni – Presidente di Sezione –

Dott. MAZZACANE Vincenzo – Presidente di Sezione –

Dott. TRAVAGLINO Giacomo – Presidente di Sezione –

Dott. BIANCHINI Bruno – Consigliere –

Dott. CAMPANILE Pietro – Consigliere –

Dott. TRIA Lucia – Consigliere –

Dott. DE CHIARA Carlo – Consigliere –

Dott. FRASCA Raffaele – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 2753/2011 proposto da:

R.A., in proprio e quale erede di T.R.L.,

B.M. in proprio e quale erede di B.L.,

B.P.E., elettivamente domiciliati in ROMA, VIA SALARIA 259,

presso lo studio dell’avvocato MARCO PASSALACQUA (Studio Bonelli

erede Pappalardo), rappresentati e difesi dall’avvocato GIULIO

PONZANELLI, giuste procure in calce al ricorso;

– ricorrenti –

contro

SOCIETA’ SEMPLICE D. & G.Z., in persona dei suoi

soci omonimi, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA BOCCA DI LEONE

78, presso lo studio dell’avvocato MAURIZIO PINNARO’, che la

rappresenta e difende unitamente agli avvocati GIORGIO CONTI e PAOLO

DAMINI, giusta delega a margine del controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 749/2010 della CORTE D’APPELLO di BOLOGNA,

depositata il 15/07/2010;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

06/12/2016 dal Consigliere Dott. RAFFAELE FRASCA;

udito l’Avvocato GIULIO PONZANELLI;

udito il P.M. in persona dell’Avvocato Generale Dott. IACOVIELLO

Francesco Mauro, che ha concluso per l’inammissibilità del ricorso.

Fatto

FATTI DELLA CAUSA

1. Nel gennaio del 1995 T.R.L., R.A.M., B.L. ed B.P.E., questi ultimi due quali eredi di B.G., convenivano in giudizio dinnanzi al Tribunale di Parma la ” D. e G.Z. società semplice”, chiedendo:

a) in via principale, l’accertamento della nullità della compravendita di una porzione di terreno facente parte di un podere denominato “(OMISSIS)”, conclusa il 16 marzo 1989 per atto notarile, fra la T.R., in proprio e quale rappresentante della figlia R.A.M., e B.G., quali venditrici, e la società convenuta, all’epoca Azienda Agricola G.Z. & C. s.a.s., oltre al risarcimento dei danni; b) in via subordinata l’annullamento dello stesso contratto per dolo ovvero per errore; c) in via ulteriormente subordinata, previa “revoca” della quietanza contenuta nell’atto di compravendita, la condanna della società al pagamento del prezzo pari a 69 milioni di lire, oltre interessi legali dalla data del rogito, ed il maggior danno.

1.1. La convenuta si costituiva e chiedeva il rigetto della domande, evidenziando, altresì, la contemporanea pendenza di un procedimento penale, nel quale Z.G., nella veste di loro procuratore, risultava imputato per il reato di truffa contrattuale, in relazione alla vendita delle altre parti residue del detto podere, nonchè sostenendo l’estinzione del processo, in quanto l’azione civile era stata esercitata dalle attrici in sede penale, al fine di ottenere la restituzione e il risarcimento del danno.

Nel corso del lungo svolgimento processuale di primo grado, nel quale veniva disattesa l’istanza di estinzione, interveniva la condanna dello Z. in sede penale.

2. Il Tribunale di Parma, con sentenza del febbraio 2002, accoglieva soltanto la domanda delle attrici avente ad oggetto la condanna della società al pagamento della somma di 69 milioni di Lire, mentre rigettava le altre domande.

3. Le parti attrici proponevano appello in via principale contro Z.D. e Z.G. “in proprio e nella loro qualità di soci illimitatamente responsabili della società semplice Azienda Agricola D. e G.Z.”, lamentando l’erroneità del rigetto delle altre domande, mentre gli appellati, in sede di costituzione, proponevano appello incidentale chiedendo la riforma della sentenza appellata nella parte in cui aveva accolto la domanda di pagamento del corrispettivo della compravendita.

4. La Corte di Appello di Bologna, con sentenza del 5 luglio 2010, ha rigettato l’appello principale ed accolto quello incidentale, caducando la condanna degli appellati al pagamento della somma corrispondente al prezzo pattuito.

5. Avverso tale sentenza, Z.D. e Z.G. ” R.A.M., in proprio e quale erede di T.R.L., B.M., quale unico erede di B.L., deceduto nel corso del giudizio, ed B.P.E., hanno proposto ricorso per cassazione, affidato a dieci motivi, contro “la società semplice Azienda Agricola D. e G.Z., in persona dei soci illimitatamente responsabili.

6. Al ricorso ha resistito con controricorso l’intimata.

7. La trattazione del ricorso veniva fissata per l’udienza del 4 febbraio 2016 davanti alla Seconda Sezione Civile della Corte e i ricorrenti depositavano memoria ex art. 378 c.p.c.. All’esito della camera di consiglio, la Seconda Sezione, con ordinanza interlocutoria n. 4058 del 2016, rimetteva gli atti al Primo Presidente, per la risoluzione di un contrasto di giurisprudenza, la cui soluzione reputava rilevante per la decisione del quinto motivo di ricorso.

8. Il Primo Presidente assegnava il ricorso alle Sezioni Unite e seguiva la fissazione dell’odierna udienza, in vista delle quali le parti hanno depositato memoria.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. In via preliminare, deve disattendersi l’eccezione dei resistenti, di inammissibilità del ricorso, in quanto sarebbe stato proposto contro ” Z.D. e Z.G. in proprio e nella loro qualità di soci illimitatamente responsabili dell’Azienda Agricola D. e G.Z.”, mentre in primo grado era stata convenuta la ” D. e G.Z. società semplice, in persona del suo legale rappresentante pro tempore”.

L’assunto – ove si dovesse intendere nel senso che i due soci sarebbero stati evocati in giudizio in proprio, mentre non erano parti come tali ma come soci – è basato su un dato inesistente, giacchè il ricorso per cassazione è stato espressamente proposto contro “la società semplice Azienda Agricola D. e G.Z., in persona dei soci illimitatamente responsabili, Z.D. e Z.G.”.

1.1. Peraltro, ancorchè l’intestazione della sentenza rechi l’indicazione come parte appellata di ” Z.D. e Z.G., in proprio e nella loro qualità di soci illimitatamente responsabili della società semplice Azienda Agricola D. e G.Z.”, dall’esame della sentenza non emerge alcunchè che evidenzi che la legittimazione a stare in giudizio di dette persone fosse stata spesa anche in proprio ed il dispositivo della sentenza, in punto di regolamento delle spese giudiziali, reca la condanna a favore dell’appellata, cioè della società semplice.

2. Con il primo motivo di ricorso si lamenta, senza indicare nell’intestazione alcuna norma di diritto violata, la “violazione di legge sostanziale (art. 360, n. 3) in tema di giudicato esterno”.

2.1. La violazione del giudicato esterno riguarderebbe la sentenza, pronunciata dalla stessa Corte di Appello felsinea in sede penale in data 18 gennaio 2010 e divenuta successivamente irrevocabile, con la quale Z.G. venne definitivamente condannato per il reato di truffa in danno dei ricorrenti.

A fronte dell’eccezione di cosa giudicata, la sentenza impugnata ha ritenuto che il precedente di questa Corte, invocato da parte delle appellanti (cioè Cass. civ. 15 febbraio 2001 n. 2200), non potesse trovare applicazione nella fattispecie, in quanto la vendita del 16 marzo 1989, della quale si era chiesto l’accertamento della nullità ovvero l’annullamento, non rientrava tra gli atti traslativi, che erano stati sottoposti direttamente all’attenzione del giudice penale, onde verificare la sussistenza degli estremi del delitto contestato allo Z.. Secondo il giudice di appello, infatti, sebbene nella sentenza penale fosse presente un riferimento all’atto del 16 marzo 1989, esso era finalizzato esclusivamente a giustificare le incongruenze, dimenticanze ed errori del racconto delle parti lese, mentre non vi era stato un immediato accertamento circa l’incidenza causale della condotta delittuosa dell’imputato sulla volontà delle venditrici.

2.2. Il motivo è inammissibile e comunque privo di fondamento.

E’ inammissibile, perchè non censura espressamente la ratio decidendi, enunciata a pagina 10 dalla sentenza impugnata con l’espressione “a prescindere dalla difficoltà di ritenere opponibili gli eventuali fatti penalmente accertati nei confronti di un soggetto terzo rispetto a quel giudizio, qual è l’attuale appellata”.

