Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 11798 del 27/05/2011

Cassazione civile sez. I, 27/05/2011, (ud. 18/04/2011, dep. 27/05/2011), n.11798

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. VITRONE Ugo – Presidente –

Dott. DOGLIOTTI Massimo – Consigliere –

Dott. RAGONESI Vittorio – rel. Consigliere –

Dott. BISOGNI Giacinto – Consigliere –

Dott. SCALDAFERRI Andrea – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 25897/2008 proposto da:

COMUNE DI TIVOLI (c.f. (OMISSIS)), in persona del Sindaco pro

tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, PIAZZA CAVOUR 17, presso

l’avvocato ANGELINI Massimo, che lo rappresenta e difende unitamente

all’avvocato ACONE MODESTINO, giusta procura a margine del ricorso e

procura speciale per Notaio dott.ssa VALERIA SESSANO di TIVOLI – Rep.

n. 76570 del 21.3.11;

– ricorrente –

contro

ACEA S.P.A. (c.f. (OMISSIS)), in persona del procuratore speciale

pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA MICHELE MERCATI

51, presso l’avvocato BRIGUGLIO Antonio, che la rappresenta e difende

unitamente all’avvocato SIRACUSANO ALESSANDRA, giusta procura a

margine del controricorso;

COMUNE DI ROMA, in persona del Sindaco pro tempore, elettivamente

domiciliato in ROMA, VIA DEL TEMPIO DI GIOVE 21, presso l’Avvocatura

Comunale, rappresentato e difeso dagli avvocati CECCARELLI AMERICO,

ROCCHI ROSALDA, giusta procura a margine del controricorso;

– controricorrenti –

contro

ENEL S.P.A.;

– intimata –

avverso la sentenza n. 3384/2007 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 30/07/2007;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

18/04/2011 dal Consigliere Dott. VITTORIO RAGONESI;

udito, per il ricorrente, l’Avvocato M. ANGELINI che ha chiesto

l’accoglimento del ricorso;

udito, per il controricorrente Comune di Roma, l’Avvocato A.

CECCARELLI che ha chiesto il rigetto del ricorso;

udito, per la controricorrente ACEA, l’Avvocato U. COREA, per delega,

che ha chiesto il rigetto del ricorso;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

CESQUI Elisabetta, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Il comune di Tivoli convenne dinanzi al Tribunale di Roma, il comune della stessa città e l’ACEA S.p.a. per sentirle condannare al risarcimento dei danni subiti per avergli impedito di riscattare la quota consortile del Consorzio Idroelettrico dell'(OMISSIS).

Dedusse che: a) in forza di decreto reale del 1920, aveva ottenuto la concessione di derivazione delle acque del fiume (OMISSIS) in territorio di Tivoli, per anni 60, con l’obbligo di consorziarsi con altro concessionario per la realizzazione di impianti idroelettrici;

b) aveva ceduto al comune di Roma, con convenzione del 20.7.1923 e dietro pagamento di un canone annuo, i diritti derivanti dalla concessione per la durata di 25 anni, poi prolungata a 30, con convenzione del 18.4.1926, a decorrere dal funzionamento degli impianti; c) nella originaria convenzione era stabilito che, allo scadere dei 25 anni, il comune di Tivoli avrebbe avuto diritto a riscattare la quota di partecipazione del comune di Roma nel costituendo consorzio dietro pagamento della stessa quota al valore effettivo dell’epoca; d) con atto notificato il 15.3.1958 aveva dichiarato di voler esercitare il diritto di riscatto della quota suddetta, dichiarandosi pronto a corrispondere il prezzo non appena determinato; e) avendo la controparte contestato il suo diritto, aveva instaurato un giudizio dinanzi al Tribunale di Roma che, con sentenza del marzo 1996, confermata dalla Corte di Appello e dalla Corte di Cassazione, aveva accertato il suo diritto al riscatto della quota; f) medio-tempore, con D.P.R. n. 664 del 1965, era stato disposto il trasferimento all’ENEL dell’Impresa del Consorzio Idroelettrico dell'(OMISSIS), in attuazione della L. n. 1643 del 1962, che aveva reso di fatto impossibile il riscatto della quota.

