Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 11744 del 08/06/2016

Cassazione civile sez. lav., 08/06/2016, (ud. 24/03/2016, dep. 08/06/2016), n.11744

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. AMOROSO Giovanni – Presidente –

Dott. DORONZO Adriana – Consigliere –

Dott. LORITO Matilde – Consigliere –

Dott. CHINDEMI Domenico – rel. Consigliere –

Dott. RIVERSO Roberto – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

FONDAZIONE ENPAM, C.F. (OMISSIS), in persona del Presidente e

legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in

ROMA, VIA GULLI TOMMASO 11 sc. C int. 1, presso lo studio

dell’avvocato DIOTALLEVI ALESSANDRO, che la rappresenta e difende,

giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

LABORATORIO MATERANO DI ANALISI CHIMICO CLINICHE ENDOCRINOLOGICHE E

BATTERIOLOGICHE S.R.L., (OMISSIS), in persona

dell’Amministratore Unico pro tempore, elettivamente domiciliata in

ROMA, VIA MONTE DELLE GIOIE 13, presso lo studio dell’avvocato

VALENSISE CAROLINA, che la rappresenta e difende unitamente

all’avvocato BONI PAOLO, giusta procura speciale per Notaio;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 1854/2013 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 21/03/2013 R.G.N. 6392/2010;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

24/03/2016 dal Consigliere Dott. GHINOY PAOLA;

udito l’Avvocato DIOTALLEVI ALESSANDRO;

udito l’Avvocato VALENSISE CAROLINA;

udito l’Avvocato BONI PAOLO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

SANLORENZO RITA che ha concluso per l’accoglimento del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con la sentenza n. 1854 del 2013, la Corte d’appello di Roma, in parziale riforma della sentenza del Tribunale della stessa sede, condannava la s.r.l. Laboratorio Materano di analisi chimico cliniche endocrinologiche e batteriologiche, al pagamento all’Enpam della somma di Euro 730,08 (in luogo di quella di Euro 511,06 ritenuta dal Tribunale) a titolo di contributo della L. n. 243 del 2004, ex art. 1, comma 39 per gli anni 2004 e 2005. La Corte territoriale rilevava in primo luogo che sulla questione oggetto della controversia si era formato il giudicato a seguito dell’irrevocabilità della sentenza n. 21756 del 2008 del Tribunale di Roma che, in accoglimento della domanda proposta (anche) dalla società appellata, aveva dichiarato dovuto il contributo previdenziale richiesto dalla Fondazione nella misura del 2% del fatturato relativo ai compensi liquidati a favore dei professionisti medici per le prestazioni rese in regime di collaborazione libero professionale con le società di capitali titolari della struttura e del rapporto di accreditamento con il servizio sanitario nazionale.

Facendo applicazione del principio contenuto nella sentenza passata in giudicato, rilevava che il primo giudice aveva riconosciuto il contributo del 2%, effettuando però un abbattimento del 30% non previsto dalla sentenza passata in giudicato e nemmeno dal legislatore, sicchè rideterminava l’importo dovuto nei limiti sopra precisati. Disattendeva poi il motivo di appello relativo al regime sanzionatorio applicabile alla fattispecie, confermando la sentenza appellata che aveva applicato l’ipotesi dell’omissione contributiva prevista dalla L. n. 388 del 2000, art. 116, comma 8, lett. a), rilevando che, se è vero che l’omessa comunicazione all’istituto previdenziale dei dati necessari per la quantificazione dell’obbligazione contributiva deve far presumere l’intento fraudolento del datore di lavoro, salva la prova contraria gravante su quest’ultimo, nel caso però l’istituto aveva invitato le società accreditate a comunicare il fatturato derivante dalle prestazioni specialistiche rese in regime di accreditamento e non la misura dei compensi corrisposti ai medici che avevano concorso alla produzione del fatturato, e quindi la mancata comunicazione di tali dati derivava dalle difformi interpretazioni adottate della L. n. 243 del 2004, art. 1, comma 39.

Per la cassazione della sentenza ha proposto ricorso la Fondazione Enpam, affidato a due motivi, cui ha resistito con controricorso la s.r.l. Laboratorio Materano di analisi chimico cliniche endocrinologiche e batteriologiche s.r.l.. Le parti hanno depositato memorie ex art. 378 c.p.c..