Il motivo di ricorso non si fa carico di questa affermazione e, poichè essa vale di per sè a sorreggere la negazione dell’efficacia del preteso giudicato esterno, ne consegue che il suo consolidarsi per mancanza di impugnazione fa passare in cosa giudicata la relativa ratio decidendi e tanto preclude la possibilità di esaminare l’altra sottoposta a critica.

2.3. Peraltro, il motivo, nella stessa sua astratta prospettazione in iure, è infondato.

Il giudicato penale sarebbe riferibile alla società, in quanto formatosi nei confronti dello Z., che ne è socio e la rappresenta nel presente giudizio civile.

L’assunto è privo di fondamento.

La mancanza della personalità giuridica, nella società semplice, come, del resto, nelle società personali in genere, non esclude che la società abbia una sua soggettività, strumentale, volta a consentire alla pluralità di soci una unitarietà delle forme d’azione (in termini: Cass. n. 8399 del 2003 e Cass. n. 7886 del 2006).

Ora, se un socio della società semplice agisce nella qualità di amministratore della società e commette un reato a vantaggio della società e viene attinto da un processo penale, all’esito del quale viene affermata la sua responsabilità, la connotazione di essa come personale e, dunque, come responsabilità della persona fisica, non consente di riferire il giudicato penale alla società personale e, dunque, alla società semplice, per la ragione che la presenza nel giudizio penale come imputato del socio che pure ha agito in sua rappresentanza come amministratore è riferibile esclusivamente alla sua persona e non alla società.

La presenza nel giudizio penale della società suppone, invece, che essa vi venga chiamata come responsabile civile a norma dell’art. 83 c.p.p..

3. Il secondo motivo è così intestato: “Sulla nullità. Omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa più fatti controversi e decisivi (art. 360 c.p.c., n. 5)”.

In esso nemmeno vengono identificati i termini dell’azione di nullità, che risulta difficile individuare nella stessa struttura complessiva del ricorso.

L’illustrazione del motivo, peraltro, non evidenzia alcuna critica in iure con riferimento alla categoria della nullità e deve, pertanto, apprezzarsi solo come critica svolta alla stregua del paradigma dell’art. 360 c.p.c., n. 5.

3.2. Senonchè, si deve rilevare, in proposito, che lo stesso esordio dell’illustrazione del motivo rivela che i ricorrenti si sono posti del tutto al di fuori della logica che esigeva il paradigma dell’art. 360, n. 5.

Si dice, infatti, nell’exordium, che “allorchè si accosta alla vicenda, l’intera motivazione può presentarsi come logica solo letteralmente chiudendo gli occhi sui fatti accertati in sede penale (e, complessivamente, in altri 7 giudizi tutti persi dall’Ing. Z.). In realtà, la motivazione impugnata è gravemente illogica, è superficiale perchè basata su una mera presunzione (peraltro non grave, nè univoca e pure smentita per tabulas e tradisce una errata valutazione di questioni fondamentali ai fini della decisione della causa”.

Ebbene, già questo incipit esclude che, nella successiva illustrazione, le ricorrenti abbiano potuto argomentare il dedotto motivo di cui all’art. 360, n. 5, nel testo applicabile al presente giudizio di cassazione, che avrebbe richiesto l’indicazione sia dei “fatti controversi” oggetto del vizio denunciato (ex multis, Cass. n. 17761 del 2016, da ultimo), sia della motivazione articolata dalla sentenza impugnata riguardo ad essi, sia delle ragioni di decisività evocate nel paradigma del n. 5. E la lettura dell’illustrazione lo conferma e non consente di attribuirgli la struttura di idoneo motivo a sensi dell’art. 360, n. 5, secondo il testo già richiamato.

Queste le ragioni:

a) nell’intera esposizione del motivo non viene mai evocato, innanzitutto, il concetto di fatto controverso, ma si svolgono critiche a quella che si definisce presunzione applicata dalla corte territoriale, indicandola nell’avere ritenuto, con motivazione che si dice “inconsistente”, che le ricorrenti non potevano non sapere che la famosa vendita non riguardava un cespite diverso da quello già oggetto di una precedente vendita;

b) il motivo, dunque, appare rivolto a criticare l’approdo di un ragionamento presuntivo svolto dalla corte territoriale, ma la critica non viene svolta con argomenti in iure circa l’erronea applicazione dei caratteri individuatori della presunzione semplice alla stregua dell’art. 2729 c.c., comma 1, (che è possibile denunciare come vizio di violazione di tale norma di diritto: Cass. n. 17457 del 2007);

c) il motivo fa riferimento alla motivazione della sentenza impugnata, ma si limita ad individuarla in modo atomistico, sicchè il lettore, essendo investito della lettura di parti non raccordate, non si trova di fronte ad una individuazione effettiva della motivazione della corte territoriale, ma di affermazioni che, in quanto estrapolate, non possono essere considerate rivelatrici del convincimento della corte di merito;

d) la critica svolta al ragionamento presuntivo che avrebbe svolto la corte territoriale, pur collocata nell’art. 360 c.p.c., n. 5, prospetta, peraltro, esclusivamente una ricostruzione della posizione dei ricorrenti nella conclusione della vendita del marzo 1989 in termini di mera possibilità alternativa a quella (che sarebbe stata) ritenuta dalla corte territoriale;

e) in tal modo, ci si pone al di fuori del paradigma del n. 5, applicabile al ricorso, con riferimento alla critica del ragionamento presuntivo, svolta non in iure, ma con riferimento ad una errata ricostruzione della quaestio facti, funzionale all’applicazione della regola presuntiva: una simile critica esigeva, infatti, il rispetto del principio di diritto secondo cui “In tema di ricorso per cassazione, il riferimento contenuto nell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, (nel testo modificato dal D.Lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, art. 2, applicabile ratione temporis) – al “fatto controverso e decisivo per il giudizio” implicava che la motivazione della quaestio facti fosse affetta non da una mera contraddittorietà, insufficienza o mancata considerazione, ma che fosse tale da determinare la logica insostenibilità della motivazione” (Cass. n. 17037 del 2015).

4. Il terzo motivo è intestato in questi termini: “Sulla valutazione delle prove riguardo la nullità e l’annullamento. Omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa più fatti controversi e decisivi (art. 360 c.p.c., n. 5) e violazione delle regole in tema di presunzioni (art. 360 c.p.c., n. 3)”.

Anche questo motivo, pur dichiarando di voler assumere come oggetto di critica la valutazione delle prove riguardo all’azione di nullità ed a quella di annullamento, si astiene dall’individuarne i termini e per entrambe costringerebbe il lettore a ricercarli inammissibilmente aliunde. Fermo quanto già detto a proposito del precedente motivo per la prima, per la seconda si apprende alla pagina 34 dell’esposizione del fatto che l’azione di annullamento era stata esercitata in via subordinata a quella di nullità in primo luogo ai sensi dell’art. 1439 c.c., comma 2, cioè per c.d. dolo del terzo e, a pagina 35, in via ulteriormente subordinata per errore ai sensi dell’art. 1428 c.c. e ss..

Con riferimento al primo profilo, peraltro, la spiegazione ed individuazione dell’atteggiarsi dello Z. in posizione di terzo resta oscura, dato che non solo si richiama un orientamento giurisprudenziale secondo cui “il contratto concluso per effetto di truffa di uno dei contraenti ai danni dell’altro è annullabile per dolo”, così contraddicendo la posizione di terzo dello Z., ma, di seguito, si dice, con contraddizione ancora maggiore, che ” Z. era un contraente, in quanto – sebbene avesse simulato il contrario – era intervenuto nel negozio non solo in qualità di procuratore delle venditrici, ma anche quale socio-amministratore-legale rappresentante della società acquirente”. Affermazioni queste che rendono, inoltre, assolutamente contraddittorio che, quando si riferisce dell’azione di annullamento per errore, si definisca lo Z. come “consigliere infedele”.

Inoltre, sempre nella pagina 35, rimane del tutto oscura la modalità di verificazione del preteso errore, giacchè i suoi termini non vengono esattamente e specificamente individuati attraverso la descrizione delle circostanze percepite delle ricorrenti ed allegate a fondamento della domanda, che avrebbero integrato una falsa rappresentazione della realtà determinativa della conclusione della vendita. In tal modo, al lettore è prospettato assertoriamente che l’errore sarebbe stato nel convincimento di non vendere alcunchè, che non fosse stato già oggetto delle vendite precedenti.

