Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 11793 del 27/05/2011

Cassazione civile sez. I, 27/05/2011, (ud. 09/02/2011, dep. 27/05/2011), n.11793

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. VITRONE Ugo – Presidente –

Dott. SALVAGO Salvatore – Consigliere –

Dott. MACIOCE Luigi – Consigliere –

Dott. BERNABAI Renato – Consigliere –

Dott. DE CHIARA Carlo – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 9128-2005 proposto da:

G.D. (c.f. (OMISSIS)), elettivamente

domiciliato in ROMA, VIA TACITO 23, presso l’avvocato VESPAZIANI

GIOVANNI, che lo rappresenta e difende, giusta procura a margine del

ricorso;

– ricorrente –

contro

ISTITUTO AUTONOMO CASE POPOLARI DI MESSINA, in persona del Presidente

pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIALE MAZZINI 131,

presso l’avvocato IANNELLI ANTONINO, rappresentato e difeso

dall’avvocato NICOSIA MANLIO, giusta procura in calce al ricorso

notificato;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 56/2004 della CORTE D’APPELLO di MESSINA,

depositata il 17/02/2004;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

09/02/2011 dal Consigliere Dott. CARLO DE CHIARA;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

RUSSO Libertino Alberto che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Il dott. G.D., creditore nei confronti dello I.A.C.P. di Messina, in virtù di sentenza emessa dal Tribunale di quella città il 16 giugno 1989, della somma di L. 4.501.905.644 a titolo di risarcimento del danno da occupazione appropriativa di un terreno, convenne in giudizio l’Istituto con citazione del 16 febbraio 1994.

Chiese condannarsi il convenuto agli interessi legali, agli interessi anatocistici e al risarcimento del maggior danno per il ritardo nel pagamento della predetta somma.

L’I.A.C.P. resistette in giudizio e il 30 agosto 1984 versò all’attore l’importo del capitale dovuto.

Il Tribunale di Messina, in accoglimento della domanda, condannò il convenuto al pagamento di L. 1.018.747.415 per interessi legali sino alla data del predetto adempimento, nonchè degli interessi anatocistici dalla domanda alla pubblicazione della sentenza e della ulteriore somma di L. 150.312.062, “in moneta attuale”, a titolo di maggior danno ai sensi dell’art. 1224 c.c., comma 2, con gli interessi legali dalla sentenza al soddisfo.

L’I.A.C.P. propose appello. Il G. resistette e propose appello incidentale.

La Corte di Messina, preso atto che non era in discussione la condanna agli interessi legali, escluse, in parziale accoglimento dell’appello principale, la sola condanna dell’Istituto al risarcimento del maggior danno ex art. 1224, comma 2, cit., in quanto non era configurabile il dedotto ritardo colpevole se non dal marzo 1994, nè era stata raggiunta la prova del danno; respinse inoltre l’appello incidentale.

La Corte motivò l’esclusione della mora debendi con la considerazione che sino al marzo 1994 l’Istituto debitore si era tempestivamente attivato per procurarsi i mezzi finanziari per far fronte al proprio debito.

Quanto alla mancanza di prova del danno, osservò che l’attore, che in un primo momento aveva fatto leva sugli oneri finanziari sopportati per far fronte a propri debiti verso terzi, nel corso del giudizio di primo grado aveva poi sostenuto di non aver potuto effettuare investimenti mobiliari particolarmente remunerativi, e la sua domanda era stata poi accolta dal Tribunale per tale ragione.

Sennonchè i documenti e i conteggi da lui prodotti provenivano da tecnici di sua fiducia e dunque, essendo contestati da controparte, non erano attendibili; gli investimenti mobiliari in questione, inoltre, consistevano in operazioni dall’esito aleatorio e difficilmente pronosticabile; verosimilmente, infine, una somma così ingente sarebbe stata in parte destinata ai consumi e in parte a investimenti immobiliari che, secondo quanto emerso dalla prova testimoniale, non si sarebbero rivelati produttivi. In definitiva, mancando la prova di un danno non coperto dal tasso legale degli interessi, in quel periodo pari al 10% annuo, “la cui sussistenza non potrebbe essere desunta nemmeno con il ricorso a presunzioni, tale danno, anche se riferito al periodo 28/5/92 – 31/8/94, non poteva essergli liquidato, neppure con valutazione equitativa …”.

