Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 11799 del 09/06/2016

Cassazione civile sez. III, 09/06/2016, (ud. 27/01/2016, dep. 09/06/2016), n.11799

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BERRUTI Giuseppe Maria – Presidente –

Dott. SCARANO Luigi Alessandro – Consigliere –

Dott. GRAZIOSI Chiara – Consigliere –

Dott. SCRIMA Antonietta – Consigliere –

Dott. ESPOSITO Antonio Francesco – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 17391/2013 proposto da:

R.S., (OMISSIS), ammessa al beneficio del

patrocinio a spese dello Stato, domiciliata ex lege in ROMA, presso

la CANCELLERIA DELLA CORTE CASSAZIONE, rappresentata e difesa

dall’avvocato ANGELO AGLIATA giusta procura speciale a margine del

ricorso;

– ricorrente –

contro

H.P., elettivamente domiciliato in ROMA, PIAZZA

FIAMMETTA 11, presso lo studio dell’avvocato SALVATORE ITALIA, che

lo rappresenta e difende giusta procura speciale a margine del

controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 1495/2012 della CORTE D’APPELLO di MILANO,

depositata il 03/05/2012, R.G.N. 3626/2005;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

27/01/2016 dal Consigliere Dott. ANTONIO FRANCESCO ESPOSITO;

udito l’Avvocato SALVATORE ITALIA;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

CARDINO Alberto, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

1. La vicenda che ha dato origine alla controversia puì essere sinteticamente riassunta come segue.

L’arch. R.S. ereditò nel 1975 una porzione pari a due terzi di un immobile denominato (OMISSIS), il cui restante terzo apparteneva al Dott. H.P.. Questi, con contratto di mandato del 22.5.1986, incaricì l’arch. R. di dare esecuzione alla ristrutturazione dell’immobile, conferendo contestualmente anche il mandato a vendere la sua parte di proprietà (mandato a vendere ribadito con procura notarile del 17.6.1986). A seguito del decesso del padre, subentrò quale erede il figlio H.P., che, in data 17.3.1992, conferò all’arch.

R. procura a vendere gli appartamenti facenti parte del complesso ricevuti in eredità.

Tale procura venne revocata a seguito dell’atto di citazione con il quale R.S. convenne in giudizio dinanzi al Tribunale di Milano H.P. per sentirlo condannare al pagamento della somma di Lire 685.107.192, oltre accessori, a titolo di rimborso per spese affrontate nell’interesse del convenuto in esecuzione del mandato ricevuto, oltre al pagamento del corrispettivo per tale mandato nonchè dei compensi professionali di architetto.

Costituitosi in giudizio, H.P. contestò la fondatezza delle pretese attoree e chiese, in via riconvenzionale, la condanna dell’arch. R. al pagamento della somma di Lire 970.213.249, oltre intere si, a titolo di restituzione delle somme dalla stessa ricavate dalla compravendita degli appartamenti di proprietà H. e di rimborso delle spese sostenute da esso convenuto per la ristrutturazione dell’immobile.

2. Il Tribunale, dopo aver ordinato all’attrice di rendere il conto e aver disposto C.T.U. per accertare i rapporti di dare e avere tra le parti, con sentenza del 16.7.2004, dichiarò prescritto il diritto al pagamento dei compensi professionali rivendicato dall’arch. R. e respinse le altre domande formulate dalle parti, con compensazione delle spese processuali.

3. Interposto gravame da R.S. dinanzi alla Corte d’appello di Milano, nel contraddittorio con H.P., veniva disposto il rinnovo della C.T.U.. Quindi, con sentenza del 3.5.2012, la corte confermava la sentenza impugnata, condannando l’appellante al pagamento delle spese del grado.

In riferimento alla ritenuta prescrizione decennale del diritto al pagamento delle competenze professionali, rilevava la corte territoriale che l’arch. R. non aveva specificato le eventuali prestazioni riguardo alle quali non sarebbe maturata la prescrizione, mentre g i atti dalla stessa invocati non erano idonei ad interrompere la prescrizione. Riteneva, inoltre, che, in considerazione della natura dei rapporti esistenti tra le parti e del concreto svolgimento degli stessi, tenuto altresì conto che l’arch.