4.1. Si deve, poi, aggiungere che in tutta l’illustrazione non viene mai evocata in modo specifico la motivazione della sentenza impugnata se non con un accenno del tutto indiretto e generico a pagina 45.

Nella descritta situazione, la serie di rilievi sul modo in cui sarebbero state valutate risultanze probatorie o si sarebbe omesso di valutarne altre si dovrebbe apprezzare senza che si sappia quale era stato il tenore dei fatti costitutivi allegati a fondamento delle domande di declaratoria della nullità e dell’annullabilità e senza l’indicazione della motivazione che sarebbe incorsa nell’erronea ed omessa valutazione. Tanto evidenzia, già su un piano generale, la mancanza dei dati necessari per vagliare la prospettazione delle ricorrenti.

In ogni caso, i rilievi sulla erroneità od omissione della valutazione delle risultanze probatorie sono svolti senza una precisa individuazione dei fatti controversi e senza il rispetto del principio di diritto richiamato a proposito del motivo precedente, cioè adombrando una mera possibilità di valutazione alternativa.

4.2. Si aggiunga che nell’illustrazione non si coglie mai alcun distinguo dell’argomentare rispetto alle due tipologie di azione, che permetta di correlarlo alla rispettiva motivazione della sentenza.

4.3. In fine, si deve rilevare che, a proposito dell’azione di annullamento, la sentenza impugnata articola la motivazione – a partire dalla seconda proposizione della pagina 12 e fino a metà della pagina 13 – con due distinte ed autonome rationes decidendi.

Con la prima, la Corte felsinea ha affermato, in senso opposto a quanto ritenuto dal primo giudice, la fondatezza della questione di prescrizione dell’azione di annullamento. Con la seconda, la Corte ha enunciato che “in ogni caso, meriterebbero di essere condivise le ragioni esposte dal giudice di primo grado, da intendersi qui richiamate (sub B e sub C del capo della sentenza “Le domande attrici”) che avrebbero, comunque, comportato il rigetto della domanda di annullamento”.

In tale situazione, le ricorrenti, nel motivo di ricorso in esame si sarebbero dovute fare carico di criticare dette ragioni, evocando necessariamente e criticando la motivazione resa in quei capi dal Tribunale e fatta propria dalla Corte territoriale, mentre la critica viene svolta con assoluto disinteresse di quella motivazione, con conseguente ulteriore ragione di inammissibilità (Cass. sez. un. n. 16598 del 2016, che ha ribadito il principio di cui a Cass. n. 359 del 2005).

5. Il quarto motivo è così intestato: “Sulla domanda di nullità e annullamento. Violazione di legge sostanziale (art. 360 c.p.c., n. 3) in tema di non necessità della denuncia querela per l’ipotesi di difetto del consenso e di dolo contrattuale ovvero per errore ostativo”.

L’illustrazione esordisce assumendo che “la Corte d’Appello ha mostrato di non conoscere” la giurisprudenza di legittimità, che evidenzia che la querela di falso contro un atto rogato da notaio non è esperibile, se si assume che le dichiarazioni rese non sono diverse da quelle documentate, ma divergono dalla reale volontà comune o di una delle parti, perchè in tali casi le azioni esperibili sono rispettivamente di simulazione o di vizio del consenso. Si sostiene che la corte territoriale avrebbe erroneamente ritenuto “non proponibile (o, comunque, non plausibile e, quindi, presuntivamente infondata) l’azione di annullamento per il fatto che non sia stato impugnato il contenuto dell’atto 16.3.1989, quando, invece, era chiarissimo che le Signore non hanno mai negato di essere intervenute innanzi al notaio, bensì hanno escluso di aver voluto vendere (scientemente) qualche cosa e, tanto meno, di voler vendere a soli 69 milioni di lire un cespite che valeva 15-20 volte tanto…”.

Sia queste deduzioni, sia quella svolte nel prosieguo, non recano alcuna individuazione anche indiretta della motivazione della sentenza impugnata, sicchè l’illustrazione non evidenzia una critica alla sentenza impugnata e, dunque, non ha la struttura di un motivo di impugnazione, secondo il principio già in precedenza richiamato.

6. Appare a questo punto opportuno, per la sua connessione con il terzo motivo, l’esame dell’ottavo motivo di ricorso, che deduce: “Sulla domanda di annullamento. Il merito. Omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa più punti decisivi della controversia (art. 360 c.p.c., n. 5)”.

Esso presenta la seguente articolazione.

In primo luogo si lamenta che la Corte territoriale non avrebbe motivato “per quale ragione non fosse accoglibile l’istanza di acquisizione dei verbali delle udienze penali nei quali i testimoni C., Notaio G. e Avvocato S.A. avevano reso deposizioni decisive”. La deduzione è inammissibile, perchè non si indica se, come e dove era stata formulata tale istanza, e non si spiegano le ragioni di decisività di quella acquisizione.

Nella parte successiva, a partire dalla seconda proposizione, si riporta innanzitutto, paludandolo, con omissione dell’incipit, da motivazione resa dalla Corte territoriale, un’affermazione che essa ha fatto a pagina 12 (quinta proposizione), ma in essa è stata solo fornita l’interpretazione della motivazione del primo giudice a proposito della questione del decorso della prescrizione.

Di seguito, pur dando atto che la corte territoriale ha reso sull’azione di annullamento una motivazione per relationem, dichiarando di condividere i punti “B” e “C” della motivazione del primo giudice, si passa, senza riferire anche in questo caso quali fossero stati i contenuti di detta motivazione, a svolgere considerazioni su una serie di circostanze fattuali, anche evocative di passi della sentenza penale, che vizierebbero la motivazione della corte d’appello e si indicano, in fine, talune “affermazioni” che presenterebbero evidenti contraddizioni.

Il motivo è inammissibile.

La sentenza impugnata ha dichiarato di condividere le motivazioni espresse dal primo giudice quanto al rigetto della domanda di annullamento.

Ora, tali motivazioni non sono in alcun modo evocate, come sarebbe stato necessario e, pertanto, non si sa che cosa la sentenza impugnata ha condiviso e non si sa neppure se quelle che si dicono “affermazioni” siano state indicate come tali, volendo alludere al fatto che erano state fatte dal primo giudice nei punti “B” e “C”.

Il motivo, in conseguenza, non individua la motivazione sottoposta a critica ed è perciò privo della struttura di motivo di impugnazione.

7. Con il quinto motivo, che è quello che ha occasionato la rimessione alle Sezioni Unite della questione di particolare importanza, si deduce testualmente: “Sulla domanda di annullamento. Violazione di legge processuale e sostanziale (art. 360 c.p.c., n. 3) in tema di giudicato interno, di rilevazione d’ufficio della prescrizione e di termine di decorrenza della prescrizione”.

Nella prima parte del motivo si invoca la rilevanza del giudicato penale per quanto concerne l’individuazione del termine di prescrizione, evidenziandosi che dalle motivazioni delle sentenze penali intervenute nei confronti dello Z. emergeva che le venditrici solo nel 1993 avevano avuto piena contezza della condotta criminale del loro ex tecnico di fiducia, cosicchè la sentenza impugnata erroneamente avrebbe ritenuto che la prescrizione dell’azione di annullamento per dolo doveva decorrere dalla data stessa di stipulazione dell’atto di compravendita, anzichè da quella conoscenza.

Nella seconda parte del motivo – che è quella cui specificamente si correla la rimessione alle Sezioni Unite – si deduce, altresì, che il Tribunale, nell’esaminare e rigettare l’eccezione di prescrizione, sollevata dalla convenuta, aveva osservato che le attrici solo nel 1993 erano venute a conoscenza dei fatti dolosi posti in essere dall’ingegner Z. nei loro confronti e che, ancorchè l’ignoranza circa l’esistenza di un diritto non influisca sul decorso della prescrizione, tale regola viene tuttavia meno allorquando l’ignoranza sia frutto del comportamento doloso della controparte. Si sostiene, pertanto, che l’eccezione in oggetto era stata espressamente disattesa dal giudice di primo grado e che inopinatamente la Corte di Appello ha riesaminato tale questione, accogliendola in violazione di un giudicato interno venutosi a formare, in ragione della mancata proposizione di un appello incidentale da parte dell’appellata, che era stato invece proposto soltanto riguardo all’accoglimento della domanda di condanna al pagamento del corrispettivo della compravendita. Per quanto concerneva lo specifico problema della prescrizione, l’appellata si era, invece, limitata – a pagina 17 della comparsa di risposta, al punto 3.3 – ad affermare solo che “non può non eccepirsi la prescrizione nella quale le controparti sono incorse”.

