Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 11753 del 05/05/2021

Cassazione civile sez. II, 05/05/2021, (ud. 14/01/2021, dep. 05/05/2021), n.11753

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DI VIRGILIO Rosa Maria – Presidente –

Dott. GORJAN Sergio – Consigliere –

Dott. BELLINI Ubaldo – rel. Consigliere –

Dott. DONGIACOMO Giuseppe – Consigliere –

Dott. VARRONE Luca – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 22596/2019 proposto da:

F.O., rappresentato e difeso dall’Avvocato ALESSANDRO

FABBRINI, ed elettivamente domiciliato in BOLZANO, VIA CARDUCCI 13;

– ricorrente –

contro

MINISTERO dell’INTERNO, in persona del Ministro pro tempore,

rappresentato e difeso ope legis dall’Avvocatura Generale dello

Stato, presso i cui uffici in ROMA, VIA dei PORTOGHESI 12 è

domiciliato;

– intimato –

avverso il decreto n. 1318/2019 del TRIBUNALE di TRENTO, depositato

il 9/07/2019;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

14/01/2021 dal Consigliere Dott. UBALDO BELLINI.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

F.O. proponeva opposizione avverso il provvedimento di diniego della protezione internazionale emesso dalla competente Commissione Territoriale, chiedendo la protezione umanitaria o, in subordine, il diritto di asilo ai sensi dell’art. 10 Cost., comma 3.

Sentito dalla Commissione Territoriale, il richiedente aveva riferito di essere cittadino gambiano, di etnia (OMISSIS), di religione musulmana; di aver studiato sei anni; di aver perso entrambi i genitori e di avere due sorelle e un fratello, di cui non aveva più notizie; di aver lasciato il suo Paese d’origine perchè lì viveva assieme alla matrigna, prima moglie del padre, che odiava sia lui che sua madre, non volendo che il marito sposasse un’altra donna; che il fratello era un militare presso la casa presidenziale ed era stato accusato di essere tra gli organizzatori di un colpo di Stato del 2014, non andato a buon fine; un giorno il fratello, recatosi al lavoro, non faceva più rientro a casa, perdendosi in tal modo le notizie; che la matrigna, che lavorava in ambito statale nel settore della contabilità e dell’esercito, tramite la polizia, aveva cercato di liberarsi del ricorrente facendolo arrestare e picchiare, affinchè confessasse dove si trovasse suo fratello; liberato dal fratello della cognata dietro pagamento di una cauzione, con l’aiuto di un amico, il ricorrente lasciava il Gambia il 30.12.2014 per raggiungere l’Italia il 6.9.2016; temeva, in caso di rimpatrio, di essere ucciso dalla matrigna.

In sede di audizione davanti al Tribunale confermava le precedenti dichiarazioni, cadendo però in alcune contraddizioni gravi e aggiungendo che non sarebbe tornato nel proprio Paese.

Con decreto n. 1318/2019, depositato in data 9.7.2019, il Tribunale di Trento rigettava il ricorso, condividendo la decisione della Commissione Territoriale in merito alla non credibilità del racconto reso dal ricorrente, in quanto sommario, non circostanziato, non corroborato da allegazioni e in taluni momenti contraddittorio, oltre che differente rispetto a quanto dichiarato innanzi alla Commissione Territoriale. In ogni caso, la narrazione riguardava fatti motivati da ragioni personali e private, non attinenti alle ragioni per cui era prevista la protezione umanitaria. Si evidenziava che il ricorrente non avesse alcun serio motivo umanitario che potesse giustificare la sua permanenza in Italia, non avendo provato di rientrare in categorie soggettive in relazione alle quali fossero ravvisabili lesioni di diritti umani di particolare entità (patologie gravi, persone impossibilitate ad autodeterminarsi). Si richiamava Cass. n. 4455 del 2018 con la quale la Suprema Corte ha chiarito che il raggiungimento di un’integrazione sociale e lavorativa in Italia (che nella fattispecie non sussiste) “può costituire un elemento di valutazione comparativa al fine di verificare la sussistenza di una della variabili rilevanti della vulnerabilità, ma non può esaurirne il contenuto”. Tali condizioni di vulnerabilità non erano riscontrabili nè nella condizione economica e sociale del ricorrente, trattandosi di elementi che accomunano la quasi totalità dei migranti, nè nella valutazione di una genericamente dedotta pericolosità della realtà interna del Gambia, che invece non era tale da integrare una situazione di violenza indiscriminata. L’allegazione di un sostanziale miglioramento delle condizioni di vita personale e lavorativa non era sufficiente, in via esclusiva, a sostenere la condizione di vulnerabilità del ricorrente, in relazione al mero peggioramento cui lo stesso sarebbe stato esposto nel Paese d’origine. Infine, per quanto riguardava la richiesta di riconoscimento del diritto di asilo, si precisava che quest’ultimo risultava interamente regolato attraverso la previsione dei tre istituti dello status di rifugiato, della protezione sussidiaria e dal diritto al rilascio di un permesso umanitario, per cui non vi era alcun margine di residuale applicazione del disposto di cui all’art. 10 Cost., comma 3.