R. aveva agito anche nell’interesse proprio, risultava superata la presunzione di onerosità del mandato. Rilevava, infine, che correttamente il giudice di primo grado aveva ritenuto inutilizzabili i documenti prodotti dall’attrice oltre il termine di cui all’art. 184 c.p.c., posto che la materiale difficoltà di reperimento dei documenti non integrava causa non imputabile alla parte ex art. c.p.c., non avendo peraltro l’arch. R. richiesto la rimessione in termini.

4. Contro la decisione propone ricorso per cassazione R.S., affidato a tre motivi.

Resiste con controricorso H.P..

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo di ricorso R.S. denuncia violazione o falsa applicazione degli artt. 1219, 2935, 2943, 2944 e 2956 c.c. (art. 360 c.p.c., n. 3).

Censura la ricorrente la sentenza impugnata per avere ritenuto che fosse maturata la prescrizione decennale del diritto al pagamento delle proprie competenze professionali. Assume l’arch. R. che erroneamente la Corte d’appello di Milano aveva considerato gener ico il motivo di gravame con il quale si contestava la declaratoria di prescrizione per non avere l’appellante specificato le eventuali prestazioni riguardo alle quali non sarebbe maturata la prescrizione, mentre dalla relazione di accertamento tecnico preventivo del 9.5.988 risultava che a tale data i lavori di ristrutturazione dell’edificio erano ancora in corso e dalle fatture in atti che le opere vennero ultima nel 1989. Pertanto, da tale anno (e non dal 1988) decorreva la prescrizione decennale, la quale, all’epoca dell’atto introduttivo del giudizio (aprile 1998) non era dunque maturata, dovendosi considerare la prestazione professionale unica nel suo complesso.

Rileva inoltre la ricorrente che, contrariamente all’assunto delle corte territoriale, i rendiconti inviati nel corso del tempo agli H., mai contestati, assumevano il valore di riconoscimento del credito, con conseguente rinuncia tacita a far valere la prescrizione, integrando altresì i caratteri della costituzione in mora ai fini della interruzione della prescrizioni.

Le censure sono inammissibili o comunque infondate.

La ricorrente, pur a fronte di un denunciato vizio di violazione di legge, in realtà lamenta essenzialmente una erronea valutazione delle circostanze fattuali che, se rettamente apprezzate, avrebbero dovuto condurre ad escludere, nella specie, il decorso del termine di prescrizione del diritto al pagamento delle competenze professionali.

In tal modo, la ricorrente prospetta, nella sostanza, un vizio di motivazione della sentenza impugnata, la cui deduzione conferisce al giudice di legittimità non il potere di riesaminare il merito della intera vicenda processuale sottoposta al suo vaglio, bensì la sola facoltà di controllo, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico-formale, delle argomentazioni svolte dal giudice del merito al quale spetta, in via esclusiva, il compito di individuare le fonti del proprio convincimento.

Ciò posto, va osservato che le censure mosse dalla ricorrente, basate su circostanze di fatto afferenti all’epoca di ultimazione dei lati, se per un verso impingono nel merito della causa, per altro verso non appiano decisive in riferimento alla ratio decidendi della sentenza impugnata, basata sulla mancata indicazione da parte dell’arch. R. di quali fossero le prestazioni professionali che, per la loro collocazione temporale, avrebbero portato ad escludere il maturare della prescrizione, mentre le circostanze dedotte dalla ricorrente sono volte a dimostrare soltanto che i lavori non erano stati ultimati nel 1988. Per quanto concerne i rendiconti inviati dall’arch. R., è da rilegare come la corte territoriale, con valutazione immune da vizi logico giuridici ed incensurabile in questa sede, abbia accertato che gli stessi integrassero atti di costituzione in mora, mentre la mancata indicazione di somme richieste per compensi professionali esclude la configurabilità di un riconoscimento tacito del credito.

2. Con il secondo motivo di ricorso si deduce violazione o falsa applicazione degli artt. 1709, 2727, 2728 e 2729 c.c. (art. 360 c.p.c., n. 3); omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto controverso per il giudizio (art. 360 n. 5 c.p.c.).