Concluse, quindi, che l’illegittimo rifiuto del convenuto comune di Roma gli aveva provocato ingenti danni, dai quali doveva essere detratta la somma da versarsi per il riscatto, pari al valore della quota consortile alla data dell’ottobre 1958.

Costituitosi, il comune di Roma chiese rigettarsi la domanda deducendo, tra l’altro, la decadenza e la prescrizione; in subordine chiese di chiamare in causa l’ACEA per essere manlevata.

Quest’ultima nel costituirsi, eccepì che, pur avendo il comune attore il diritto di riscattare la quota, non lo aveva esercitato nei modi e termini contrattualmente previsti.

Chiamata in causa anche l’ENEL, questa eccepì la inammissibilità della chiamata sia per mancanza di delega al procuratore dell’ACEA sia per non essere stata proposta alcuna domanda nei suoi confronti.

Il Tribunale disattese la domanda compensando tra tutte le patti le spese di lite.

Avverso la suddetta decisione proponeva appello, con atto notificato il 22/23.1.2004, il comune di Tivoli chiedendo la riforma della decisione in suo favore, con l’accoglimento della domanda risarcitoria, e deducendo che: a) il giudice di primo grado era incorso in una violazione del giudicato formatosi nel precedente giudizio; b) comunque era inesistente l’eccepita decadenza, avendo esso appellante costituito in mora il comune di Roma. Costituitisi, il comune di Roma e l’ACEA S.p.a. chiedevano il rigetto del gravame allegandone l’infondatezza.

L’ENEL S.p.a. non si costituiva ed il giudizio proseguiva nella sua contumacia.

La Corte d’appello di Roma, con sentenza 3384/07, rigettava l’appello. Avverso la detta decisione ricorre per cassazione il comune di Tivoli sulla base di sette motivi cui resistono, con separati controricorsi, il comune di Roma e l’ACEA. Tutte le parti hanno depositato memorie.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo di ricorso, il comune di Tivoli lamenta la violazione e falsa applicazione dell’art. 324 c.p.c. e art. 2909 c.c. e dei principi che regolano la cosa giudicata, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3. Sostiene a tale proposito la violazione – ad opera della sentenza impugnata – del giudicato a suo dire formatosi, a seguito della pronuncia del 1993 di codesta Suprema Corte, della sentenza del Tribunale di Roma del 1976 nel punto che aveva rigettato l’eccezione di avvenuta decadenza dal diritto al riscatto vantato del Comune di Tivoli per il mancato pagamento del valore della quota consortile.

Con il secondo motivo di ricorso, lamenta la violazione dell’art. 360 c.p.c., n. 5, perchè sarebbe stata completamente omessa la motivazione sul rilievo formulato dall’appellante alla sentenza di primo grado, laddove tale sentenza aveva attribuito intento solutorio di corrispettivo ad una quantificazione del valore della quota consortile chiesta dall’attore soltanto per determinare il danno subito, nella cui valutazione il valore della quota consortile avrebbe dovuto essere detratto dalle voci attive di danno derivate dal rifiuto di vendita della quota consortile.

Con il terzo motivo di ricorso, deduce il vizio di omessa motivazione della sentenza impugnata sostenendo che la Corte d’Appello, nonostante abbia dimostrato di aver ben compreso l’avversa argomentazione consistente nel fatto che la valutazione del primo giudice era comunque fallace, perchè il rifiuto opposto dal Comune di Roma all’acquisto avrebbe impedito ogni discussione sul prezzo, avrebbe poi omesso di motivare il rigetto di tale argomento.

Con il quarto motivo di ricorso, deduce la violazione dell’art. 360 c.p.c., n. 5, assumendo che la motivazione della Corte di Appello di Roma è assolutamente insufficiente sulla affermazione relativa alla pretesa carenza probatoria del documento prodotto dalla parte appellante (diffida notificata il 18.10.1958) ai fini della mancanza di collaborazione del Comune di Roma nella determinazione del valore della quota consortile, e carente ed illogica nella pretesa di ravvisare nel documento la prova della impossibilità di determinare tale valore pur in assenza di collaborazione, ed in più, avendo omesso del tutto l’esame degli elementi che tale prova costituivano, indicati dall’appellante sulla scorta della sentenza resa inter partes dal Tribunale di Roma n. 3687 del 1976, e, cioè, il fatto che fossero elementi patrimoniali dell’azienda del creditore nonchè la circostanza che la stessa convenzione del 1926 prescriveva che per determinare tale valore occorresse tener presente il grado e l’indice di ammortamento degli impianti ed altri elementi ancora.

