Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 11743 del 17/06/2020

Cassazione civile sez. I, 17/06/2020, (ud. 20/02/2020, dep. 17/06/2020), n.11743

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DIDONE Antonio – Presidente –

Dott. MERCOLINO Guido – rel. Consigliere –

Dott. PAZZI Alberto – Consigliere –

Dott. FIDANZIA Andrea – Consigliere –

Dott. AMATORE Roberto – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 8988/2019 R.G. proposto da:

M.S., rappresentato e difeso dall’Avv. Stefania Santilli, con

domicilio in Roma, Piazza Cavour, presso la Cancelleria civile della

Corte di Cassazione;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELL’INTERNO;

– intimato –

avverso il decreto del Tribunale di Milano depositato il 20 febbraio

2019.

Udita la relazione svolta nella Camera di consiglio del 20 febbraio

2020 dal Consigliere Dott. Guido Mercolino.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. Con decreto del 20 febbraio 2019, il Tribunale di Milano ha rigettato la domanda di riconoscimento dello status di rifugiato e, in subordine, della protezione sussidiaria o del permesso di soggiorno per motivi umanitari proposta da M.S., cittadino del (OMISSIS).

Premesso che il ricorrente aveva riferito di essersi allontanato dal Paese di origine per sottrarsi alle minacce dei familiari di due giovani tratti in arresto su denuncia di suo padre per aver stuprato ed ucciso una sorella minore, e contro i quali egli stesso aveva testimoniato, il Tribunale ha ritenuto non credibile la vicenda narrata, rilevando che non era stato addotto alcun elemento a sostegno del rapporto di parentela con la bambina uccisa, la quale non portava lo stesso cognome del ricorrente, ed aggiungendo che non erano state spiegate le ragioni per cui soltanto quest’ultimo era dovuto fuggire, mentre la denuncia era stata sporta dal padre, nè quelle per cui i familiari dei due giovani avrebbero dovuto insistere per il ritiro della denuncia, pur avendo i responsabili confessato. Considerato inoltre che il ricorrente avrebbe potuto ottenere protezione da parte delle autorità di polizia, prontamente attivatesi per l’arresto dei colpevoli dell’omicidio, ha ritenuto insussistente il rischio di atti persecutori e quello di condanna a morte o di sottoposizione a trattamenti inumani o degradanti. Quanto alla minaccia derivante da una situazione di violenza indiscriminata, ha rilevato che dalle informazioni relative al Bangladesh non emergeva l’esistenza di un conflitto armato, ma solo il verificarsi di episodi di violenza riconducibili a precisi eventi politici e alla rivalità tra il partito al governo e quello di opposizione, o tra le correnti interne ai partiti, nonchè la presenza di altre forme di violenza di tipo interetnico, osservando che le prime riguardavano categorie di persone alle quali il ricorrente risultava estraneo, mentre le altre non raggiungevano un grado di diffusione ed intensità tale da giustificare il riconoscimento della protezione sussidiaria. Premesso infine che, in assenza di norme transitorie, alla fattispecie in esame non erano applicabili le disposizioni introdotte dal D.L. 4 ottobre 2018, n. 113, il Tribunale ha infine escluso la sussistenza dei presupposti per il riconoscimento della protezione umanitaria, rilevando che il ricorrente non aveva allegato fatti diversi da quelli posti a fondamento della domanda di riconoscimento dello status di rifugiato e della protezione sussidiaria, nè altri elementi idonei a comprovare una situazione di particolare vulnerabilità; ha ritenuto insufficiente, a tal fine, la prova della titolarità di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato e dello svolgimento di attività formative volte all’apprendimento della lingua italiana, osservando che l’allegazione del radicamento affettivo, sociale e lavorativo nel Paese di accoglienza può costituire un elemento di valutazione comparativa, ma non testimonia di per sè una disparità con la vita condotta nel Paese di origine, sotto il profilo della violazione o dell’impedimento all’esercizio dei diritti fondamentali.

