Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 11795 del 27/05/2011

Cassazione civile sez. I, 27/05/2011, (ud. 09/03/2011, dep. 27/05/2011), n.11795

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. VITRONE Ugo – Presidente –

Dott. MACIOCE Luigi – Consigliere –

Dott. BERNABAI Renato – Consigliere –

Dott. CRISTIANO Magda – Consigliere –

Dott. MERCOLINO Guido – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

P.S., elettivamente domiciliato in Roma, alla via

Saluzzo n. 8, presso l’avv. FERNANDO NATALE, unitamente all’avv.

SILVIO FERRARA, dal quale è rappresentato e difeso in virtù di

procura speciale a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELL’ECONOMIA E DELLE FINANZE, in persona del Ministro

p.t., domiciliato in Roma, alla via dei Portoghesi n. 12, presso

l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, dalla quale è rappresentato e

difeso per legge;

– intimato –

avverso il decreto della Corte di Appello di Napoli depositato il 4

dicembre 2007;

Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 9

marzo 2011 dal Consigliere dott. Guido Mercolino;

udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore

Generale dott. APICE Umberto, il quale ha concluso per l’accoglimento

del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

1. – Con decreto del 4 dicembre 2007, la Corte d’Appello di Napoli ha rigettato la domanda di equa riparazione proposta da P. S. per la violazione del termine di ragionevole durata del processo, verificatasi in un giudizio dinanzi al Tribunale amministrativo regionale per la Campania, Sede di Napoli, promosso dall’istante per ottenere l’annullamento di una deliberazione del Comune di Torre Annunziata, con cui era stata disposta la ripetizione di somme erogate al personale dipendente a titolo di rendita vitalizia.

Pur rilevando che il giudizio presupposto, promosso nel 1996, non era stato ancora definito, la Corte ha osservato che il ricorrente non si era attivato per ottenerne la definizione, ritenendo che tale inerzia fosse sintomatica della sua consapevolezza in ordine al probabile insuccesso dell’iniziativa, con la conseguente mancanza della condizione soggettiva di incertezza necessaria per la configurabilità dello stato di disagio che, facendo presumere l’esistenza di un danno non patrimoniale, giustifica il riconoscimento dell’equa riparazione.

2. – Avverso il predetto decreto il P. propone ricorso per cassazione, articolato in cinque motivi. Il Ministero non ha svolto difese scritte.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. – Con il primo motivo d’impugnazione, il ricorrente deduce la violazione e la mancata applicazione della L. 24 marzo 2001, n. 89, art. 2, dell’art. 112 cod. proc. civ. e dell’art. 2697 cod. civ., dell’art. 6, par. 1, artt. 13, 19 e 53 della Convenzione Europea per la Salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e degli artt. 24 e 25 Cost., nonchè la nullità del procedimento e del decreto, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 4.

Premesso che in caso di violazione del termine di ragionevole durata del processo il danno non patrimoniale dev’essere ritenuto normalmente sussistente, fatta eccezione per le ipotesi di abuso del processo, che devono essere eccepite e provate dall’Amministrazione, sostiene che la Corte d’Appello, escludendo la sussistenza del danno in virtù dell’asserita consapevolezza da parte sua dell’improbabile successo dell’iniziativa giudiziaria, desunta dall’assenza di comportamenti intesi ad ottenere una sollecita definizione del giudizio presupposto, ha pronunciato ultra petita violando altresì il principio di non contestazione, in quanto l’Amministrazione non solo non aveva sollevato eccezioni, ma aveva concluso per la fondatezza del ricorso.

2. – Con il secondo motivo, il ricorrente deduce la violazione e la mancata applicazione della L. 24 marzo 2001, n. 89, art. 2 dell’art. 6, par. 1, artt. 13, 19 e 53 della CEDU e degli artt. 24 e 111 Cost., nonchè della L. 6 dicembre 1971, n. 1034, art. 23 del R.D. 17 agosto 1907, n. 642, artt. 51 e 53 e della L. 21 luglio 2000, n. 205, art. 9.

A suo avviso, infatti, la Corte d’Appello, nel valutare la ragionevolezza della durata del processo, ha omesso di tener conto della complessità della causa e del comportamento del giudice, fondando il proprio giudizio esclusivamente sul comportamento della parte, e segnatamente sul mancato deposito dell’istanza di prelievo o della nuova istanza di fissazione dell’udienza prevista dalla L. n. 205 del 2000, art. 9, comma 2, senza considerare che quest’ultima costituisce esercizio di una facoltà processuale condizionata alla comunicazione dell’avviso di perenzione, la cui effettuazione nella specie non è stata eccepita nè provata, e che comunque la previsione di strumenti sollecitatori non sospende nè differisce il dovere dello Stato di pronunciare sulla domanda.

3. – Con il terzo motivo, il ricorrente deduce la violazione e la mancata applicazione della L. 24 marzo 2001, n. 89, art. 2 degli artt. 6, par. 1, artt. 13, 19 e 53 della CEDU e degli artt. 24 e 111 Cost., nonchè l’omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia.