Con il quinto motivo di ricorso, deduce il vizio di motivazione asserendo che la motivazione della Corte di Appello di Roma è stata completamente omessa sul rilievo formulato dall’appellante secondo cui il Tribunale aveva erroneamente ravvisato inesistenza di mora del creditore con il richiamo all’art. 1206 c.c., pretendendo a torto che il debitore attivasse il procedimento di offerta reale , anche nella ipotesi che il creditore non avesse compiuto quanto necessario affinchè il debitore potesse adempiere l’obbligazione.

Con il sesto motivo di ricorso, lamenta la violazione e falsa applicazione dell’art. 1206 c.c., da parte della sentenza impugnata laddove questa aveva affermato che, nella ipotesi che il Comune di Roma non avesse compiuto quanto necessario perchè il Comune di Tivoli potesse adempiere l’obbligazione, quest’ultimo Comune avrebbe dovuto attivare il procedimento di cui all’art. 1206 c.c., e segg., perchè il Comune di Roma potesse essere costituito in mora.

Con il settimo motivo di ricorso, lamenta la violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 c.c., art. 360 c.p.c., n. 3, assumendo che, avendo il Comune di Tivoli inoltrato al Comune di Roma la diffida del 1958 e avendo il primo affermato di non aver avuto risposta a quella diffida, sarebbe stato onere del Comune di Roma provare di aver invece prestato la collaborazione necessaria a consentire l’adempimento del medesimo Comune di Tivoli, con inversione pertanto della disciplina di cui all’art. 2967 c.c..

Venendo all’esame del primo motivo di ricorso, il comune di Tivoli sostiene l’esistenza del giudicato formatosi a seguito della sentenza del tribunale di Roma del 1976, confermata in appello ed in Cassazione, che aveva accertato il diritto al riscatto della quota di partecipazione del comune di Roma nel consorzio idroelettrico dell’Amene, e che si era pronunciata sulla eccezione sollevata dal comune di Roma e dall’Acea di decadenza dal diritto al riscatto.

Rileva a tale proposito il comune ricorrente che il tribunale aveva ritenuto infondata l’eccezione in questione per non avere l’attore provveduto al pagamento, nel termine prescritto per il riscatto, della somma pari al valore della quota del Comune di Roma nel Consorzio perchè il Comune predetto, opponendo la decadenza di cui sopra ai sensi dell’art. 1501 c.c., non aveva fornito al Comune di Tivoli la necessaria valutazione estimativa della quota da riscattare. Sottolinea a tale proposito che la sentenza in questione aveva argomentato che la predetta valutazione poteva essere effettuata solo dal Comune di Roma” trattandosi di elementi patrimoniali di una propria azienda …..e che la determinazione della quota del Consorzio non è operazione di semplice effettuazione, che per proprio conto poteva essere realizzata dall’attore, atteso che, tanto per fare un esempio, a norma della convenzione del 1926 occorre tenere presente, all’uopo, il grado e l’indice di ammortamento degli impianti e di altri elementi, fattori tutti valutabili solo a mezzo dell’intervento – che è mancato – del Comune di Roma e dell’ACEA. Del resto la presente causa è stata promossa a seguito del mancato riconoscimento da parte del convenuto del diritto dell’attore anteriormente alla scadenza del termine contrattuale previsto per il pagamento del valore della quota, onde anche sotto questo profilo non può ritenersi il Comune di Tivoli decaduto dal suo diritto ad acquistare la quota del Comune di Roma nel Consorzio idroelettrico dell’Amene e rientrare con ciò nella piena disponibilità dell’utenza di acqua pubblica”. Alla luce di tale pronuncia il Comune di Tivoli sostiene essersi formato il giudicato esterno sulla questione relativa al fatto che il mancato pagamento del riscatto non fosse ad esso addebitabile bensì al comune di Roma, ai sensi dell’art. 1206 c.c., per la mancata collaborazione nella determinazione del valore della quota, con la conseguenza che nella presente causa il giudice di merito avrebbe dovuto attenersi al giudicato formatosi e non avrebbe potuto affermare in contrario la mancanza di un giudicato sul punto e conseguentemente l’infondatezza della domanda risarcitoria proposta per non avere esso comune di Tivoli corrisposto nei termini previsti la somma corrispondente al valore della quota di partecipazione nel consorzio idroelettrico e per non essersi attivato quanto meno a fare l’offerta formale di cui all’art. 1206 c.c..