2. Avverso il predetto decreto il M. ha proposto ricorso per cassazione, per tre motivi. Il Ministero dell’interno ha resistito mediante il deposito di un atto di costituzione, ai fini della partecipazione alla discussione orale.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Preliminarmente, va dichiarata l’inammissibilità della costituzione in giudizio del Ministero dell’interno, avvenuta mediante il deposito di un atto privo dei requisiti di cui all’art. 366 c.p.c., richiamato dall’art. 370 c.p.c., comma 2 e finalizzato esclusivamente alla partecipazione alla discussione orale: nel procedimento in Camera di consiglio dinanzi alla Corte di Cassazione, il concorso delle parti alla fase decisoria deve infatti realizzarsi in forma scritta, attraverso il deposito di memorie, il quale presuppone che l’intimato risulti già costituito mediante controricorso tempestivamente notificato e depositato (cfr. 25/10/2018, n. 27124; Cass., Sez. V, 5/10/2018, n. 24422; Cass., Sez. III, 20/10/2017, n. 24835).

2. Con il primo motivo d’impugnazione, il ricorrente denuncia la violazione e la falsa applicazione del D.Lgs. 19 novembre 2007, n. 251, artt. 2, 3, 4,5,6 e 14, D.Lgs. 28 gennaio 2008, n. 25, artt. 8 e 27 e artt. 2 e 3 della CEDU, osservando che, nel valutare la credibilità delle dichiarazioni da lui rese, il decreto impugnato non ha considerato che egli era ancora minorenne all’epoca in cui ha sostenuto il colloquio dinanzi alla Commissione territoriale, e non ha tenuto conto delle difficoltà anche emotive determinate dallo svolgimento dello stesso senza l’assistenza di un tutore. Afferma inoltre che il Tribunale ha omesso di adempiere il proprio dovere di cooperazione istruttoria officiosa, mediante una completa acquisizione documentale e una valutazione complessiva della situazione del Paese di provenienza, non avendo verificato l’effettiva capacità dello Stato di garantire tutela ai suoi cittadini nei confronti di soggetti non statuali, attraverso l’istituzione di organi giudiziari, l’approvazione di leggi che vietino le faide e la volontà delle autorità d’individuare, perseguire e punire i responsabili. Premesso di aver chiaramente individuato il motivo dell’allontanamento in una gravissima faida familiare e di aver lamentato l’incapacità dello Stato di tutelarlo contro le minacce dei familiari degli assassini di sua sorella, rileva che, nell’escludere la credibilità della vicenda narrata, il Tribunale ha omesso d’inquadrarla nel contesto di provenienza, essendosi limitato ad evidenziare la diversità del suo cognome da quello della minore uccisa, senza verificare se fossero figli di padri diversi, e a sottolineare l’inutilità delle minacce, senza tener conto della plausibilità di vendette e ritorsioni.

2.1. Il motivo è infondato.

In tema di protezione internazionale, la valutazione in ordine alla credibilità delle dichiarazioni rese dallo straniero, da condursi sulla base dei criteri di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 5, costituisce un apprezzamento di fatto, riservato al giudice di merito e censurabile in sede di legittimità esclusivamente ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, come modificato dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, comma 1, lett. b), convertito con modificazioni dalla L. 7 agosto 2012, n. 134, per omesso esame di un fatto decisivo che è stato oggetto di discussione tra le parti, ovvero ai sensi dell’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4, per difetto di motivazione, da intendersi non già come mera insufficienza o contraddittorietà della stessa, ma come mancanza assoluta della motivazione sotto l’aspetto materiale e grafico oppure come motivazione meramente apparente, perplessa o costituita da argomentazioni talmente inconciliabili da non permettere di riconoscerla come giustificazione del decisum, sempre che tale vizio emerga immediatamente e direttamente dal testo del provvedimento impugnato (cfr. Cass., Sez. I, 7/08/2019, n. 21142; 5/02/2019, n. 3340; Cass., Sez. VI, 30/10/2018, n. 27503).