Sostengono i ricorrenti che tali espressioni non consentivano di ritenere formalmente proposto appello incidentale in ordine al rigetto dell’eccezione di prescrizione, cosicchè su tale punto si era formato un giudicato. In ogni caso, le espressioni letterali utilizzate dall’appellata, come sopra riportate, quando pure si fossero potute intendere come propositive di un appello incidentale, non sarebbero state in grado di soddisfare il requisito della specificità dei motivi di appello, richiesto dall’art. 342 c.p.c., con la conseguenza che sarebbe stato precluso alla Corte felsinea di poter ritornare sulla questione, relativa alla prescrizione dell’azione proposta.

7.1. L’esame di questo motivo dovrebbe, a questo punto, dirsi assorbito: entrambe le censure, infatti, riguardano solo una delle due rationes decidendi, con cui la sentenza impugnata ha ritenuto infondata l’azione di annullamento, id est quella con cui l’ha reputata estinta per prescrizione. Poichè, per effetto dell’esito dello scrutinio dei due motivi precedenti al quinto, nonchè dell’ottavo motivo, la valutazione di infondatezza di detta azione sotto altri profili, quelli con cui la sentenza ha dichiarato di condividere le ragioni di infondatezza enunciate sub B e C dalla sentenza di primo grado, risulta consolidata e, dunque, la sentenza impugnata ormai risulta sul punto confermata, diventa inutile scrutinare se sia stata corretta l’altra ratio decidendi relativa alla prescrizione. E ciò, perchè la cosa giudicata sulla infondatezza della domanda di annullamento a prescindere dalla fondatezza della sua prescrizione impedisce di scrutinare la ratio fondata su di essa (così Cass. n. 14740 del 2005; o viene a mancare l’interesse al suo esame: Cass., Sez. Un., n. 16602 del 2005).

8. Ritengono, tuttavia, le Sezioni Unite, nonostante l’inammissibilità del quinto motivo per la ragione ora detta, di esaminare comunque, ai sensi dell’art. 363 c.p.c., comma 3, la questione di particolare importanza sollevata dalla Seconda Sezione, giacchè la rimessione da essa disposta ha evidenziato che sulla stessa perdurano contrasti in seno alle sezioni semplici.

8.1. La Seconda Sezione: a) ha rilevato che il Tribunale di Parma aveva disatteso l’eccezione di prescrizione riguardo alla domanda di annullamento del contratto per dolo, sollevata dalla società convenuta, che, però, rispetto a detta domanda era risultata vittoriosa per altre ragioni; b) ha, quindi, osservato che, proposto l’appello principale delle qui ricorrenti avverso la decisione del Tribunale, la controricorrente aveva svolto nella comparsa di costituzione un appello incidentale sull’accoglimento della domanda relativa alle somme, di cui alla quietanza contestuale alla vendita, mentre si era limitata soltanto a riproporre l’eccezione di prescrizione; c) ha rilevato ancora che, in ragione dell’accoglimento di tale eccezione da parte della Corte territoriale, la seconda censura svolta nel quinto motivo esigeva di stabilire se, a fronte non già del semplice assorbimento o della mancata disamina, ma dell’espresso rigetto dell’eccezione di prescrizione della parte, la qui resistente, per il resto totalmente vittoriosa ed interessata ad una sua nuova disamina da parte del giudice di appello, dovesse a tal fine proporre appello incidentale ovvero potesse limitarsi alla mera riproposizione della questione ex art. 346 c.p.c., com’era in concreto avvenuto.

8.2.1. In proposito, la Seconda Sezione ha ravvisato l’esistenza di un contrasto nella giurisprudenza della Corte, reputando che esso, “già esistente negli anni passati”, risulterebbe “essere stato altresì acuito dal noto intervento delle Sezioni Unite di cui all’ordinanza del 16 ottobre 2008 n. 25246, con la quale si è affermato che la parte risultata vittoriosa nel merito nel giudizio di primo grado, al fine di evitare la preclusione della questione di giurisdizione risolta in senso ad essa sfavorevole, è tenuta a proporre appello incidentale, non essendo sufficiente ad impedire la formazione del giudicato sul punto la mera riproposizione della questione, ai sensi dell’art. 346 c.p.c., in sede di costituzione in appello, stante l’inapplicabilità del principio di rilevabilità d’ufficio nel caso di espressa decisione sulla giurisdizione e la non applicabilità dell’art. 346 c.p.c. (riferibile, invece, a domande o eccezioni autonome sulle quali non vi sia stata decisione o non autonome e interne al capo di domande deciso) a domande o eccezioni autonome espressamente e motivatamente respinte, rispetto alle quali troverebbe applicazione la previsione dell’art. 329, secondo comma, cod. proc. civ., per cui in assenza di puntuale impugnazione opera su di esse la presunzione di acquiescenza. Il punto di perdurante frizione interpretativa è rappresentato dal divergente apprezzamento del concetto di “eccezioni autonome”, da cui far discendere che il loro espresso rigetto imporrebbe la proposizione dell’appello incidentale a cura della parte che sia comunque risultata totalmente vittoriosa nel merito, essendo oggetto di non univoca interpretazione nella successiva giurisprudenza di questa Corte”.

Per coerenziare tale assunto, la Seconda sezione ha proceduto alla rassegna di una serie di precedenti delle sezioni semplici e, dopo aver rilevato che la giurisprudenza della Corte, “pur partendo dal comune dato giurisprudenziale costituito dal citato intervento delle Sezioni Unite, perviene tuttavia a conclusioni applicative assolutamente divergenti”, ha reputato che “tale contrasto non sia obiettivamente suscettibile di essere composto individuando una complementarità logica tra le opposte posizioni” ed ha anche soggiunto che “la risoluzione della questione risulta avere rilevanti riflessi applicativi anche per quanto attiene al giudizio di legittimità (attesa la pacifica inapplicabilità in questa sede della previsione di cui all’art. 346 c.p.c., ove si opti per la tesi della superfluità dell’impugnazione incidentale, la parte totalmente vittoriosa nel merito all’esito del giudizio di appello, non sarebbe tenuta a proporre ricorso incidentale condizionato per far valere l’erroneo rigetto dell’eccezione, conservando la possibilità di riproporla eventualmente in sede di rinvio)”; dal che ha tratto anche il rilievo che si sarebbe in presenza di una questione di massima di particolare importanza.

9. Tanto premesso, rilevano le Sezioni Unite che, effettivamente, nella giurisprudenza delle sezioni semplici perdurava al momento della rimessione una situazione di contrasto sui confini, in punto di modalità della devoluzione al giudice di appello, fra l’istituto della c.d. mera riproponibilità di cui all’art. 346 c.p.c., e quello dell’appello incidentale, regolato dall’art. 343 c.p.c..

Peraltro, successivamente all’ordinanza di rimessione è sopravvenuta, in data 19 aprile 2016, Cass., Sez. un., n. 7700 del 2016, la quale, pur occupandosi del problema della necessità o meno della proposizione dell’appello incidentale, anzichè della sufficienza della mera riproposizione, quanto alla domanda (nella specie di garanzia) rimasta assorbita in primo grado per il rigetto della domanda principale, si è anche soffermata sull’identica questione con riferimento alle eccezioni, svolgendo considerazioni anche a favore della sua soluzione. Nel senso che, allorquando, riguardo ad una eccezione c.d. di merito svolta dal convenuto o comunque da colui che, difendendosi rispetto all’azione altrui assuma quella posizione sostanziale, il giudice di primo grado si sia pronunciato affermandone l’infondatezza, e, tuttavia, l’azione sia stata rigettata nel merito per altra ragione, il convenuto formale o sostanziale, di fronte all’appello della controparte che si dolga di tale rigetto e, dunque, rimetta in discussione la tutela conseguita per effetto di esso, deve necessariamente, per ottenere che il giudice d’appello riesamini la decisione del giudice di primo grado di rigetto dell’eccezione, proporre appello incidentale e non può limitarsi, invece, alla c.d. mera riproposizione cui allude l’art. 346 c.p.c..

Il Collegio, dunque, potrebbe limitarsi a rinviare alle considerazioni colà svolte (particolarmente, nel paragrafo 5.6. e nei relativi sottoparagrafi).