La doglianza è infondata, anche se la motivazione della Corte d’appello va corretta ai sensi dell’art. 384 c.p.c..

Ciò che rileva nel caso di specie invero non è tanto la diversità dei giudizi il precedente volto all’accertamento del diritto del comune di Tivoli ad effettuare il riscatto ed il presente avente ad oggetto il risarcimento del danno subito dal comune di Tivoli per essere stato posto nella impossibilità di esercitare il proprio diritto al riscatto dalla mancata collaborazione del Comune di Roma nella determinazione del valore della quota. Potrebbe infatti anche astrattamente ritenersi che proprio tale ultima questione sia stato oggetto di pronuncia da parte della citata sentenza del tribunale di Roma del 1976.

Ciò che vale invece ad escludere l’esistenza del giudicato in questione è il fatto che la pronuncia del tribunale di Roma relativa alla mancanza di responsabilità del comune di Tivoli per il mancato tempestivo pagamento della quota di riscatto è stata ritenuta assorbita a seguito di gravame dalla sentenza della Corte d’appello del 31.3.89 che ha ritenuto che, dovendosi escludere che la pattuizione relativa al riscatto intercorsa tra le parti fosse riconducibile ad una ipotesi di riscatto prevista dall’art 1500 c.c., la ulteriore censura del Comune di Roma, relativa al mancato pagamento del controvalore della quota di partecipazione al Consorzio idroelettrico, essendo formulata con esclusivo riguardo all’onere gravante sul riscattante, doveva ritenersi assorbita.

Tale pronuncia di assorbimento è stata confermata dalla sentenza n. 12053/93 di questa Suprema Corte che ha argomentato che non poteva “fondatamente rimproverarsi alla Corte del merito di aver ritenuto assorbita la questione relativa all’eccezione di decadenza per mancato pagamento del prezzo della quota cedenda, dal momento che la questione risulta effettivamente sollevata dal Comune appellante “con esclusivo riguardo ” al dedotto riscatto e non si prestava, perciò, a trasposizioni d’ufficio da parte del giudice dell’appello, una volta escluso che di “riscatto” si potesse correttamente discorrere, trovando il diritto Comune di Tivoli all’acquisto della quota fondamento in altro titolo, non caducabile per effetto di una eccezione ad esso non riferita, tolto anche che la dichiarazione di assorbimento esprime, comunque, il pensiero del giudice sulla rilevanza della questione dichiarata assorbita e non può quindi, essere disinvoltamente assimilata alla omissione di pronuncia”.

Accertato quanto sopra, va rammentato che la sentenza di appello assorbe e sostituisce quella di primo grado, sicchè la portata della pronuncia confermativa va desunta dai limiti fissati dalla nuova motivazione (Cass. Sez. un. 6706/93; Cass. 2271/03). Ciò posto, questa Corte ha già avuto occasione di chiarire che la declaratoria di assorbimento di una questione, non da luogo ad alcuna decisione sul merito della questione assorbita, bensì ad una pronuncia di mero rito: quella dichiarativa appunto dell’assorbimento (Cass. 10545/08).

Da ciò consegue che nessun giudicato può formarsi su una pronuncia di mero rito. In tal senso la giurisprudenza, sia pur risalente, di questa Corte ha ripetutamente affermato, ad esempio, che dalla cassazione con rinvio in accoglimento di un motivo dichiarato assorbente non consegue il passaggio in giudicato della sentenza denunciata relativamente alle questioni assorbite, che, in quanto tali, non si possono considerare decise e che possono essere riproposte in separato giudizio ove non siano sollevate in sede di rinvio (Cass. 2506/62; Cass. 1364/63, Cass. 542/78).