Afferma infatti che, non avendo l’Amministrazione eccepito l’esercizio abusivo del diritto di agire in giudizio o il vantaggio che la durata del giudizio presupposto avrebbe procurato ad esso ricorrente, la Corte d’Appello avrebbe dovuto fare applicazione del principio, affermato dalla Corte EDU, secondo cui in mancanza di circostanze particolari la durata eccessiva del processo fa presumere l’esistenza del danno non patrimoniale, potendo l’inerzia della parte costituire al più una causa di riduzione del quantum del risarcimento.

4. – Con il quarto motivo, il ricorrente deduce l’omessa o insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio.

Sostiene infatti che il decreto impugnato, nel conferire rilievo all’omissione di qualsiasi istanza sollecitatoria del processo presupposto, non ha fornito alcuna giustificazione in ordine all’utilizzazione di tale elemento ai fini del giudizio relativo sull’an anzichè di quello relativo al quantum della pretesa risarcitoria, nè in ordine alla mancata considerazione delle argomentazioni di esso ricorrente relative alla complessità della causa ed al comportamento del giudice.

5. – Con il quinto ed ultimo motivo, il ricorrente denuncia la violazione dell’art. 91 cod. proc. civ., nonchè la manifesta ingiustizia ed il travisamento dei fatti, censurando il decreto impugnato nella parte in cui ha regolato le spese processuali secondo il criterio della soccombenza, nonostante la difesa erariale vi avesse rinunciato, concludendo espressamente per la dichiarazione di compensazione.

6. – Il ricorso è parzialmente fondato.

Contrariamente a quanto sostenuto dal ricorrente, la Corte d’Appello, nel rigettare la domanda di equa riparazione, non ha affatto fondato la propria decisione sull’esclusione dell’avvenuta violazione del diritto alla ragionevole durata del processo, avendo anzi espressamente rilevato che all’epoca della proposizione del ricorso il giudizio presupposto non era stato ancora definito, nonostante fossero trascorsi circa undici anni dalla sua instaurazione. Essa ha invece ritenuto che la mancata assunzione da parte del ricorrente di qualsiasi iniziativa intesa ad ottenerne la definizione, costituendo un chiaro sintomo della sua consapevolezza in ordine alla probabile infondatezza della domanda, consentisse di escludere la sussistenza di quella situazione di incertezza per l’esito della lite, che rappresenta il presupposto per la configurabilità del danno non patrimoniale.

Tale impostazione appare conforme ai principi enunciati dalla giurisprudenza di legittimità con riferimento alla disciplina del processo amministrativo anteriore all’entrata in vigore del D.L. 25 giugno 2008, n. 112, art. 54 convertito in L. 6 agosto 2008, n. 133, secondo cui la lesione del diritto alla definizione del processo in un termine ragionevole, sancito dall’art. 6, paragrafo 1, della CEDU, va riscontrata, anche per le cause davanti al giudice amministrativo, avendo riguardo al periodo intercorso dall’instaurazione del relativo procedimento, senza che la decorrenza del predetto termine possa subire ostacoli o slittamenti in relazione alla mancanza dell’istanza di prelievo od alla ritardata presentazione di essa. La previsione di strumenti sollecitatori, infatti, non sospende nè differisce il dovere dello Stato di pronunciare sulla domanda, in caso di omesso esercizio degli stessi, nè implica il trasferimento sul ricorrente della responsabilità per il superamento del termine ragionevole per la definizione del giudizio, salva restando la valutazione del comportamento della parte al solo fine dell’apprezzamento della entità del pregiudizio lamentato (cfr. Cass., Sez. Un., 23 dicembre 2005, n. 28507; Cass., Sez. I, 20 gennaio 2011, n. 1359; 18 giugno 2010, n. 14753).

6.1. – La decisione non appare tuttavia condivisibile nella parte in cui fa dipendere l’esclusione di tale pregiudizio dall’affermata consapevolezza della probabile infondatezza della domanda, desunta dalla mancata presentazione dell’istanza di prelievo.

Indipendentemente dalla considerazione che la predetta inerzia, in quanto a-strattamente riconducibile ad una pluralità di cause, non è di per sè sufficiente a giustificare le conclusioni che ne ha tratto la Corte d’Appello, si osserva che, secondo il consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità, la mera infondatezza della domanda non consente di escludere il diritto alla riparazione del danno non patrimoniale, ai sensi della L. n. 89 del 2001, art. 2 spettando quest’ultimo a tutte le parti del giudizio, siano esse risultate vittoriose o soccombenti, in quanto l’ansia e la sofferenza per l’eccessiva durata costituiscono i riflessi psicologici del perdurare dell’incertezza in ordine alle posizioni coinvolte nel processo, fatta eccezione per l’ipotesi in cui il soccombente abbia promosso una lite temeraria, o abbia artatamente resistito in giudizio al solo fine di perseguire proprio il perfezionamento della fattispecie di cui all’art. 2 cit, solo in tal caso difettando quella condizione soggettiva di incertezza che costituisce il presupposto per la configurabilità del danno non patrimoniale (cfr. Cass., Sez. 1, 20 agosto 2010, n. 18780: 26 aprile 2010, n. 9938).