Avverso detto decreto propone ricorso per cassazione F.O. sulla base di un motivo. Resiste il Ministero dell’Interno con controricorso.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. – Con il motivo, il ricorrente lamenta “Violazione, falsa ed erronea interpretazione e/o applicazione del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 32, comma 3, nonchè del D.Lgs. n. 286 del 1998, artt. 5 e 19, artt. 3 e 25 della CEDU, artt. 2 e 10 Cost. – motivazione assente nonchè errata valutazione dei presupposti e mancata concessione della protezione umanitaria in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5”, avendo il Tribunale del tutto omesso la valutazione in merito alla sussistenza di una situazione di vulnerabilità, causata dal pericolo di rimpatrio di fronte a emergenze umanitarie, di carattere socio-economico. In particolare, non era data alcuna rilevanza alla giovane età del ricorrente che fuggiva dal Gambia a soli 15 anni, giungendo in Italia ancora minorenne. Non sarebbe immaginabile un’integrazione nel suo Paese d’origine, ormai abbandonato da diversi anni e dove non avrebbe alcun supporto familiare. La situazione soggettiva e oggettiva del ricorrente con riferimento al Paese d’origine lascia presumere, in caso di rimpatrio, il rischio di violazione di diritti di carattere universale, violazione tanto più grave in ragione dell’alto grado di inserimento in Italia.

1.1. – Il motivo non è fondato.

1.2. – Giova ricordare che, secondo la giurisprudenza espressa di questa Corte (Cass. n. 24414 del 2019), in tema di ricorso per cassazione, il vizio di violazione di legge consiste nella deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge e implica necessariamente un problema interpretativo della stessa; l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa è, invece, esterna all’esatta interpretazione della norma e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, sottratta al sindacato di legittimità (Cass. n. 3340 del 2019).

Va dunque ribadito che costituisce principio pacifico quello secondo cui il vizio della sentenza previsto dall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, deve essere dedotto, a pena di inammissibilità del motivo giusta la disposizione dell’art. 366 c.p.c., comma 1, nn. 4 e 6, non solo con la indicazione delle norme assuntivamente violate, ma anche, e soprattutto, mediante specifiche argomentazioni intelligibili ed esaurienti intese a motivatamente dimostrare in qual modo determinate affermazioni in diritto contenute nella sentenza gravata debbano ritenersi in contrasto con le indicate norme regolatrici della fattispecie o con l’interpretazione delle stesse fornita dalla giurisprudenza di legittimità, diversamente impedendosi alla Corte regolatrice di adempiere al suo istituzionale compito di verificare il fondamento della lamentata violazione.

Risulta, quindi, inidoneamente formulata la deduzione di errori di diritto individuati per mezzo della sola preliminare indicazione delle singole norme pretesamente violate, ma non dimostrati attraverso una critica delle soluzioni adottate dal giudice del merito nel risolvere le questioni giuridiche poste dalla controversia, operata mediante specifiche e puntuali contestazioni nell’ambito di una valutazione comparativa con le diverse soluzioni prospettate nel motivo e non tramite la mera contrapposizione di queste ultime a quelle desumibili dalla motivazione della sentenza impugnata (Cass. n. 6259 del 2020; cfr., ex multis, Cass. n. 22717 del 2019 e Cass. n. 393 del 2020, rese in controversie analoghe a quella odierna).

Va inoltre rilevato che la valutazione, in ordine alla sussistenza dei presupposti richiesti per la attribuibilità delle singole protezioni costituisce un apprezzamento di fatto rimesso al giudice del merito, censurabile in cassazione solo ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, come omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, come mancanza assoluta della motivazione, come motivazione apparente, come motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile, dovendosi escludere la rilevanza della mera insufficienza di motivazione e l’ammissibilità della prospettazione di una diversa lettura ed interpretazione delle dichiarazioni rilasciate dal richiedente, trattandosi di censura attinente al merito (cfr. sempre Cass. n. 3340 del 2019, cit.).

