Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 11747 del 08/06/2016


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Cassazione civile sez. lav., 08/06/2016, (ud. 24/03/2016, dep. 08/06/2016), n.11747

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. AMOROSO Giovanni – Presidente –

Dott. DORONZO Adriana – Consigliere –

Dott. LORITO Matilde – Consigliere –

Dott. GHINOY Paola – Consigliere –

Dott. DE MARINIS Nicola – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

FONDAZIONE E.N.P.A.M., C.F. (OMISSIS), in persona del

Presidente legale rappresentante pro tempore, elettivamente

domiciliata in ROMA, VIA GULLI TOMMASO 11, presso lo studio

dell’avvocato DIOTALLEVI ALESSANDRO, che lo rappresenta e difende,

giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

LAB AURELIA S.R.L., C.F. (OMISSIS), in persona del Presidente

legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in

ROMA, VIA MONTE DELLE GOIE 13, presso lo studio dell’avvocato

VALENSISE CAROLINA, che la rappresenta e difende unitamente

all’avvocato BONI PAOLO, giusta delega in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 10315/2012 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 29/01/2013 R.G.N. 6386/2010;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

24/03/2016 dal Consigliere Dott. DE MARINIS NICOLA;

udito l’Avvocato DIOTALLEVI ALESSANDRO;

udito l’Avvocato VALENSISE CAROLINA;

udito l’Avvocato BONI PAOLO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

SANLORENZO RITA che ha concluso per l’accoglimento del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con sentenza del 29 gennaio 2013, la Corte d’Appello di Roma, confermava la decisione resa dal Tribunale di Roma che aveva accolto solo in limitatissima parte la domanda proposta dalla Fondazione ENPAM nei confronti della LAB Aurelia S.r.l. avente ad oggetto il recupero dell’omesso versamento da parte della Società del contributo che, ai sensi della L. n. 243 del 2004, art. 1, comma 39, le società professionali mediche e odontoiatriche, in qualunque forma costituite e le società di capitali, operanti in regime di accreditamento con il Servizio sanitario nazionale, sono tenute a versare al Fondo di previdenza a favore degli specialisti esterni dell’Ente nazionale di previdenza ed assistenza medici – ENPAM, contributo previsto in misura pari al 2% del fatturato annuo attinente a prestazioni specialistiche rese nei confronti del Servizio sanitario nazionale e delle sue strutture operative, con attribuzione individuale della percentuale contributiva ai medici ed agli odontoiatri, da indicarsi nominativamente, che hanno partecipato alle attività di produzione del fatturato, applicando la sanzione relativa alla mera omissione di cui alla L. n. 388 del 2000, art. 116, comma 8, lett. a).

La decisione della Corte territoriale discende dall’aver questa ritenuto essere coperta da giudicato, a seguito della sentenza 21752 resa dal Tribunale di Roma il 5.12.2007/6.2.2008 in analoga controversia pronunciata tra le stesse parti, la questione relativa alla determinazione della base di computo del contributo di cui è causa, in quella pronuncia individuato come corrispondente non al fatturato delle società predette per quanto limitato al regime di accreditamento con il SSN, ossia al controvalore di tutte le prestazioni specialistiche rese, ma al reddito effettivamente percepito dal professionista specialista beneficiario della contribuzione ed applicabile la sanzione relativa alla mera omissione di cui alla L. n. 388 del 2000, art. 116, comma 8, lett. a).

Per la cassazione di tale decisione ricorre la Fondazione ENPAM, affidando l’impugnazione a quattro motivi cui resiste, con controricorso, la Società.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo, la Fondazione denuncia la “errata interpretazione, violazione e la falsa applicazione della sentenza del tribunale di Roma, sezione lavoro, n. 21752″, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, nonchè l'”erronea conoscenza dei fatti e presupposti. Illogicità manifesta”. Il motivo è articolato sotto due diversi profili: sotto il primo, la ricorrente assume l’erronea interpretazione e applicazione del giudicato da parte della Corte territoriale la quale non avrebbe considerato che il giudizio promosso dalla società (definito con la sentenza n. 21752) aveva ad oggetto l’accertamento negativo del diritto di essa Fondazione di pretendere il contributo e tale accertamento, in quanto avente un petitum diverso rispetto a quello posto a base della sua domanda (definita dal Tribunale con la sentenza n. 19438/07 e poi riformata dalla Corte d’appello con la sentenza oggetto di ricorso), non poteva valere come giudicato esterno, vincolante per il giudice del merito.