Censura la ricorrente, sotto il duplice profilo della violazione di le ge e del vizio di motivazione, la sentenza impugnata nella parte in cyi ha ritenuto che la presunzione di onerosit_Edel mandato fosse superata sulla base di una valutazione complessiva dei rapporti tra lepartinonch_Edella considerazione dell’interesse anche personale perseguito dall’arch. R. nell’esecuzione del mandato.

Il motivo è infondato.

Anche con il mezzo di impugnazione in scrutinio, la ricorrente tende, nella sostanza, ad ottenere un riesame del merito della controversia, inammissibile in sede di legittimità prospettando una di valutazione delle circostanze fattuali valorizzate dai giudici di merito, al fine di ottenere la revisione della pronuncia impugnata. Per contro, la corte territoriale, con decisione giuridicamente corretta e coerente sotto il profilo logico formale, richiamando le considerazioni espresse dal primo giudice, ha rilevato come la gratuità del mandato fosse comprovata, superando così la presunzione sancita dall’art. 1709 c.c., da elementi concreti quali la natura dei rapporti intercorsi tra le arti (la storia familiare di cui i litiganti e, prima ancora, i loro genitori furono protagonisti), la circostanza che l’arch. R. avesse agito anche nell’interesse proprio, essendo comproprietaria di due ferzi dell’immobile oggetto di ristrutturazione, il fatto che risultasse documentalmente provato che la stessa nei rendiconti non avesse predisposto alcuna voce relativa ai compensi professionali, nè richiesto a tale titolo alcuna somma.

3. Con il terzo motivo si lamenta violazione o falsa applicazione degli artt. 184 e 345 c.p.c. (art. 360 c.p.c., n. 3); omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto controverso per il giudizio (art. 360 c.p.c., n. 5).

Censura la ricorrente il capo della sentenza impugnata con il quale la corte di merito, nel confermare la statuizione del primo giudice di inutilizzabilità dei documenti prodotti dopo il decorso dei termini di cui all’art. 184 c.p.c., aveva disatteso la richiesta di produzione di detti documenti in appello, pur trattandosi di prove precostituite indispensabili ai fini della decisione.

Il motivo è infondato.

Va premesso che, ai giudizi pendenti in primo grado alla data di entrata in vigore della L. n. 69 del 2009 si applica l’art. 345 c.p.c., come modificato dalla suddetta legge (art. 58). Pertanto, nella specie, trattandosi di giudizio instaurato in primo grado nell’aprile del 1098, trova applicazione il divieto di produzione di nuovi documenti in appello, salvo che non siano ritenuti indispensabili per la decisione o che la parte non abbia potuto produrli in primo grado per causa ad essa non imputabile.

Il requisito della indispensabilitè del documento non può essere tuttavia sganciato dalla valutazione in ordine alla imputabilità alla parte della omessa produzione in primo grado, posto che, diversamente opinando, sarebbe consentito alla parte medesima di sanare preclusioni o decadenze in cui è colpevolmente incorsa nel giudizio di prime cure. In questa prospettiva, devono considerarsi documenti indispensabili soltanto quelli che attengono a fatti che acquistano rilevanza ai fini della decisione per la prima volta nel giudizio di appello, cioè quei documenti che non hanno trovato ingresso in grado non per negligenza della parte, ma perchè originariamente irrilevanti.

Poichè i documenti in questione non sono stati prodotti dalla od ricorrente entro i termini di cui all’art. 184 c.p.c., non avendo peraltro la stessa come rilevato nella sentenza impugnata – chiesto la rimessione in termini per essere incorsa in decadenza per causa ad essa non imputabile, correttamente la corte di merito non ha ammesso in appello i documenti in questione.

4. Alla stregua delle considerazioni sin qui svolte, il ricorso deve essere quindi rigettato.

Le spese del giudizio di cassazione, liquidate come in dispoitivo, seguono la soccombenza.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, la ricorrente è tenuta al versamento dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso.

PQM

La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio, liquidate in complessivi Euro 9.200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali e accessori come per leg e. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Terza Civile, il 27 gennaio 2016.

Depositato in Cancelleria il 9 giugno 2016

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