Senonchè, appare necessaria qualche ulteriore considerazione: a) sia perchè, nonostante l’arresto oramai risalente di cui a Cass. sez. un. n. 25246 del 2008, nella giurisprudenza delle sezioni semplici, si erano manifestati i contrasti lumeggiati dall’ordinanza di rimessione, i quali risultano verosimilmente indotti dall’uso, da parte di quella decisione, del concetto di eccezione c.d. autonoma, che in quell’occasione originava dalla circostanza che oggetto di scrutinio era un caso in cui veniva in rilievo un’eccezione di rito, quella di giurisdizione; b) sia perchè, proprio alla luce di Cass. sez. un. n. 7700 del 2016, in un’ottica di completezza della nomofilachia, ulteriori precisazioni risultano necessarie, per un verso sul concetto di decisione implicita dell’eccezione di merito e per altro verso per marcare la differenza di approccio che merita l’analoga questione rispetto alle c.d. eccezioni di rito.

9.1. Giova prendere le mosse dal concetto di eccezione c.d. di merito. L’eccezione di merito si identifica in quel fatto che, in relazione alla struttura della fattispecie costitutiva del diritto fatto valere dalla parte attrice con la domanda, assume la natura di fatto impeditivo, modificativo o estintivo dell’efficacia dei fatti costitutivi (evocata in qualche modo dall’art. 2697 c.c.), per essere così individuato e qualificato dalla stessa fattispecie normativa astratta relativa al diritto azionato. Tale fatto, per la sua inerenza sul piano normativo alla fattispecie dedotta in giudizio, assume il rilievo di c.d. fatto principale non diversamente dai fatti costitutivi della domanda.

La sua entrata nel processo suppone innanzitutto che esso vi sia stato introdotto come fatto storico, il che può avvenire in primo luogo tramite l’attività di allegazione dei fatti svolta delle parti e, quindi, tanto e soprattutto (per evidenti ragioni di interesse) tramite quella della parte convenuta, ma anche, inconsapevolmente, tramite quella dell’attore. Detta attività può avvenire direttamente ed espressamente, cioè tramite la narrazione del fatto storico integrante l’eccezione, oppure indirettamente, in quanto il fatto emerga dai documenti prodotti, che lo rappresentino. L’introduzione del fatto storico integratore dell’eccezione può poi avvenire anche per effetto delle emergenze dell’istruzione probatoria (in termini, Cass. Sez. Un., (ord.) n. 10531 del 2013).

La rilevanza del fatto integratore dell’eccezione di merito nel processo suppone, accanto alla sua introduzione, un’attività di c.d. rilevazione della sua efficacia giuridica sulla fattispecie dedotta in giudizio con la domanda e, com’è noto, l’ordinamento talvolta riserva tale attività soltanto alla parte, di modo che si è in presenza di un’eccezione c.d. in senso stretto (o, come taluno dice, in senso proprio), mentre, se la riserva non vi sia, il potere di rilevazione è affidato sia alla parte sia al giudice e si è in presenza di una eccezione c.d. in senso lato.

Supposta l’allegazione e rilevazione di un’eccezione di merito (in senso stretto o in seno lato) nel giudizio di primo grado da parte del convenuto, rispetto al tenore della decisione di primo grado, essa: a) può risultare considerata dalla sentenza impugnata, la quale su di essa ha adottato una statuizione, cioè una motivazione che può essere articolata o con affermazioni espresse o con affermazioni enunciate in modo indiretto, le quali, però, rivelino in modo chiaro la sua valutazione di fondatezza o infondatezza; b) può risultare, invece, non considerata affatto.

9.2. Nel primo caso, se la decisione è stata di riconoscimento del diritto e, quindi, di accoglimento della domanda, essa, valutando il fatto integratore dell’eccezione, deve averlo riconosciuto infondato ed è evidente che l’interesse a riottenerne l’esame da parte del giudice d’appello farà capo al convenuto con l’appello principale, il quale, dovrà riguardare il ragionamento svolto dal primo giudice per disattendere l’eccezione, se l’appellante intende riottenerne l’esame. Mentre, se tale interesse egli non abbia, si asterrà dallo svolgimento come motivo di appello di una critica della decisione di primo grado quanto al rigetto dell’eccezione, sicchè il secondo comma dell’art. 329 cod. proc. civ. determinerà l’acquiescenza sulla relativa parte di sentenza e la formazione della cosa giudicata interna sull’infondatezza dell’eccezione, tanto se si tratti di eccezione in senso stretto, quanto se si tratti di eccezione in senso lato, con preclusione in questo secondo caso del potere del giudice di cui all’art. 345 c.p.c., comma 2.

9.2.1. Può darsi, al contrario, che la domanda sia stata rigettata.

Questo rigetto può essere dipeso dall’essere stata ritenuta fondata l’eccezione (che era appunto idonea a definire il giudizio) ed allora è palese che, essendo l’attore interessato a ridiscutere la decisione finale, in quanto determinata da tale fondatezza, la devoluzione della cognizione dell’eccezione al giudice d’appello resterà affidata all’appello principale del medesimo, con la critica della decisione di primo grado quanto alla decisiva valutazione di fondatezza dell’eccezione.

9.2.2. Il rigetto può, però, essere avvenuto per altre ragioni, che possono essere state, o la stessa inidoneità in iure dei fatti costitutivi a giustificare il diritto fatto valere con la domanda giudiziale, o la loro mancata dimostrazione a livello probatorio come fatti storici, o anche una valutazione di fondatezza di un’altra eccezione di merito. In questi casi è palese che l’interesse ad impugnare con l’appello la decisione sarà dell’attore, perchè egli ha visto rigettata la domanda ed è in posizione di c.d. soccombenza pratica rispetto all’esito finale della lite, mentre l’interesse ad ottenere che in appello si ridiscuta dell’eccezione di merito ritenuta infondata, sarà del convenuto, che ha solo una soccombenza c.d. virtuale sull’eccezione, cioè una soccombenza che non ha inciso sull’esito finale della decisione che gli è favorevole e che non può venire in rilievo in sede di impugnazione se non ove l’appello sia svolto dall’attore.

In questa ipotesi si pone l’alternativa sulla individuazione del modo in cui egli può ottenere che l’eccezione sia riesaminata dal giudice d’appello, rispettivamente con un appello incidentale oppure con la riproposizione ai sensi dell’art. 346 c.p.c.; mentre, ove si tratti di eccezione in senso lato, in mancanza di verificazione di quella fra le due alternative ritenuta applicabile, ha luogo il fenomeno di cui all’art. 329, comma 2, citato e la preclusione, per formazione di giudicato interno, del potere del giudice di appello di rilevare detta eccezione.

La valutazione di infondatezza dell’eccezione risulta enunciata in modo logicamente superfluo, se la si considera rispetto alle prime due evenienze indicate: infatti, il giudice di primo grado che abbia ritenuto l’inidoneità in iure dei fatti costitutivi allegati a fondamento della domanda o non li ritenga dimostrati in fatto, una volta ritenuta questa ragione di infondatezza, non avrebbe avuto bisogno di scrutinare anche l’eccezione e di dirla infondata. Nella terza evenienza, avuto riguardo alla struttura della fattispecie astratta, l’eccezione disattesa potrebbe collocarsi logicamente come antecedente, ma anche successiva, rispetto a quella invece reputata dirimente ed in tale secondo caso parimenti il giudice non avrebbe avuto bisogno di scrutinarla.

9.3. Nel secondo caso sopra ipotizzato, quello in cui la decisione di primo grado non abbia considerato in alcun modo (cioè nè espressamente nè con motivazione indiretta) il fatto integratore dell’eccezione, parimenti si deve distinguere, in relazione all’esito della decisione sulla domanda.