Sotto il secondo aspetto, il motivo si incentra essenzialmente sulla ritenuta violazione della L. 23 agosto 2004, n. 243, art. 1, commi 39 e 40, la quale, nel prevedere che le società operanti in regime di accreditamento col servizio sanitario nazionale sono tenute a versare all’ENPAM un contributo pari al 2% del fatturato annuo, ha inteso disporre che il contributo deve essere calcolato sulla base del fatturato prodotto dalla società attraverso l’attività dei medici e degli odontoiatri, e non invece sulla base dei compensi corrisposti ai medici e odontoiatri operanti presso di loro in regime libera-

professionale.

Con il secondo motivo, la Fondazione denuncia la violazione e la falsa applicazione della L. 23 agosto 2004, n. 243, art. 1, comma 39;

D.Lgs. 30 dicembre 1992, n. 502, artt. 8 quinquies, 8 sexies, art. 15 nonies, comma 4, come modificato dal D.Lgs. 19 giugno 1999, n. 229, nonchè l'”erronea conoscenza dei fatti e dei presupposti” e l'”illogicità manifesta”.

L’ampio e articolato motivo di ricorso è essenzialmente incentrato sulla ritenuta violazione della L. 23 agosto 2004, n. 243, art. 1, comma 39, il quale, nel prevedere che le società operanti in regime di accreditamento col servizio sanitario nazionale sono tenute a versare all’ENPAM un contributo pari al 2% del fatturato annuo, ha inteso disporre che il contributo deve essere calcolato sulla base del fatturato prodotto dalla società attraverso l’attività dei medici e degli odontoiatri operanti presso di loro in regime libero-

professionale, e non invece sulla base dei compensi corrisposti ai menzionati professionisti.

Con il terzo motivo, inteso a denunciare la violazione e falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c., la Fondazione ricorrente lamenta da parte della Corte territoriale, che, avendo, in riforma della decisione di prime cure, rigettato l’eccezione in quella sede sollevata dalla Società allora convenuta e lì accolta di nullità del ricorso introduttivo proposto dalla Fondazione medesima, avrebbe dovuto disporre per il prosieguo del giudizio, ordinando alla Società il deposito della contabilità necessaria alla determinazione della dovuta contribuzione, l’essere la Corte stessa incorsa non avendo così disposto, nell’omessa pronuncia in ordine alla quantificazione della domanda.

Con il quarto motivo, l’ENPAM denuncia la violazione della L. n. 388 del 2000, art. 116, comma 8, e lamenta che erroneamente il giudice ha escluso che l’omessa denuncia da parte della società costituisca evasione contributiva. In realtà, secondo la ricorrente, le sanzioni da applicare sono quelle previste dal cit. art. 116, lett. b), dal momento che non vi è solo l’omesso pagamento del contributo ma anche l’omesso invio della documentazione necessaria per il relativo calcolo, a nulla rilevando l’incertezza normativa o interpretativa dell’art. 1, comma 39, L. cit. e in assenza di puntuali allegazioni e prove da parte della società volte a dimostrare l’assenza di un intento fraudolento.

Nel suo controricorso la società sostiene la correttezza della decisione e insiste nell’eccezione di giudicato ribadendo la identità della causa petendi e (parzialmente) del petitum delle due controversie e l’intangibilità della decisione riguardante i criteri di quantificazione del contributo previdenziale.

Il primo motivo di ricorso, nella parte in cui contesta l’applicazione del principio del giudicato da parte della Corte territoriale, è infondato.

La Corte d’appello ha dato conto che tra i due giudizi – quello promosso dalla Fondazione ENPAM con ricorso dell’8/9/2006 (deciso dalla Corte territoriale con la sentenza qui impugnata) e quello promosso dallo Studio Fisiokinesiterapico Accademia S.r.l., unitamente ad altre società, con ricorso del 21/7/2006, definito con la sentenza n. 21752/07 passata in giudicato – vi è una parziale identità di parti, di petitum (accertamento del metodo di calcolo del contributo) e di causa petendi (applicazione della L. 23 agosto 2004, n. 243, art. 1, comma 39) e tale dato deve ritenersi pacifico oltre che incontestato.