Nel caso specie dunque, nessun giudicato può ritenersi formato sulla assorbita questione della mancanza di responsabilità del Comune di Tivoli in ordine al mancato pagamento del riscatto della quota consortile ,dal momento che la sentenza della Corte d’appello del 1989 ha sostituito quella del tribunale del 1976 con una diversa motivazione di assorbimento della citata questione con la conseguenza che quest’ultima è stata correttamente oggetto di esame e valutazione in occasione del presente giudizio.

E’ appena il caso di aggiungere che in tale assorbimento deve ritenersi compreso anche l’aspetto relativo alla esclusione della decadenza in ragione dell’inizio della causa di accertamento del diritto al riscatto prima della scadenza del termine contrattuale per il pagamento della quota essendo la pronuncia di assorbimento della sentenza della Corte d’appello del 1989 riferita in modo omnicomprensivo alla eccezione di decadenza conseguente al mancato pagamento del controvalore della quota e quindi a tutte le argomentazioni svolte sul punto da parte della sentenza del tribunale del 1979.

Il motivo va dunque rigettato.

Venendo all’esame del secondo motivo, lo stesso si rivela inammissibile.

La questione sulla quale si lamenta l’omessa motivazione relativa alla doglianza avverso la sentenza del tribunale che aveva attribuito intento solutorio alla richiesta di scomputare dal risarcimento del danno la somma dovuta a titolo di riscatto delle quote consortili, costituisce infatti un elemento assolutamente irrilevante in giudizio una volta che la Corte d’appello ha ritenuto che il mancato pagamento del riscatto fosse addebitabile al comportamento del comune di Tivoli, poichè tale circostanza, del tutto dirimente e decisiva, rende superflui ai fini del decidere gli aspetti evidenziati dal comune ricorrente.

Il terzo motivo prospettato sotto il profilo della omessa motivazione appare infondato.

Lo stesso comune ricorrente assume che la doglianza fatta valere con l’atto di appello relativa alla mancata valutazione da parte del primo giudice della circostanza già accertata dalla sentenza del 1976, secondo cui il comune di Tivoli non poteva ritenersi decaduto per avere comunque iniziato la causa di accertamento del proprio diritto anteriormente alla scadenza del termine contrattuale previsto, era stata percepita dalla Corte d’appello laddove aveva sintetizzato la stessa con la frase: “la valutazione del giudice di primo grado era comunque fallace perchè il rifiuto opposto dal comune di Roma all’acquisto avrebbe impedito ogni discussione sul prezzo”.

Osserva il collegio che proprio successivamente a tale frase la Corte d’appello inizia la propria motivazione comprensiva dell’intero secondo motivo di appello ove esclude che, in tema di decadenza dal diritto di riscatto, si fosse formato il giudicato in base alla sentenza del 1976, comprendendo in tale motivazione, ancorchè in modo implicito la doglianza in questione del comune di Tivoli.

Il quarto motivo è inammissibile.

Con tale motivo il comune ricorrente si duole della insufficiente motivazione della sentenza impugnata laddove ha concretamente escluso che il mancato pagamento della quota fosse addebitabile a responsabilità del comune di Roma per mancata collaborazione.

A tale proposito la sentenza rileva che l’atto di significazione e diffida prodotto in causa dal comune di Tivoli “non fornisce la prova nè della mancanza di collaborazione nè dell’impossibilità di eseguire la prestazione in assenza di tale collaborazione e, cioè, della rapportabilità alle parti appellate del danno asseritamente subito”.

Trattasi di una valutazione di merito basata sull’analisi di un documento che, per quanto sintetica costituisce un accertamento in fatto come tale non sindacabile in questa Corte.

Il comune ricorrente si duole del mancato esame di una serie di documenti elencati nella diffida, ma di tali documenti, in violazione del principio di autosufficienza del ricorso, non solo non riporta il contenuto ma non dice neppure dove siano contenuti nel fascicolo di parte.

Si duole poi del fatto che la Corte d’appello non abbia preso in considerazione alcuna delle argomentazioni contenute nell’appello e, da quest’ultimo, riprese dalla sentenza del tribunale di Roma del 1979 nè abbia tenuto conto della convenzione del 1926.