Ai fini dell’esclusione di tale pregiudizio, non è sufficiente, in altri termini, che la parte abbia agito o resistito in giudizio senza essere pienamente convinta delle proprie ragioni, occorrendo invece che la sua condotta lasci trasparire l’intento di piegare gli strumenti difensivi apprestati dall’ordinamento a finalità diverse da quelle proprie, in tal modo integrando un abuso del processo.

6.2. – Orbene, la circostanza che la causa di merito sia configurabile come lite temeraria o che la parte abbia resistito al solo fine di conseguire l’equa riparazione non costituisce oggetto di un’eccezione in senso stretto, non configurandosi come fatto impeditivo la cui deduzione sia espressamente posta dalla legge a carico dell’Amministrazione, e potendo quindi essere desunta dagli elementi, anche presuntivi, ritualmente acquisiti agli atti o attinenti al notorio, i quali entrano a far parte del materiale probatorio che il giudice può liberamente valutare (cfr. Cass., Sez. 1,8 aprile 2010, n. 8513).

Peraltro, configurandosi dette circostanze come eccezione alla regola secondo cui il diritto all’indennizzo è indipendente dall’esito del giudizio presupposto, il relativo onere probatorio incombe all’Amministrazione, con la conseguenza che, ove non risulti accertato che la parte fosse consapevole dell’assoluta infondatezza della pretesa azionata o della manifesta pretestuosità della resistenza in giudizio, il danno non patrimoniale dev’essere ritenuto sussistente, secondo l’id quod plerumque accidit, costituendo conseguenza normale, ancorchè non automatica e necessaria, dell’eccessiva durata del giudizio (cfr. Cass., Sez. 1, 26 aprile 2010, n. 9938, cit.; 29 marzo 2006, n. 7139; 28 ottobre 2005, n. 21088).

Alla stregua di tali principi, più volte ribaditi da questa Corte, la mancata presentazione dell’istanza di prelievo da parte del ricorrente non avrebbe consentito, alla Corte d’Appello di rigettare la domanda di riparazione del danno non patrimoniale, non essendo configurabile come abuso del processo, in mancanza della prova della temerarietà della pretesa azionata nel giudizio presupposto.

6.3. – Il decreto impugnato va pertanto cassato, restando assorbita l’ulteriore censura riguardante il regolamento delle spese processuali, e, non risultando necessari ulteriori accertamenti di fatto, la causa può essere decisa nel merito, ai sensi dell’art. 384 c.p.c., comma 2, con il riconoscimento in favore del ricorrente dell’equa riparazione per la lesione del diritto alla definizione del giudizio in un termine ragionevole.

Il pregiudizio in questione dev’essere liquidato tenendo conto della rilevante durata del giudizio presupposto, protrattosi per undici anni circa e non ancora definito all’epoca della proposizione della domanda, a dispetto della modesta complessità della causa, avente ad oggetto la ripetizione di somme erogate a titolo di rendita vitalizia; sotto un diverso profilo, occorre peraltro evidenziare lo scarso interesse del ricorrente ad una sollecita definizione della controversia, manifestatosi attraverso la mancata presentazione dell’istanza di prelievo, che, legittimando l’applicazione di criteri riduttivi rispetto ai parametri elaborati dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, giustifica il riconoscimento di un importo complessivo di Euro 5.500,00, sul quale sono dovuti gl’interessi legali con decorrenza dalla domanda.

7. – Le spese dei due gradi di giudizio seguono la soccombenza, e si liquidano come dal dispositivo, con attribuzione in favore del procuratore dichiaratosi anticipatario.

P.Q.M.

La Corte accoglie il ricorso nei termini di cui in motivazione, cassa il decreto impugnato, e, decidendo nel merito, condanna il Ministero dell’Economia e delle Finanze a corrispondere a P.S. la somma di Euro 5.500,00 a titolo di indennizzo, oltre interessi legali dalla domanda, nonchè al pagamento delle spese processuali, che si liquidano per il giudizio di merito in complessivi Euro 1.330,00, ivi compresi Euro 1.000,00 per onorario. Euro 280,00 per diritti ed Euro 50,00 per esborsi, oltre alle spese generali ed agli accessori di legge, e per il giudizio di legittimità in complessivi Euro 1.050,00, ivi compresi Euro 1.000,00 per onorario ed Euro 50,00 per esborsi, oltre alle spese generali ed agli accessori di legge, con distrazione in favore dell’avv. Silvio Ferrara, antistatario.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Prima Sezione Civile, il 9 marzo 2011.

Depositato in Cancelleria il 27 maggio 2011

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