Il dott. G. ha quindi proposto ricorso per cassazione per otto motivi, raggruppati in due ordini di censure. L’.I.A.C.P. ha resistito con controricorso. Entrambe le parti hanno anche presentato memorie.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. – L’Istituto controricorrente eccepisce la tardività del ricorso per essere stato notificato, a mezzo del servizio postale, 1’8 aprile 2005, con consegna del plico all’ufficiale giudiziario il 4 aprile e spedizione il 5 aprile. Ad avviso del controricorrente è proprio la data di spedizione del plico, non quella della sua consegna all’ufficiale giudiziario, che va presa in considerazione ai fini della tempestività della notifica da parte del notificante, così dovendosi interpretare la giurisprudenza costituzionale in materia (peraltro solo genericamente evocata). Di conseguenza il ricorso sarebbe inammissibile per decorso del termine annuale maggiorato del periodo di sospensione feriale, che era appunto scaduto il 4 aprile 2005 essendo stata la sentenza pubblicata il 17 febbraio 2004.

1.1. – L’eccezione è manifestamente infondata, non potendo sussistere dubbi sull’interpretazione del dispositivo di illegittimità costituzionale pronunciato dal giudice delle leggi con la sentenza n. 477 del 2002, espressamente riferito al combinato disposto dell’art. 149 c.p.c. e della L. 20 novembre 1982, n. 890, art. 4, comma 3, “nella parte in cui prevede che la notificazione si perfeziona, per il notificante, alla data di ricezione dell’atto da parte del destinatario anzichè a quella, antecedente, di consegna dell’atto all’ufficiale giudiziario.” 2. – Il primo ordine di censure mosse dal ricorrente alla sentenza impugnata riguarda la statuizione di insussistenza della mora debendi se non dal marzo 1994, motivata dai giudici di appello con la considerazione che prima di allora 1’Istituto debitore si era tempestivamente attivato per procurarsi i mezzi finanziari per far fronte al proprio debito. Il ricorrente articola in proposito quattro motivi.

2.1. – Con il primo motivo, denunciando violazione dell’art. 112 c.p.c., lamenta che la Corte d’appello abbia escluso la sussistenza della mora nonostante sul punto non fosse stato formulato alcun motivo di appello dall’Istituto, il quale aveva circoscritto la propria difesa alla negazione della sussistenza del maggior danno preteso dal creditore.

2.1.1. – La censura è fondata, trovando piena conferma nell’esame dell’atto di appello dello I.A.C.P., qui consentito in considerazione del carattere processuale della censura.

2.2. – Con il secondo, il terzo e il quarto motivo la medesima statuizione di insussistenza della mora viene ulteriormente censurata per violazione del dovere del giudice di segnalare alle parti le questioni rilevabili d’ufficio (secondo motivo); perchè la conversione del debito risarcitorio, con la liquidazione, in debito di valuta non comporta il superamento della mora ex re connessa all’originaria natura del debito stesso (terzo motivo); perchè l’impotenza finanziaria non può costituire causa di esonero dalla responsabilità per il ritardo nell’adempimento delle obbligazioni pecuniarie (quarto motivo).

2.2.1. – Tutti i predetti motivi sono assorbiti per effetto dell’accoglimento del primo.

3. – Il secondo- ordine di motivi ha per oggetto la statuizione di insussistenza del maggior danno derivante dalla mora.

3.1. – Con il primo di tali motivi si denuncia violazione dell’art. 132 c.p.c. e art. 119 disp. att. c.p.c., comma 2 nonchè omessa motivazione. Si deduce la nullità della sentenza, in parte qua, perchè l’inciso “anche se riferito al periodo 28/5/92 – 31/8/94”, inserito nel brano sopra testualmente riportato in narrativa e riguardante il danno, costituisce una interpolazione redatta a mano del testo dattiloscritto, accompagnata da una sigla a margine; per cui ad essa sarebbe riferibile solo la predetta sigla, non anche le sottoscrizioni finali del presidente e dell’estensore della sentenza.

Si aggiunge, infine, che “in ogni caso la predetta estensione è priva di qualsiasi motivazione e spiegazione”.

3.1.1. – Il motivo è manifestamente infondato.

Con la sottoscrizione finale, il presidente e l’estensore assumono la paternità dell’intero documento sottoscritto, così come redatto, incluse eventuali correzioni e interpolazioni. Se si intenda sostenere che quelle correzioni o interpolazioni siano apocrife, si ha l’onere di proporre querela di falso.