Deve aggiungersi, al riguardo, che il ricorso rispetta il principio di specificità dei motivi e di autosufficienza, come delineato dall’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, dal momento che la parte ha trascritto le parti salienti del suo atto introduttivo del presente giudizio nonchè il ricorso proposto nel diverso procedimento dall’odierna controricorrente, al fine di sottolineare la diversità di petitum, costituito, nel primo, dall’accertamento positivo del suo diritto al contributo previdenziale con la condanna della controparte all’adempimento e, nel secondo, dall’accertamento negativo della sussistenza dell’obbligazione.

Ma tale incontestata diversità di petitum non conduce alle conseguenze indicate dalla Fondazione e ciò in forza di una corretta interpretazione dell’art. 2909 c.c. Il giudicato sostanziale – che, in quanto riflesso di quello formale (art. 324 c.p.c.), fa stato ad ogni effetto fra le parti relativamente all’accertamento di merito, positivo o negativo, del diritto controverso – si forma su tutto ciò che ha costituito oggetto della decisione, compresi gli accertamenti di fatto che costituiscono le premesse necessarie ed il fondamento logico giuridico della pronuncia. L’autorità del giudicato, dunque, si esplica non solo nell’ambito della controversia e delle ragioni fatte valere dalle parti (cosiddetto giudicato esplicito), ma necessariamente anche agli accertamenti che si ricollegano in modo inscindibile con la decisione, formandone il presupposto, così da coprire tutto quanto rappresenta il fondamento logico giuridico della pronuncia. Si è così affermato che “l’accertamento su un punto di fatto o di diritto costituente la premessa necessaria della decisione divenuta definitiva, quando sia comune ad una causa introdotta posteriormente, preclude il riesame della questione, anche se il giudizio successivo abbia finalità diverse da quelle del primo ed a condizione che i due giudizi abbiano identici elementi costitutivi dell’azione (soggetti, “causa petendi” e “petitum”), secondo l’interpretazione della decisione affidata al giudice del merito ed insindacabile in sede di legittimità, ove immune da vizi logici e giuridici” (Cass. Sez. Un., 14 giugno 1995, n. 6689; Cass., 24 marzo 2006, n. 6628; Cass., 12 dicembre 2003, n. 19046; Cass., 11 maggio 2000, n. 6041; Cass., 6 settembre 1999, n. 9401; Cass. 18 ottobre 1997, n. 10196; Cass. 27 ottobre 1994, n. 8865). Questa Corte ha pure affermato che, con la formula che il giudicato copre il dedotto e il deducibile, si afferma il principio – rispondente ad esigenze, non solo di natura teorico sistematica, ma altresì di certezza giuridica, di economia processuale e di ordine pratico – secondo cui la decisione giudiziale si forma con riferimento al bene della vita preteso e non già alle questioni trattate; e che, nell’applicare i principi sulla identificazione delle azioni, deve valutarsi se il risultato giuridico-pratico sostanziale già ottenuto dalla parte, ovvero ad essa negato con decisione non più impugnabile, sia già stato oggetto di tale decisione (e quindi di un accertamento definitivo ad ogni effetto ex art. 2909 c.c.), nel qual caso l’interessato non può reclamare nuovamente lo stesso risultato, sia pure in base a differenti deduzioni giuridiche o di fatto, posto che l’affermazione della volontà della legge in relazione al caso concreto ha già avuto luogo e non può essere effettuata una seconda volta. (Cass. 28 aprile 1995, n. 4751, che richiama Cass. Sez. Un., 19 ottobre 1990 n. 10178).

Nel caso in esame, la questione relativa alle modalità di calcolo del contributo previdenziale previsto dall’art. 1, comma 39, L. cit.

è stata già decisa con sentenza passata in giudicato e non è dubbio che essa costituisce un punto fondamentale tanto della prima quanto della seconda lite, il necessario antecedente logico giuridico sul quale entrambe le parti hanno chiesto la decisione con efficacia di giudicato. Non è dunque consentito alla parte, che sul punto è rimasta soccombente e che non ha ritenuto di proporre impugnazione, rimetterla in discussione nel diverso giudizio volto ad ottenere la quantificazione del contributo e la condanna della società al relativo pagamento.