9.3.1. Se la domanda è stata accolta, l’interesse ad impugnare la decisione sarà del convenuto ed egli, proponendo l’appello in via principale, potrà:

a1) criticare la motivazione svolta dal primo giudice, senza dolersi del mancato esame dell’eccezione: in questo caso sull’eccezione non si formerà alcun giudicato, ma l’eccezione diventerà irrilevante nel giudizio di appello, se in senso stretto, mentre, se si tratta di eccezione in senso lato, resterà possibile solo la sua rilevazione per effetto del potere del giudice d’appello art. 345 c.p.c., ex comma 2, dovendo l’attività di rilevazione ad istanza di parte necessariamente avvenire con l’appello principale (perchè si trattava di critica da svolgere alla sentenza di primo grado per l’omessa pronuncia);

a2) dedurre anche, come ragione di dissenso rispetto all’accoglimento della domanda, in aggiunta alla critica della ragione posta a suo fondamento, l’omesso esame dell’eccezione, denunciando la violazione dell’art. 112 c.p.c., da parte del giudice di primo grado (che è stata incidente sull’esito finale), ma necessariamente con un motivo d’appello, con il quale lamenterà che la domanda avrebbe dovuto rigettarsi, oltre che per quanto esposto a critica della ragione esaminata dalla sentenza, anche e comunque se fosse stata esaminata l’eccezione;

a3) dedurre, invece, solo l’omesso esame dell’eccezione (ex art. 112 c.p.c.) ed astenersi dalla critica della motivazione enunciata dalla sentenza, ma ciò solo qualora, nella struttura della fattispecie astratta, l’eccezione non esaminata risulti, ove fondata, logicamente preclusiva della rilevanza della ragione di fondatezza ritenuta dal primo giudice, nel senso che, se risultasse fondata l’eccezione, la domanda dovrebbe essere rigettata nonostante la fondatezza del diverso ragionamento seguito dal primo giudice nel rigettarla: in questo caso l’eccezione ha una rilevanza che la autonomizza rispetto alla motivazione di accoglimento del primo giudice, la critica della quale non risulta perciò necessaria.

In tutte e tre le ipotesi, la devoluzione al giudice d’appello dell’eccezione di merito dev’essere necessariamente veicolata dall’appello principale, perchè è al convenuto, quale soccombente in senso pratico, che spetta l’iniziativa della devoluzione della controversia al giudice d’appello. Tutte le ragioni di dissenso rispetto alla decisione del primo giudice debbono essere veicolate con l’appello e ciò anche rispetto a quanto quel giudice non ha deciso affatto. Il referente normativo dell’art. 342 c.p.c., lo conferma.

9.3.2. Se la domanda è stata, invece, respinta senza alcuna considerazione dell’eccezione di merito che il convenuto aveva svolto, bensì per altre ragioni, l’interesse all’impugnazione della decisione sarà dell’attore, che è soccombente in senso pratico; mentre quello a ottenere che la discussione in appello abbia luogo anche sull’eccezione non considerata sarà del convenuto e qui si pone ed ha senso l’alternativa fra l’appello incidentale e la riproposizione di cui all’art. 346 c.p.c..

9.3.3. Mette conto di considerare che, quando l’eccezione non risulti affatto considerata dalla decisione, si deve, tuttavia, anche valutare l’incidenza di due possibili evenienze.

9.3.3.1. La prima è che il tenore finale della decisione possa essere di contenuto tale che, avuto riguardo alla ragione enunciata ed ancorchè la motivazione non riveli nemmeno in modo indiretto una valutazione sull’eccezione, tuttavia, esclusivamente sotto un profilo astratto, inerente all’ordine logico con cui, con riferimento alla fattispecie dedotta in giudizio, l’eccezione si poneva, possa apparire che quella ragione implichi che l’eccezione sia infondata.

Così, se la domanda, in presenza di un’eccezione di prescrizione del convenuto, viene rigettata dal giudice di primo grado, perchè egli ritiene che i fatti costitutivi non sono stati provati, non è predicabile nemmeno in astratto che il tenore della decisione implichi una valutazione (sebbene astratta) di infondatezza dell’eccezione di prescrizione, e ciò perchè un diritto di cui non è stata dimostrata l’insorgenza non si può prescrivere o non prescrivere. Viceversa, sempre in caso di rigetto della domanda per mancata prova dei fatti costitutivi, ma in presenza di un’eccezione di nullità del rapporto dedotto o di un’eccezione di annullabilità o di invalidità o di inefficacia o relativa ad altro fatto in astratto incidente sui fatti costitutivi, come per esempio una transazione o una novazione, in astratto è ipotizzabile tanto che il giudice di primo grado, scrutinando i fatti costitutivi del rapporto e reputandoli non provati, abbia potuto supporre implicitamente che quelle eccezioni non erano fondate, quanto che non abbia fatto invece alcuna supposizione in tal senso, ma si sia limitato ad enunciare la motivazione basata sulla manata prova semplicemente perchè essa era di immediata percezione (c.d. ragione più liquida) e comunque giustificava la reiezione della domanda.

In questa seconda ipotesi, deve ritenersi che, mancando una decisione sull’eccezione, sia per affermazioni espresse, sia per affermazioni indirette, chiaramente individuatrici, dal solo esito della decisione finale non possa evincersi che l’eccezione sia stata decisa nel senso della infondatezza.

E’ partendo da tale acquisizione, che si deve procedere, in questi casi, a scegliere la soluzione corretta nell’alternativa fra appello incidentale e mera riproposizione ex art. 346 c.p.c..

9.3.3.2. La seconda evenienza da considerare è che il convenuto, nell’articolare il suo atteggiamento difensivo, abbia espressamente indicato al giudice un ordine di preferenza dell’esame delle sue difese e, quindi, anche rispetto alle sue eccezioni di merito, se ne ha proposte più di una.

Questa graduazione dell’ordine di richiesta di esame delle difese potrebbe essere giustificata dal criterio dell’interesse, eventualmente apprezzato anche con riferimento alle possibili ricadute della decisione su altre controversie fra le parti o su controversie fra il convenuto e terzi. Si tratta di una graduazione che non sembra vietata, perchè l’ordinamento nell’art. 276 c.p.c., comma 2, stabilisce un ordine di esame e decisione delle questioni, distinguendo soltanto fra le questioni e, dunque, le eccezioni, pregiudiziali di rito e, genericamente, il “merito”, mentre non stabilisce un ordine all’interno dell’esame di quest’ultimo (e, quindi, della pluralità di eccezioni, in ipotesi proposte). Tanto evidenzia che il giudice, mentre deve necessariamente seguire un criterio di decisione che gli impone di decidere prima le questioni di rito, in quanto esse pregiudicano astrattamente la possibilità di decidere nel merito, viceversa è libero di decidere sul merito, individuando la questione posta a base della decisione. Tuttavia, se la parte eccipiente richieda l’esame gradato di eccezioni inerenti al merito, si deve ritenere che il potere del giudice ne risenta, sicchè egli dovrebbe osservare nell’esame tale gradazione, se risponda ad un interesse. Se questo è vero, può ritenersi che, qualora la domanda venga rigettata sulla base dell’esame di un’eccezione formulata dal convenuto, senza rispettare la graduazione fra le varie eccezioni che egli, in ipotesi, aveva indicato, la decisione, se pure non ha ad oggetto le eccezioni di cui il giudice non si è occupato, tuttavia, risulta avere certamente disatteso la richiesta di graduazione.

9.4. Può passarsi ora all’esame dei confini fra appello incidentale e c.d. mera riproposizione.

La loro individuazione, come già le Sezioni Unite hanno rilevato nella sentenza n. 7700 del 2016, sottolineando al riguardo l’assoluta irrilevanza della struttura marcatamente di revisio prioris istantiae, riacquisita oramai dal giudizio di appello ordinario, rispetto a quella di c.d. novum iudicium, introdotta a suo tempo dalla c.d. riforma del 1950, va fatta: a) in primo luogo, tenendo conto che la riproposizione si deve collocare dove non risulta necessario l’appello incidentale; b) in secondo luogo, considerando che l’appello incidentale di cui all’art. 343 c.p.c., è riconducibile, sotto il profilo funzionale e contenutistico, alla figura dell’impugnazione incidentale in genere, che è disciplinata in generale dall’art. 333 c.p.c., come species del genus “impugnazione”, ma è inoltre soggetto alla disciplina dell’art. 342 cod. proc. quale species dell’appello.

Ne segue che, “poichè al concetto di impugnazione in generale, cui l’appello incidentale deve ascriversi, è coessenziale la necessaria implicazione di mezzo con cui si rivolgono critiche (sulla base di motivi limitati oppure senza limitazione di motivi, a seconda della natura dello specifico mezzo di impugnazione) all’oggetto dell’impugnazione e, quindi, alla decisione, ne deriva che anche l’appello incidentale necessariamente doveva, come deve risolversi, in una critica alla decisione impugnata” (cit. sentenza).

Ciò consente agevolmente di ritenere e ribadire la soluzione data dalla sentenza del 2008 a favore della necessità dell’appello incidentale le quante volte, in presenza di un rigetto della domanda e, quindi, di esito favorevole al convenuto, che, dunque, si trovi in posizione di c.d. soccombenza soltanto teorica, una sua eccezione di merito sia stata oggetto di valutazione da parte della sentenza di primo grado con una motivazione espressa, che abbia enunciato il suo rigetto, oppure sia stata oggetto di una motivazione che, pur non enunciando espressamente il rigetto, lo evidenzi indirettamente, cioè riveli, in modo chiaro ed inequivoco, che il giudice parimenti abbia inteso rigettare l’eccezione.