Il predetto apprezzamento, nella specie, non può ritenersi inficiato dalla mancata considerazione dell’età del ricorrente, il quale, ancora minorenne alla data di ingresso nel territorio italiano ed a quella del colloquio svoltosi dinanzi alla Commissione territoriale, ha raggiunto il diciottesimo anno in data anteriore a quella d’instaurazione del giudizio, ed era pertanto maggiorenne alla data della comparizione personale dinanzi al Giudice relatore, in occasione della quale, pur essendo in grado di modificare le dichiarazioni rese in precedenza sulla base di una più consapevole valutazione resa possibile dall’ormai raggiunta maturità, non risulta aver addotto elementi di novità rispetto alla vicenda personale allegata a sostegno della domanda. Sotto il profilo formale, poi, la circostanza che il colloquio si sia svolto senza la presenza di un tutore, nonostante la minore età del richiedente, non incide in alcun modo sulla regolarità del successivo giudizio, il quale, pur muovendo dall’impugnazione del provvedimento emesso dalla Commissione, non ha ad oggetto la validità dello stesso, ma l’accertamento del diritto alla protezione internazionale, mediante il riscontro dei presupposti richiesti per l’applicazione delle misure specificamente previste dalla legge (cfr. Cass., Sez. I, 21/11/2018, n. 30105; Cass., Sez. VI, 22/03/2017, n. 7385; 19/12/2011, n. 26480).

Quanto agli altri aspetti dei quali il ricorrente lamenta l’omessa valutazione, le censure risultano prive di specificità, non essendo accompagnate dall’indicazione della fase e dell’atto del giudizio di merito in cui sarebbero state dedotte la diversa paternità della sorella assassinata, prospettata peraltro anche in questa sede come una mera congettura, e la riconducibilità delle minacce subìte ad una vera e propria faida, la quale, consistendo in un contrasto sanguinoso tra gruppi familiari per motivi d’onore o d’interesse, destinato a protrarsi nel tempo, costituirebbe una vicenda ben diversa da quella allegata a sostegno della domanda, caratterizzata dal mero tentativo di provocare il ritiro della denuncia presentata dal ricorrente o la ritrattazione della testimonianza da lui resa in ordine al predetto delitto.

La ritenuta inattendibilità della predetta vicenda deve infine ritenersi di per sè sufficiente a giustificare il mancato compimento da parte del Tribunale di approfondimenti istruttori in ordine all’efficienza dell’apparato di polizia e di quello giudiziario del Paese di origine del ricorrente, ed in particolare in ordine alla capacità delle autorità statuali di garantire tutela alle vittime di siffatte minacce: nei giudizi in materia di protezione internazionale, l’esclusione della credibilità dei fatti allegati a sostegno della domanda dispensa infatti il giudice dal dovere di cooperazione istruttoria officiosa posto a suo carico dal D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, comma 3, il quale non opera laddove sia stato proprio il richiedente a declinare, con una versione dei fatti inaffidabile o inattendibile, la volontà di cooperare, quantomeno in relazione all’allegazione affidabile degli stessi (cfr. Cass., Sez. I, 12/06/2019, n. 15794; Cass., Sez. VI, 20/12/2018, n. 33096; 27/06/2018, n. 16925).

3. Con il secondo motivo, il ricorrente deduce la violazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 2, comma 1 e art. 14 e del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, sostenendo che, nell’escludere la sussistenza del rischio di assoggettamento a trattamenti inumani o degradanti, il decreto impugnato si è limitato a prospettare astrattamente la possibilità di rivolgersi alle autorità competenti, senza verificare in concreto l’effettività della tutela dalle stesse garantita, sulla base d’informazioni desunte da fonti aggiornate ed attendibili e sottoposte al contraddittorio delle parti. Aggiunge che, nell’escludere la sussistenza del concreto pericolo di un danno grave derivante da una situazione di violenza generalizzata, il Tribunale non ha considerato che, in presenza di un rischio individualizzato, quale quello derivante dalle minacce dei familiari degli arrestati, dell’art. 14 cit., lett. c), non richiede la prova della gravità della situazione generale del Paese. Afferma infine che, a fronte di violazioni sistematiche e gravi dei diritti umani nel Paese di provenienza, l’onere della prova del predetto rischio deve ritenersi ancor più attenuato, per effetto del D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, art. 19, comma 1, n. 1, introdotto dalla L. 14 luglio 2017, n. 110, art. 3, il quale vieta l’allontanamento in presenza del rischio di sottoposizione a tortura.