Il rilievo, poi, circa il difetto di motivazione e spiegazione dell’inciso di cui si è detto non può costituire autonoma censura sulla quale occorra pronunziare, dato che quell’inciso non costituisce, a sua volta, un’autonoma statuizione che, dunque, abbisogni di una motivazione.

3.2. – Con il secondo motivo si denuncia violazione dell’art. 1234 c.c., comma 2, artt. 1226 e 2729 c.c., nonchè difetto di motivazione. Sì lamenta che la Corte d’appello abbia affermato che la prova del maggior danno, rispetto a quello coperto dagli intreressi legali, derivante dal ritardo nell’adempimento dell’obbligazione pecuniaria “non potrebbe essere desunta nemmeno con il ricorso a presunzioni” e che il medesimo danno non poteva essere liquidato “neppure con valutazione equitativa (come invece ha fatto il tribunale) come pacifico in giurisprudenza”.

3.2.1. – Il motivo è manifestamente fondato sotto il profilo della violazione di norme di diritto, non prevedendo la legge alcuna limitazione nè alla prova per presunzioni, nè alla liquidazione equitativa del maggior danno di cui all’art. 1224 c.c., comma 2.

Questo è, contrariamente a quanto ritenuto dalla Corte d’appello di Messina, il consolidato indirizzo della giurisprudenza di legittimità.

3.3. – Con il terzo motivo, denunciando vizio di motivazione e violazione degli artt. 112, 116 e 324 c.p.c., nonchè dell’art. 2729 c.c., si censura la negazione della sussistenza della prova del maggior danno.

La censura – cui viene premessa la trascrizione della prova testimoniale assunta in primo grado, dei documenti prodotti dal ricorrente ai giudici di merito e dei conteggi facenti parte integrante della comparsa conclusionale depositata nel giudizio di primo grado – è articolata come segue con riferimento a ciascuna delle proposizioni in cui si risolve la motivazione esibita, sul punto, dalla sentenza impugnata e della quale si è dato atto sopra in narrativa:

a) con riferimento al rilievo che i documenti e i conteggi prodotti dal G. provenivano da tecnici di sua fiducia e dunque, essendo contestati da controparte, non erano attendibili, si osserva che:

aa) quanto alla documentazione bancaria (consistente in comunicazioni bancarie attestanti l’avvenuta esecuzione di ordini di acquisto e vendita di titoli mobiliari impartiti dal G.), non vi era stata, da parte dell’Istituto appellante, contestazione della sua idoneità a rappresentare i fatti nella medesima riprodotti, bensì la mera contestazione dell’attitudine, attesa la sua vaghezza, a fungere da base di un ragionamento presuntivo; onde i giudici di appello erano incorsi nel vizio di ultrapetizione, oltre che di immotivata pretermissione di documenti decisivi provenienti da terzi e niente affatto privi di valore probatorio;

ab) quanto ai conteggi, si trattava di elaborazioni dei dati risultanti dalla documentazione bancaria predetta – riferita ad un investimento di L. 59.467.900 -sviluppate al fine di agevolare il giudice nella valutazione del (mancato) guadagno, sull’ipotesi che, invece di tale somma, fosse stato investito in quei titoli anche l’importo dovuto dallo I.A.C.P.;

b) con riferimento al rilievo che si trattava di operazioni dall’esito aleatorio e difficilmente pronosticabile, si denuncia la completa astrattezza del rilievo stesso, privo di riferimento con la concretezza delle produzioni documentali;

c) con riferimento al rilievo secondo cui verosimilmente una somma così ingente sarebbe stata in parte destinata, più che all’acquisto di titoli, ai consumi e a investimenti immobiliari che si sarebbero rilevati non produttivi secondo quanto emerso dalla prova testimoniale, si osserva:

ca) quanto alla destinazione ai consumi, che (ca1) la Corte d’appello ha omesso di precisare quale quota della somma avrebbe avuto tale destinazione; che (ca2) in ogni caso “le somme occorrenti alla più alta qualità della vita rientravano nel danno risarcibile”; che (ca3) la prova testimoniale dimostrava invece la propensione al risparmio, piuttosto che al consumo, del G.;

cb) quanto alla destinazione a non produttivi investimenti immobiliari, si lamenta che la Corte d’appello non abbia preso in considerazione la prova testimoniale, dalla quale emergeva che, invece, il G. aveva rifiutato un investimento immobiliare proprio perchè non remunerativo.