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo, la Fondazione denuncia la “errata interpretazione, violazione e la falsa applicazione della sentenza del tribunale di Roma, sezione lavoro, n. 21756″, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, nonchè l'”erronea conoscenza dei fatti e presupposti. Illogicità manifesta”. Il motivo è articolato sotto due diversi profili: sotto il primo, la ricorrente assume l’erronea interpretazione e applicazione del giudicato da parte della Corte territoriale, la quale non avrebbe considerato che il giudizio promosso dalla società aveva ad oggetto l’accertamento negativo del diritto di essa Fondazione di pretendere il contributo e tale accertamento, in quanto avente un petitum diverso rispetto a quello posto a base della sua domanda (definita dal Tribunale con la sentenza n. 11460/09 e poi parzialmente riformata dalla Corte d’appello con la sentenza oggetto di ricorso), non poteva valere come giudicato esterno, vincolante per il giudice del merito. Sotto il secondo aspetto, il motivo si incentra essenzialmente sulla ritenuta violazione della L. 23 agosto 2004, n. 243, art. 1, commi 39 e 40, la quale, nel prevedere che le società operanti in regime di accreditamento col servizio sanitario nazionale sono tenute a versare all’ENPAM un contributo pari al 2% del fatturato annuo, ha inteso disporre che il contributo dev’essere calcolato sulla base del fatturato prodotto dalla società attraverso l’attività dei medici e degli odontoiatri, e non invece sulla base dei compensi corrisposti ai medici e odontoiatri operanti presso di loro in regime libero-

professionale.

2. Con il secondo motivo, l’Enpam denuncia la violazione della L. n. 388 del 2000, art. 116, comma 8, e lamenta che erroneamente il giudice di merito abbia escluso che l’omessa denuncia da parte della società costituisca evasione contributiva. In realtà, secondo la ricorrente, le sanzioni da applicare sono quelle previste dal citato art. 116, lett. b), dal momento che non vi è solo l’omesso pagamento ma anche l’omesso invio della documentazione necessaria per il calcolo dei contributi previdenziali, a nulla rilevando l’incertezza normativa o, meglio, interpretativa dell’art. 1, comma 39, L. cit. ed in assenza di puntuali allegazioni e prove da parte della società volte a dimostrare l’assenza di un intento fraudolento.

3. Il primo motivo di ricorso è infondato.

La Corte d’appello ha dato conto che tra i due giudizi – quello promosso dalla Fondazione ENPAM con il ricorso deciso con la sentenza qui impugnata e quello promosso dallo s.r.l. Laboratorio Materano di analisi chimico cliniche endocrinologiche e batteriologiche, unitamente ad altre società, definito con la sentenza n. 21756/08 passata in giudicato – vi è una parziale identità di parti, di petitum (accertamento del metodo di calcolo del contributo) e di causa petendi (applicazione della L. 23 agosto 2004, n. 243, art. 1, comma 39) e tale dato deve ritenersi pacifico oltre che incontestato.

Deve aggiungersi, al riguardo, che il ricorso rispetta il principio di specificità dei motivi e di autosufficienza, come delineato dall’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, dal momento che la parte ha trascritto le parti salienti del suo atto introduttivo del presente giudizio nonchè il ricorso proposto nel diverso procedimento dall’odierna controricorrente, al fine di sottolineare la diversità di petitum, costituito, nel primo, dall’accertamento positivo del suo diritto al contributo previdenziale con la condanna della controparte all’adempimento e, nel secondo, dall’accertamento negativo della sussistenza dell’obbligazione.

Ma tale incontestata diversità di petitum non conduce alle conseguenze indicate dalla Fondazione e ciò in forza di una corretta interpretazione dell’art. 2909 c.c.. Il giudicato sostanziale – che, in quanto riflesso di quello formale (art. 324 c.p.c.), fa stato ad ogni effetto fra le parti relativamente all’accertamento di merito, positivo o negativo, del diritto controverso – si forma su tutto ciò che ha costituito oggetto della decisione, compresi gli accertamenti di fatto che costituiscono le premesse necessarie ed il fondamento logico giuridico della pronuncia. L’autorità del giudicato, dunque, si esplica non solo nell’ambito della controversia e delle ragioni fatte valere dalle parti (cosiddetto giudicato esplicito), ma necessariamente anche agli accertamenti che si ricollegano in modo inscindibile con la decisione, formandone il presupposto, così da coprire tutto quanto rappresenta il fondamento logico giuridico della pronuncia (Cass. S.U. 14/6/1995 n. 6689, Cass. S.U. 16/06/2006 n. 13916, Cass. 12/12/2003 n. 19046; Cass. 21/10/2013 n. n. 23723).

Questa Corte ha pure affermato che, con la formula che il giudicato copre il dedotto e il deducibile, si afferma il principio –

rispondente ad esigenze, non solo di natura teorico sistematica, ma altresì di certezza giuridica, di economia processuale e di ordine pratico – secondo cui la decisione giudiziale si forma con riferimento al bene della vita preteso e non già alle questioni trattate; e che, nell’applicare i principi sulla identificazione delle azioni, deve valutarsi se il risultato giuridico-pratico sostanziale già ottenuto dalla parte, ovvero ad essa negato con decisione non più impugnabile, sia già stato oggetto di tale decisione (e quindi di un accertamento definitivo ad ogni effetto ex art. 2909 c.c.), nel qual caso l’interessato non può reclamare nuovamente lo stesso risultato, sia pure in base a differenti deduzioni giuridiche o di fatto, posto che l’affermazione della volontà della legge in relazione al caso concreto ha già avuto luogo e non può essere effettuata una seconda volta. (Cass., 28 aprile 1995, n. 4751, che richiama Cass. Sez. Un., 19 ottobre 1990 n. 10178).