3.1. Il motivo è infondato.

Rinviando a quanto già detto con riguardo al mancato compimento di approfondimenti istruttori in ordine all’effettività della tutela assicurata dalle autorità statuali del Bangladesh, è appena il caso di osservare che, indipendentemente dalla configurabilità di una situazione di conflitto armato nel predetto Paese, anch’essa esclusa dal decreto impugnato, l’assenza di qualsiasi nesso tra le minacce subite dal ricorrente e gli episodi di violenza politica ed interetnica segnalati dalle fonti d’informazione citate dal Tribunale impedisce, nella specie, di estendere alla vicenda allegata a sostegno della domanda l’operatività del regime probatorio attenuato ritenuto applicabile all’ipotesi di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c), il quale postula che, proprio a causa dello stato di violenza diffusa esistente nel Paese di origine, il richiedente resti esposto, in caso di rimpatrio, al rischio di un danno grave alla vita o alla persona per il solo fatto della sua presenza sul territorio (cfr. Cass., Sez. VI, 8/07/2019, n. 18306; 2/04/2019, n. 9090; 31/05/2018, n. 13858). Per analoghe ragioni, deve escludersi l’applicabilità del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 19, comma 1, n. 1, il quale, nell’equiparare alla tortura una situazione di violazione sistematica e grave dei diritti umani, ai fini dell’operatività del divieto di espulsione, presuppone anch’esso l’esposizione ad un rischio individuale, sia pure d’intensità inferiore a quella richiesta per il riconoscimento dello status di rifugiato.

4. Con il terzo motivo, il ricorrente lamenta la violazione o la falsa applicazione dell’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4, art. 10 Cost., comma 3, D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, art. 5, comma 6 e art. 19, comma 2, D.Lgs. n. 251 del 2007, artt. 3,4,7,14,16 e 17 e del D.Lgs. n. 25 del 2008, artt. 8, 10 e 32, censurando il decreto impugnato per aver escluso la sussistenza di una situazione di vulnerabilità, nonostante la minore età di esso ricorrente. Aggiunge che il Tribunale non ha tenuto conto dell’autonomia della protezione umanitaria rispetto alle altre forme di protezione internazionale, non avendo valutato, ai fini del riconoscimento della stessa, le informazioni relative al suo Paese di origine, richiamate invece ai fini del rigetto della domanda di riconoscimento della protezione sussidiaria. Sostiene che in tal modo il Tribunale è venuto meno al proprio dovere di cooperazione istruttoria officiosa, non avendo accertato i rischi ai quali egli si troverebbe esposto in caso di rimpatrio, in relazione alla situazione oggettiva d’instabilità politica e violenza diffusa esistente nel Paese di provenienza ed alla sua vicenda personale, la cui valutazione doveva considerarsi preliminare rispetto a quella della situazione soggettiva di vulnerabilità di esso ricorrente, collegata alla sua età, al suo stato di salute, alle sue condizioni personali e familiari ed al suo inserimento sociale.

4.1. Il motivo è parzialmente fondato.

Correttamente, infatti, il decreto impugnato ha ritenuto irrilevanti, ai fini della concessione della protezione umanitaria, la vicenda personale e la situazione di violenza diffusa allegate a sostegno della domanda di riconoscimento dello status di rifugiato e della protezione sussidiaria, non solo alla luce della ritenuta inattendibilità della prima e dell’accertamento dell’insussistenza della seconda, ma anche dell’autonomia della misura in esame, la cui applicazione, dovendo costituire oggetto di una distinta valutazione, postula a carico del richiedente l’onere di allegare fatti diversi ed ulteriori rispetto a quelli posti a fondamento delle domande di riconoscimento delle altre due forme di protezione (cfr. Cass., Sez. I, 7/08/2019, n. 21123; 15/05/2019, n. 13088; 12/11/2018, n. 28990). Come questa Corte ha avuto modo di precisare più volte, tali fatti non sono suscettibili di astratta tipizzazione, dal momento che la protezione umanitaria costituisce una misura atipica e residuale, nel senso che copre tutte quelle situazioni in cui, pur non sussistendo i presupposti per il riconoscimento dello status di rifugiato o della protezione sussidiaria, tuttavia non possa disporsi l’espulsione (cfr. Cass., Sez. I, 15/05/2019, n. 13079; 31/05/2018, n. 14005; Cass., Sez. VI, 9/10/2017, n. 23604). L’applicazione di tale misura richiede pertanto una valutazione individuale, da condursi caso per caso, del livello d’integrazione sociale e lavorativa raggiunto dal richiedente in Italia, comparato alla situazione personale in cui versava prima dell’abbandono del Paese di origine e nella quale si troverebbe nuovamente esposto in conseguenza del rimpatrio, in modo tale da far emergere eventuali situazioni personali di vulnerabilità, collegate alla violazione di diritti fondamentali (cfr. Cass., Sez. Un., 13/11/2019, n. 29459; Cass., Sez. VI, 3/04/2019, n. 9304; 7/02/2019, n. 3681).