3.3.1. – La complessa censura va accolta nei sensi che seguono.

3.3.1.1. – Fondate, sotto l’assorbente profilo del vizio di motivazione, sono le critiche sopra sintetizzate sub a) e b).

La Corte d’appello, nell’omettere di prendere in considerazione la documentazione bancaria prodotta dal G. a dimostrazione dei risultati particolarmente positivi di un suo pregresso investimento mobiliare, nonchè i conteggi elaborati sulla base di quella documentazione dal suo consulente, ha fatto confusione tra l’uria e gli altri, finendo col negare il valore probatorio della prima.

I giudici, invece, avrebbero dovuto prendere in considerazione la documentazione bancaria, che aveva valore probatorio, in quanto proveniva da terzi (la banca) e non dallo stesso attore, ed era indubbiamente rilevante, perchè attestava gli esiti di un investimento mobiliare, con un rendimento superiore al tasso legale degli interessi, effettivamente eseguito dal creditore, onde era plausibile che il medesimo creditore avrebbe investito alla stessa maniera almeno parte della somma dovutagli dallo I.A.C.P.. E avrebbe altresì dovuto prendere in considerazione i conteggi elaborati per il G. dal suo tecnico di fiducia, quale precisazione della pretesa dell’attore in base all’ipotesi che la somma a suo credito fosse stata investita in quella maniera.

Nè ha senso logico l’obiezione dei giudici di appello secondo cui si trattava di investimenti dall’esito aleatorio e difficilmente pronosticabile, dato che la documentazione di cui trattasi serviva proprio ad offrire il riscontro empirico di quell’esito.

3.3.1.2. – Le restanti critiche, invece, sono in parte assorbite, in parte inammissibili o infondate.

Quella sub (ca1) è assorbita: solo una volta accertata la risarcibilità del maggior danno derivante dal mancato investimento mobiliare, di cui si è detto, potrà infatti discutersi dell’entità dell’investimento stesso – e quindi del danno – in relazione a eventuali, parziali destinazioni alternative della somma a credito dell’attore.

Quella sub (ca2) è infondata. Per un verso, infatti, danno risarcibile è esclusivamente quello patrimoniale, non anche quello emotivo connesso al tenore di vita goduto. Per altro verso, il danno corrispondente alla minor quantità di beni di consumo acquistabili dal creditore a causa del ritardo del debitore nell’adempimento di un’obbligazione pecuniaria, ossia il (maggior) danno da svalutazione monetaria, è stato correttamente, ancorchè implicitamente, escluso dalla Corte d’appello allorchè ha fatto riferimento all’elevatezza del tasso legale degli interessi, pari al 10% (tale dunque da assorbire il tasso della svalutazione monetaria).

Quella sub (ca3) è inammissibile, risolvendosi in una mera illazione, se intesa in senso assoluto, ossia quale esclusione di qualsiasi propensione al consumo del G.. Se intesa, invece, in senso relativo, ossia quale prospettazione di una sua bassa propensione al consumo, è questione assorbita come già osservato a proposito della critica sub (ca1).

Quanto osservato al capoverso precedente vale anche, mutatis mutandis, per la critica sub (cb).

4. – Con il quarto motivo di ricorso si lamenta l’erronea valutazione di assorbimento, e dunque l’omessa pronuncia, sul motivo di appello incidentale con cui era stata dedotta la voce di danno consistente nella “mancata migliore fruizione della qualità della vita”.

4.1. – Il motivo è inammissibile, avendo la Corte d’appello implicitamente risolto, invece, la questione in senso negativo allorchè ha motivato l’esclusione del danno facendo appunto riferimento anche alla circostanza che “una così rilevante massa di denaro sarebbe stata in parte convogliata per una migliore fruizione della qualità della vita, e non nell’acquisto di azioni”.

5. -La sentenza impugnata va pertanto cassata, in relazione alle censure accolte ai paragrafi 2.1.1, 3.2.1 e 3.3.1.1, con rinvio al giudice indicato in dispositivo.

Il giudice di rinvìo dovrà, fra l’altro, attenersi al principio di diritto sopra enunciato al 3.2.1, nonchè provvedere sulle spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.

La Corte accoglie il ricorso nei sensi di cui in motivazione, cassa la sentenza impugnata in relazione alle censure accolte e rinvia, anche per le spese, alla Corte d’appello di Messina in diversa composizione.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 9 febbraio 2011.

Depositato in Cancelleria il 27 maggio 2011

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