La sentenza della Corte d’appello si è attenuta a questo principio con la conseguenza che il motivo di ricorso deve essere rigettato.

Di contro, il terzo motivo deve ritenersi inammissibile presupponendo la doglianza mossa, intesa a censurare il preteso error in procedendo dato dal mancato ordine di deposito a carico della Società della documentazione utile alla quantificazione della contribuzione dovuta, la specificazione da parte della Fondazione allora appellante del quantum della domanda viceversa in quella sede omessa per essere inammissibilmente rimessa ad una futura CTU. E’ invece infondato il quarto motivo di ricorso.

Questa Corte, con la sentenza 27 dicembre 2011, n. 28966 in sostanziale adesione a Cass., 10 maggio 2010, n. 11261, ha riaffermato il principio di diritto, secondo cui: “In tema di obbligazioni contributive nei confronti delle gestioni previdenziali ed assistenziali, l’omessa o infedele denuncia mensile all’INPS (attraverso i cosiddetti modelli DM10) di rapporti di lavoro o di retribuzioni erogate, ancorchè registrati nei libri di cui è obbligatoria la tenuta, concretizza l’ipotesi di “evasione contributiva” di cui alla L. n. 388 del 2000, art. 116, comma 8, lett. b), e non la meno grave fattispecie di “omissione contributiva” di cui alla lett. a) della medesima norma, che riguarda le sole ipotesi in cui il datore di lavoro, pur avendo provveduto a tutte le denunce e registrazioni obbligatorie, ometta il pagamento dei contributi, dovendosi ritenere che l’omessa o infedele denuncia configuri occultamento dei rapporti o delle retribuzioni o di entrambi e faccia presumere l’esistenza della volontà datoriale di realizzare tale occultamento allo specifico fine di non versare i contributi o i premi dovuti; conseguentemente, grava sul datare di lavoro inadempiente l’onere di provare la mancanza dell’intento fraudolento e, quindi, la sua buona fede, onere che non può, tuttavia, reputarsi assolto in ragione dell’avvenuta corretta annotazione dei dati, omessi o infedelmente riportati nelle denunce, sui libri di cui è obbligatoria la tenuta; in tale contesto spetta al giudice del merito accertare la sussistenza, ove dedotte, di circostanze fattuali atte a vincere la suddetta presunzione, con valutazione intangibile in sede di legittimità ove congruamente motivata” (v. pure Cass. 25 giugno 2012, n. 10509).

La Corte territoriale ha fatto puntuale applicazione della L. n. 388 del 2000, art. 116, lett. a), ritenendo di dover escludere l’evasione contributiva per l’assenza del fine fraudolento, ovvero di un volontario occultamento dei rapporti o delle retribuzioni al fine di evitare il pagamento dei contributi o dei premi dovuti. Ha desunto la mancanza del fine fraudolento dalle difformi interpretazioni date alla L. n. 243 del 2004, art. 1, comma 39, dalle società accreditate, da un lato, e dalla fondazione ENPAM, dall’altro, attestate dall’ampio contenzioso in atti, nonchè da una richiesta della Fondazione, – volta ad ottenere la comunicazione del fatturato derivante dalle prestazioni specialistiche rese in regime di accreditamento, e non invece della misura dei compensi corrisposti i medici che avevano concorso alla produzione del fatturato – ritenuta dalla società (e dalla stessa Corte) non conforme al dato normativo.

Si è in presenza di un apprezzamento di fatto congruamente e logicamente motivato, in linea con le pronunce di questa Corte ed insindacabile in questa sede, sicchè non si riscontra il denunciato vizio di violazione di legge.

In applicazione del criterio della soccombenza, la Fondazione deve essere condannata al pagamento delle spese del presente giudizio, liquidate come in dispositivo. Poichè il ricorso è stato notificato in data successiva al 31 gennaio 2013, sussistono i presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1.

PQM

La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio, liquidate in complessivi Euro 4.100,00, di cui Euro 4.000,00 per compensi professionali, oltre al 15% per spese generali e altri accessori di legge. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del cit. art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 24 marzo 2016.

Depositato in Cancelleria il 8 giugno 2016

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