Trattasi di censure che investono il merito della decisione che non appaiono pertanto scrutinabili in questa sede di legittimità.

Sul punto, quanto al contenuto dell’onere motivazionale che grava sul giudice di appello, va ricordato che la sentenza di secondo grado deve esplicitare gli elementi imprescindibili a rendere chiaro il percorso argomentativo che fonda la decisione (Cass. Sez. un. n. 10892 del 2001), ma l’onere di adeguatezza della motivazione non comporta che il giudice del merito debba occuparsi di tutte le allegazioni della parte, nè che egli debba prendere in esame, al fine di confutarle o condividerle, tutte le argomentazioni da questa svolte. E, infatti, sufficiente che il giudice dell’impugnazione esponga, anche in maniera concisa, gli elementi posti a fondamento della decisione e le ragioni del suo convincimento, così da doversi ritenere implicitamente rigettate tutte le argomentazioni incompatibili con esse e disattesi, per implicito, i rilievi e le tesi i quali, se pure non espressamente esaminati, siano incompatibili con la conclusione affermata e con l’iter argomentativo svolto per affermarla (Cass., n. 696 del 2002; n. 10569 del 2001; n. 13342 del 1999); è cioè sufficiente il riferimento alle ragioni in fatto ed in diritto ritenute idonee a giustificare la soluzione adottata, tenuto conto dei motivi esposti con l’atto di appello (Cass. n. 9670 del 2003; Cass. n. 2078 del 1998).

Il quinto ed il sesto motivo del ricorso possono essere esaminati congiuntamente riguardando entrambi la questione relativa all’applicabilità dell’art. 1206 c.c..

I motivi sono infondati.

Invero, essi contestano nuovamente il presupposto del ragionamento del giudice di merito secondo cui nessun addebito sarebbe imputabile al comune di Roma in ordine alla mancata collaborazione per la definizione del prezzo del riscatto della quota consortile per cui continuano a ribadire che, nel caso di specie, il creditore comune di Roma era comunque in mora ai sensi dell’art. 1206 c.c., ultima parte, che stabilisce appunto che il creditore è in mora quando non compie quanto è necessario affinchè il debitore possa adempiere la propria obbligazione, senza quindi che si rendesse necessaria alcuna offerta formale ai sensi della prima parte del citato art. 1206.

L’infondatezza dell’assunto in questione deriva dal rigetto o dalla inammissibilità dei motivi che precedono. Una volta accertato che al comune di Roma non poteva essere addebitato alcun comportamento colpevole impeditivo dell’adempimento da parte del Comune di Tivoli in ordine al pagamento del controvalore della quota consortile, ne discende automaticamente che nessuna automatica costituzione in mora del creditore comune di Roma si era verificata , onde necessariamente il comune di Tivoli doveva attivare per la messa in mora l’offerta reale di cui all’art. 1208 c.c..

Il settimo motivo è inammissibile. Lo stesso risulta infatti nuovo non risultando la questione dell’inversione dell’onere della prova trattato dalla sentenza di appello nè deducendo il ricorrente di averla dedotta nella fase di merito.

E’ appena il caso di ricordare a tale proposito che la giurisprudenza di questa Corte ha ripetutamente affermato che ove una determinata questione giuridica – che implichi un accertamento di fatto – non risulti trattata in alcun modo nella sentenza impugnata, il ricorrente che proponga detta questione in sede di legittimità ha l’onere, al fine di evitare una statuizione di inammissibilità per novità della censura, non solo di allegare l’avvenuta deduzione della questione innanzi al giudice di merito, ma anche di indicare in quale atto del giudizio precedente lo abbia fatto, onde dar modo alla Corte di Cassazione di controllare “ex actis” la veridicità di tale asserzione prima di esaminare nel merito la questione stessa (ex plurimis Cass. 20518/08).

Il ricorso va in conclusione rigettato. La complessità delle questioni trattate giustifica la compensazione delle spese di giudizio.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e compensa le spese di giudizio.

Così deciso in Roma, il 18 aprile 2011.

Depositato in Cancelleria il 27 maggio 2011

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