9.4.1. Poichè l’eccezione è stata oggetto di decisione e tale valutazione fa parte del tessuto motivazionale della sentenza di primo grado, di modo che non rileva più la circostanza che l’eccezione era stata introdotta nell’oggetto del giudizio fra i fatti che avrebbero dovuto essere decisi, ma risulta che essa abbia acquisito rilevanza in quanto ormai oggetto in concreto della decisione, la circostanza che quest’ultima esprime una posizione di soccombenza, di “torto”, sebbene virtuale, a carico del convenuto, costringe, attesa la presenza nel nostro ordinamento dell’istituto dell’appello incidentale accanto a quello della c.d. riproposizione, a collocare la modalità di investitura del giudice d’appello nel primo e non nella seconda.

La ragione è che la valutazione del primo giudice sull’eccezione è consacrata in una parte della motivazione della sua sentenza, onde, rispetto ad essa, la posizione del convenuto non può che essere omologa a quella dell’attore appellante principale, che, di fronte ad una parte della motivazione che gli dà torto, se la vuole ridiscutere, deve farla oggetto dell’appello.

Tanto – ha osservato Cass., Sez. Un., n. 7700 – “ora è anche formalmente evidenziato dall’art. 342 nel testo vigente, là dove parla di “parti del provvedimento”, così evocando il contenuto della decisione come oggetto della critica espressa con l’appello principale, e là dove, nel comma 2, n. 2, evidenzia il carattere della decisività, con l’espressione “rilevanza a fini della decisione impugnata””, pur non essendo “dubbio che il vecchio art. 342 c.p.c., quanto parlava dei “motivi specifici dell’impugnazione”, lo comprendesse già”.

9.4.2. A sostegno di tale conclusione cospirano, del resto, gli argomenti, che – sebbene in un contesto in cui veniva in rilievo una eccezione pregiudiziale di rito – aveva già enunciato Cass., Sez. Un., (ord.) n. 25246 del 2008.

Il primo di essi si desume dal regime delle modalità della pronuncia del giudice sulle eccezioni di merito.

La circostanza che, come emerge dall’art. 187 c.p.c., comma 2, nel giudizio di primo grado la decisione su un’eccezione di merito, in quanto essa è idonea in astratto a definire il giudizio sulla domanda riguardo alla quale è stata proposta ed è riconducibile alle questioni di merito aventi carattere preliminare, può essere fatta oggetto di una decisione parziale, che si esprime nella sentenza non definitiva (parziale), di cui al n. 4 del secondo comma dell’art. 279 cod. proc. civ., evidenzia che la decisione sull’eccezione, quando la pronuncia non ne rileva la fondatezza e, pertanto, definisce il giudizio ma la reputa infondata nel merito o per ragioni di rito, si connota, sebbene soltanto espressione di una “parte” del dovere decisionale del giudice, in una sentenza.

La correlazione – a differenza che nel regime originario del codice alla pronuncia della sentenza parziale di rigetto dell’eccezione alternativamente o della riserva di appello o dell’appello immediato, e in entrambi i casi la previsione della necessità di un’impugnazione, evidenzia che tale decisione dev’essere oggetto di reazione sempre con il mezzo dell’appello; e ciò, allorquando la successiva decisione di merito definitiva veda vincitrice la parte, che aveva visto disatteso la eccezione con la sentenza parziale, con il mezzo dell’appello incidentale ai sensi dell’art. 343 c.p.c., ancorchè il testo dell’art. 340 c.p.c., comma 2, non risulti prevedere tale ipotesi per un difetto di coordinamento redazionale (si veda già in tal senso di Cass. n. 779 del 1987 e, da ultimo, Cass. n. 15784 del 2013).

Da questo regime emerge che, se il giudice di primo grado non faccia luogo alla sentenza parziale sull’eccezione di merito e si pronunci su quest’ultima con la sentenza definitiva, dando ragione al convenuto nonostante il rigetto (espresso o indiretto) dell’eccezione, il regime di devoluzione al giudice d’appello, non potendo mutare la forza della decisione sull’eccezione, secondo che su di essa quel giudice si pronunci con la sentenza parziale o con la definitiva, esige l’impugnazione con l’appello incidentale, essendovi sull’eccezione solo una soccombenza virtuale e non pratica e non potendo il convenuto prendere l’iniziativa di devolvere la controversia al giudice d’appello.

9.4.3. In base alle considerazioni svolte si deve allora ribadire (con la sentenza n. 7700 del 2016) “che al concetto della riproposizione deve ritenersi estraneo ogni profilo di deduzione di una critica alla decisione impugnata (…) e, quindi, di ciò che è connaturato al concetto di impugnazione” e che con la riproposizione il legislatore ha inteso alludere, invece, alla prospettazione al giudice di appello di domande ed eccezioni che possano essere appunto soltanto “riproposte”, cioè proposte come lo erano state al primo giudice. Il fatto che, come dice la norma, esse lo possano essere, perchè risultano da quel giudice “non accolte”, significa che tale mancato accoglimento non è dipeso da una motivazione della sentenza di primo grado che le ha considerate espressamente o indirettamente, ma da mero disinteresse del giudice; sicchè la decisione finale, nella sua struttura motivazionale, non possa in alcun modo reputarsi averle ritenute infondate e, dunque, rigettate.

E’ per questo che l’attività di devoluzione al giudice d’appello della cognizione dell’eccezione non deve espletarsi con il profilo di critica inerente alla figura dell’appello incidentale, ma è sufficiente che si realizzi con la c.d. riproposizione, sebbene essa debba avvenire in modo espresso, cioè con una specifica attività di richiesta al giudice d’appello di esaminare l’eccezione.

In questo caso è vero che si potrebbe pensare che l’omissione della decisione abbia integrato comunque un’omessa pronuncia e che, dunque, abbia determinato la decisione sotto tale profilo, cioè nel senso in cui una decisione, che omette di pronunciare su qualcosa su cui era stato chiesto di pronunciare, pur sempre è frutto anche di tale omissione.

Senonchè, solo se nel regime dell’appello non esistesse l’art. 346 c.p.c., cioè l’istituto della riproposizione, ma solo quello dell’appello incidentale, il cui profilo ricostruito nel senso sopra indicato risente dell’esistenza di tale istituto, certamente, di fronte ad un’omessa pronuncia su un’eccezione di merito, cioè all’astensione sia espressa sia indiretta dalla decisione, sarebbe giuocoforza concludere che la denuncia di essa, da parte del convenuto soccombente virtuale, non avrebbe altro veicolo che quello di un appello incidentale.

L’esistenza dell’art. 346 c.p.c., non consente, invece, tale conclusione.

Ciò è tanto vero che, con riferimento ad un’impugnazione come il ricorso in cassazione, nel cui regime non esiste una norma omologa dell’art. 346 c.p.c., è notorio che, invece, il mezzo per devolvere alla Corte la cognizione di eccezioni e questioni non esaminate sia il ricorso incidentale da parte del resistente, che versi in posizione di vincitore in senso pratico e veda dalla controparte rimessa in discussione la sentenza che gli ha dato ragione.

9.4.4. Restano a questo punto da svolgere alcune precisazioni in relazione all’evenienza,i in cui il convenuto avesse graduato, naturalmente in modo espresso, l’ordine di proposizione di più eccezioni di merito oppure avesse chiesto in via preliminare e sempre espressamente di pronunciarsi sull’eccezione di merito proposta, prima delle altre sue mere difese di merito.

In tal caso, se il giudice non abbia in alcun modo esaminato nè espressamente nè indirettamente l’eccezione e abbia pronunciato sentenza favorevole al convenuto, emerge comunque che in tal modo ha disatteso la richiesta di graduazione o di anteposizione e, dunque, la motivazione, se non rivela quell’esame, rivela certamente che il giudice ha disatteso quella richiesta.

In questa ipotesi, se il convenuto intende mantenere la richiesta di graduazione, è necessario che egli proponga appello incidentale, mentre se si limita a riproporre l’eccezione la conseguenza è che detta richiesta è abbandonata ai sensi dell’art. 329 c.p.c., comma 2.