3.1. Nel caso in esame, la questione relativa alle modalità di calcolo del contributo previdenziale previsto dall’art. 1, comma 39, L. cit. è stata già decisa con sentenza passata in giudicato e non è dubbio che essa costituisca un punto fondamentale tanto della prima quanto della seconda lite ed il necessario antecedente logico giuridico sul quale entrambe le parti hanno chiesto la decisione con efficacia di giudicato. Non è dunque consentito alla parte, che sul punto è rimasta soccombente e che non ha ritenuto di proporre impugnazione, rimetterla in discussione nel diverso giudizio volto ad ottenere la quantificazione del contributo e la condanna della società al relativo pagamento.

3.2. La sentenza della Corte d’appello si è attenuta a questo principio, con la conseguenza che il motivo di ricorso dev’essere rigettato, non potendosi qui affrontare nuovamente la questione già coperta dal giudicato.

4. E’ parimenti infondato il secondo motivo di ricorso.

Questa Corte, con la sentenza 27 dicembre 2011, n. 28966 in sostanziale adesione a Cass., 10 maggio 2010, n. 11261, ha riaffermato il principio di diritto, secondo cui: “In tema di obbligazioni contributive nei confronti delle gestioni previdenziali ed assistenziali, l’omessa o infedele denuncia mensile all’INPS (attraverso i cosiddetti modelli DM10) di rapporti di lavoro o di retribuzioni erogate, ancorchè registrati nei libri di cui è obbligatoria la tenuta, concretizza l’ipotesi di “evasione contributiva” di cui alla L. n. 388 del 2000, art. 116, comma 8, lett. b), e non la meno grave fattispecie di “omissione contributiva” di cui alla lett. a) della cit. norma, che riguarda le sole ipotesi in cui il datore di lavoro, pur avendo provveduto a tutte le denunce e registrazioni obbligatorie, ometta il pagamento dei contributi, dovendosi ritenere che l’omessa o infedele denuncia configuri occultamento dei rapporti o delle retribuzioni o di entrambi e faccia presumere l’esistenza della volontà datoriale di realizzare tale occultamento allo specifico fine di non versare i contributi o i premi dovuti;, conseguentemente, grava sul datore di lavoro inadempiente l’onere di provare la mancanza dell’intento fraudolento e, quindi, la sua buona fede, onere che non può, tuttavia, reputarsi assolto in ragione dell’avvenuta corretta annotazione dei dati, omessi o infedelmente riportati nelle denunce, sui libri di cui è obbligatoria la tenuta; in tale contesto spetta al giudice del merito accertare la sussistenza, ove dedotte, di circostanze fattuali atte a vincere la suddetta presunzione, con valutazione intangibile in sede di legittimità ove congruamente motivata” (v. pure Cass., 25 giugno 2012, n. 10509).

La Corte territoriale ha fatto puntuale applicazione della L. n. 388 del 2000, art. 116, lett. a), ritenendo di dover escludere l’evasione contributiva per l’assenza del fine fraudolento, ovvero di un volontario occultamento dei rapporti o delle retribuzioni al fine di evitare il pagamento dei contributi o dei premi dovuti. Ha desunto la mancanza del fine fraudolento dalle difformi interpretazioni date alla L. n. 243 del 2004, art. 1, comma 39, dalle società accreditate, da un lato, e dalla Fondazione ENPAM, dall’altro, attestate dall’ampio contenzioso in atti, nonchè da una richiesta della Fondazione, – volta ad ottenere la comunicazione del fatturato derivante dalle prestazioni specialistiche rese in regime di accreditamento, e non invece della misura dei compensi corrisposti i medici che avevano concorso alla produzione del fatturato -, ritenuta dalla società (e dalla stessa Corte) non conforme al dato normativo.

Si è in presenza di un apprezzamento di fatto congruamente e logicamente motivato, in linea con le pronunce di questa Corte ed insindacabile in questa sede, sicchè non si riscontra il denunciato vizio di violazione di legge.

5. Segue il rigetto del ricorso. In applicazione del criterio della soccombenza, la Fondazione dev’essere condannata al pagamento delle spese del presente giudizio, liquidate come da dispositivo.

Poichè il ricorso è stato notificato in data successiva al 31 gennaio 2013, sussistono i presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1.

PQM

La Corte rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio, che liquida in complessivi Euro 4.000,00 per compensi professionali, oltre ad Euro 100,00 per esborsi, rimborso spese generali al 15% ed accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quarter, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del cit. art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 24 marzo 2016.

Depositato in Cancelleria il 8 giugno 2016

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