Tra le predette situazioni va indubbiamente annoverata la minore età del richiedente, la quale costituisce oggetto di specifica attenzione da parte della disciplina in tema di immigrazione, in quanto, oltre a precludere l’emissione del decreto di espulsione, ai sensi del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 19, comma 2, lett. a), salvo che per motivi di ordine pubblico o di sicurezza dello Stato, giustifica l’applicazione di particolari misure di tutela, sia sotto il profilo sostanziale, ai sensi degli artt. 28, 31 e 33 del medesimo Decreto, D.Lgs. 18 agosto 2015, n. 142, art. 19 e della L. 7 aprile 2017, n. 47, che sotto quello procedimentale, ai sensi del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 13, comma 3 e art. 28, comma 1, lett. b), tale aspetto non è stato preso in considerazione dal decreto impugnato, il quale, nel rigettare la domanda di riconoscimento della protezione umanitaria, si è limitato ad escludere la sufficienza dell’inserimento sociale e lavorativo del ricorrente in Italia, testimoniato dalla stipulazione di un contratto di lavoro a tempo indeterminato e dallo svolgimento di attività formative volte all’apprendimento della lingua italiana, nonchè a rilevare l’assenza di ragioni ostative al suo reinserimento nel Paese di origine, in considerazione dell’ampia rete parentale di cui egli dispone, omettendo invece di valutare l’età che il ricorrente aveva al momento del suo ingresso in Italia, le vicissitudini da lui attraversate nel lungo tragitto dal Paese di origine, le esperienze traumatiche eventualmente vissute, il tempo trascorso da quell’epoca e le relazioni eventualmente intrattenute nel nostro Paese, le particolari esigenze di tutela connesse alla sua età ed alla sua formazione. Il Tribunale ha inoltre omesso di verificare se il ricorrente si trovasse nella posizione di minorenne non accompagnato, la quale, come affermato dalla Corte EDU, costituisce di per sè una condizione di “vulnerabilità estrema”, da ritenersi prevalente rispetto alla qualità di straniero illegalmente soggiornante nel territorio dello Stato, avuto riguardo all’assenza di familiari maggiorenni in grado di prendersene cura ed al conseguente obbligo dello Stato di adottare tutte le misure positive necessarie, il cui inadempimento costituisce violazione dell’art. 3 della CEDU (cfr. Corte EDU, sent. 12/10/2006, Mubilanzila Mayeka e Ka-niki Mitunga c. Belgio; v. anche, in ordine alle esperienze vissute dal minore, sent. 22/11/2016, Abdullahi Elmi ed altri c. Malta; 21/1/2011, M.S.S. c. Belgio).

5. Il decreto impugnato va pertanto cassato, nei limiti segnati dalle censure accolte, con il conseguente rinvio della causa al Tribunale di Milano, che provvederà, in diversa composizione, anche al regolamento delle spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.

rigetta i primi due motivi di ricorso, accoglie parzialmente il terzo motivo, cassa il decreto impugnato, in relazione alle censure accolte, e rinvia al Tribunale di Milano, in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, il 20 febbraio 2020.

Depositato in Cancelleria il 17 giugno 2020

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