1.3. – Nel caso concreto, peraltro, i fatti allegati nel giudizio di merito non attengono a situazioni di violenza indiscriminata, derivante da un conflitto armato interno o internazionale, trattandosi di circostanze relative ad una vicenda meramente personale e familiare del richiedente, risolvibile mediante il ricorso alla giustizia ordinaria e non attraverso forme di violenza e coercizione (neppure ipotizzata in capo al ricorrente). Tali circostanze inducono a ritenere il richiedente quale “emigrante economico”, non riconducibile nell’ambito della previsione di cui all’art. 1 della Convenzione di Ginevra e al D.Lgs. n. 251 del 2007, artt. 7 e 8; laddove, sotto tale profilo, il giudice di merito ha, peraltro, comunque accertato (mediante il ricorso a fonti internazionali aggiornate e specificamente citate nel provvedimento impugnato, del D.Lgs. n. 25 del 2008, ex art. 8: pag. 4) la insussisteza del timore del ricorrente di essere sottoposto a vessazioni, senza possibilità di ottenere tutela.

1.4. – Ciò posto, questa Corte osserva come, viceversa, la parte ricorrente, sotto l’egida formale del vizio di violazione di legge, pretenda, ora, una nuova valutazione del giudizio di credibilità del richiedente, proponendo censure che sconfinano con tutta evidenza sul terreno delle mere valutazioni di merito, come tali rimesse alla cognizione dei giudici della precedente fase di giudizio e che possono essere censurate innanzi al giudice di legittimità solo attraverso le ristrette maglie previste dall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.

2. – Questa Corte ha, altresì, di recente riaffermato che la ratio della prestazione umanitaria rimane quella di non esporre i cittadini stranieri al rischio di condizioni di vita non rispettose del nucleo minimo di diritti della persona che ne integrano la dignità, con la conseguenza che la mera allegazione di una esistenza migliore nel paese di accoglienza non è sufficiente, dovendo comunque verificare che ci si è allontanati da una condizione di vulnerabilità effettiva, sotto il profilo specifico della violazione o dell’impedimento all’esercizio dei diritti umani inalienabili (Cass. n. 4455 del 2018).

La protezione umanitaria costituisce una forma di tutela a carattere residuale posta a chiusura del sistema complessivo che disciplina la protezione internazionale degli stranieri in Italia (come rende evidente l’interpretazione letterale del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 32, comma 3). Nel caso di specie, appunto, varrebbe il fatto che il ricorrente assumeva di avere lasciato il proprio Paese appena quindicenne, e di essere giunto in Italia a sedici anni e quindi ancora minorenne (v. ricorso, pag. 4), sebbene per ancora poco tempo.

2.1. – Questa Corte ha, altresì, adeguatamente chiarito che il parametro dell’inserimento sociale e lavorativo dello straniero in Italia può essere apprezzato come presupposto della protezione umanitaria, non come fattore esclusivo, bensì come circostanza che può concorrere a determinare una situazione di vulnerabilità personale, che merita di essere tutelata attraverso il riconoscimento di un titolo di soggiorno, che protegga il soggetto dal rischio di essere immesso nuovamente, in conseguenza del rimpatrio, in un contesto sociale, politico o ambientale quale quello eventualmente presente nel Paese d’origine. Ne consegue che il raggiungimento di un livello d’integrazione sociale, personale od anche lavorativa nel paese di accoglienza può costituire un elemento di valutazione comparativa al fine di verificare la sussistenza di una delle variabili rilevanti della “vulnerabiltà” ma non può esaurirne il contenuto.

3. – Il ricorso è dunque infondato. Le spese, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza. Va emessa la dichiarazione D.P.R. n. 115 del 2002, ex art. 13, comma 1-quater.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso; condanna il ricorrente al rimborso delle spese processuali dei presente giudizio di legittimità, liquidate in complessivi Euro 2.100,00, a titolo di compensi, oltre eventuali spese prenotate a debito. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente principale, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Seconda Civile della Corte Suprema di Cassazione, il 14 gennaio 2021.

Depositato in Cancelleria il 5 maggio 2021

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