9.4.5. E’ opportuna un’ulteriore precisazione, che si correla alla distinzione fra le eccezioni di merito affidate al potere di rilevazione soltanto della parte e quelle in cui tale potere spetta anche al giudice.

In questo secondo caso, se vi è stata una decisione espressa o indiretta sull’eccezione nel senso della infondatezza, la mancata proposizione dell’appello incidentale da parte del convenuto vittorioso ha come conseguenza la formazione della cosa giudicata interna sulla infondatezza. Ne consegue che resta precluso, per effetto di tale formazione, il potere del giudice di rilevare l’eccezione ai sensi dell’art. 345 c.p.c., comma 2 (si veda già Cass. n. 1560 del 1987).

9.4.6. Mette conto di rilevare ancora, per ragioni di completezza e considerato che l’arresto del 2008 era stato enunciato in situazione nella quale la Corte doveva occuparsi di un’eccezione di rito, che la ricostruzione proposta del rapporto fra appello incidentale e riproposizione a proposito dell’eccezione di merito non può valere negli stessi termini per le eccezioni di rito.

S’è già veduto che l’art. 276, stabilisce un ordine delle questioni in base al quale il giudice deve esaminare prima le eccezioni di rito e poi il merito.

Con riferimento alle eccezioni di rito, qualora esse siano state disattese espressamente o indirettamente dal primo giudice, che, dunque, su di esse abbia pronunciato, non è dubbio che la parte soccombente su di esse, ma vittoriosa quanto al’esito finale della lite e, dunque, in posizione di soccombenza teorica, se vuole ottenere che esse siano riesaminate dal giudice, investito dell’appello principale sul merito della controparte, deve farlo proponendo appello incidentale e non ai sensi dell’art. 346 c.p.c..

Può accadere che il giudice, nel pronunciare nel merito, rigettando la domanda, ometta di decidere su un’eccezione di rito proposta dal convenuto, nel senso che se ne disinteressi completamente. In tal caso il giudice non solo ha violato l’art. 276 c.p.c., ma il suo disinteresse, a differenza di quello su un’eccezione di merito, non si presta affatto solo ad una valutazione astratta di infondatezza dell’eccezione ma senza alcuna possibilità di considerarla come effettiva, potendo, come s’è detto, il giudice solo avere scelto la soluzione più liquida. In questo caso, poichè l’eccezione di rito doveva esaminarsi prima del merito e ne condizionava l’esame, il silenzio del giudice si risolve però – ancorchè la sua opinione sull’eccezione di rito non sia stata manifestata e possa in ipotesi essere espressione di scelta della soluzione più liquida – in un error in procedendo, cioè nell’inosservanza della regola per cui il merito si sarebbe potuto esaminare solo per il caso di infondatezza dell’eccezione di rito.

La violazione di tale regola, in quanto ha inciso sulla decisione, esige allora una reazione con l’appello incidentale e non la riproposizione dell’eccezione di rito, perchè è necessario che essa venga espressa con un’attività di critica del modus procedendi del giudice di primo grado, che necessariamente avrebbe dovuto esaminare l’eccezione di rito (circa il modo in cui il giudice d’appello andrà investito si ricorda che non si tratterà della denuncia del vizio di omessa pronuncia, bensì della denuncia dell’esistenza del vizio della sentenza per l’eccezione di rito di cui trattasi: in termini Cass. n. 1791 del 2009 e n. 5482 del 1997; adde: Cass. n. 10073 del 2003, n. 14670 del 2001; n. 3927 del 2002; n. 603 del 2003).

Il discorso che si è svolto per le eccezioni di merito, tuttavia, potrà essere riproposto, allorquando il convenuto avesse proposto più gradate eccezioni di rito ed il giudice di primo grado abbia rigettato la domanda in rito, accogliendo la prima, oppure ne abbia accolto una di grado successivo senza pronunciarsi espressamente o indirettamente su di essa. Ma non è questa la sede per indugiare ad esemplificare.

9.4.7 Conclusivamente, deve enunciarsi nell’interesse della legge, il seguente principio di diritto: “Qualora un’eccezione di merito sia stata ritenuta infondata nella motivazione della sentenza del giudice di primo grado o attraverso un’enunciazione in modo espresso, o attraverso un’enunciazione indiretta, ma che sottenda in modo chiaro ed inequivoco la valutazione di infondatezza, la devoluzione al giudice d’appello della sua cognizione, da parte del convenuto rimasto vittorioso quanto all’esito finale della lite, esige la proposizione da parte sua dell’appello incidentale, che è regolato dall’art. 342 c.p.c., non essendo sufficiente la mera riproposizione di cui all’art. 346 c.p.c.. Qualora l’eccezione sia a regime di rilevazione affidato anche al giudice, la mancanza dell’appello incidentale preclude, per il giudicato interno formatasi ex art. 329 c.p.c., comma 2, anche il potere del giudice d’appello di rilevazione d’ufficio, di cui all’art. 345 c.p.c., comma 2. Viceversa, l’art. 346 c.p.c., con l’espressione eccezioni non accolte nella sentenza di primo grado, nell’ammettere la mera riproposizione dell’eccezione di merito da parte del convenuto rimasto vittorioso con riguardo all’esito finale della lite, intende riferirsi all’ipotesi in cui l’eccezione non sia stata dal primo giudice ritenuta infondata nella motivazione nè attraverso un’enunciazione in modo espresso, nè attraverso un’enunciazione indiretta, ma chiara ed inequivoca. Quando la mera riproposizione (che dev’essere espressa) è possibile, la sua mancanza rende irrilevante in appello l’eccezione, se il potere di rilevazione riguardo ad essa è riservato alla parte, mentre, se il potere di rilevazione compete anche al giudice, non impedisce ferma la preclusione del potere del convenuto – che il giudice d’appello eserciti detto potere a norma dell’art. 345 c.p.c., comma 2”.

10. Riprendendo l’esame dei residui motivi, si deve rilevare che il sesto ed il settimo motivo di ricorso – denuncianti rispettivamente, sempre in merito alla domanda di annullamento, la violazione di legge ovvero l’omessa, insufficiente motivazione in ordine al valore interruttivo del corso della prescrizione di una missiva del 5 ottobre 1993 e l’errore di diritto commesso dai giudici di appello nel ritenere applicabile all’azione di annullamento e alla derivante azione risarcitoria il termine di prescrizione quinquennale anzichè quello maggiore previsto per il reato di truffa aggravata – restano assorbiti, stante il già segnalato consolidarsi dell’infondatezza dell’azione di annullamento per la ratio decidendi diversa dalla prescrizione.

11. Con il nono motivo si denunzia l’omessa pronunzia da parte della Corte distrettuale su una non meglio identificata domanda risarcitoria parimenti proposta dalle originarie parti attrici, svolta nella citazione e riprodotta in appello.

11.1. Il motivo è inammissibile, sia perchè omette di individuare i termini, cioè i fatti costitutivi, sulla base dei quali era stata proposta la non meglio identificata azione risarcitoria, sia per l’assoluta genericità della sua illustrazione.

12. Con il decimo motivo si denunzia, infine, l’iniquità della pronuncia impugnata, nella parte in cui ha condannato le ricorrenti a restituire l’importo di cui alla quietanza contestuale all’atto di vendita, in accoglimento dell’appello incidentale della controparte.

Il motivo, nella prima parte della sua illustrazione, dichiara che la decisione della Corte territoriale sul punto sarebbe stata “frutto degli errori sopra dedotti”: sotto tale profilo non può che risentire della sorte dei precedenti motivi in cui si sono denunciati inutilmente tali errori. Nella seconda parte espone una postulazione, meramente assertiva e, peraltro, in termini di mera possibilità, di una diversa ricostruzione in fatto, senza, però, evocare e considerare espressamente la motivazione della sentenza impugnata, risultando privo di decisività e inidoneo allo scopo.

13. Il ricorso è, conclusivamente, rigettato. Le spese del giudizio di cassazione, avuto riguardo all’operatività nella controversia del regime di cui all’art. 92 c.p.c., comma 2, anteriore alla riforma intervenuta nel 2006, possono compensarsi, atteso che il quinto motivo, pur inammissibile all’esito dello scrutinio di quelli precedenti e dell’ottavo, si evidenziava astrattamente fondato nella sua seconda censura, alla stregua del principio di diritto che è stato qui riaffermato nell’interesse della legge.

PQM

La Corte rigetta il ricorso. Compensa le spese del giudizio di cassazione.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio delle Sezioni Unite Civili, il 6 dicembre 2016.

Depositato in Cancelleria il 12 maggio 2017

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