Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 11738 del 14/05/2010

Cassazione civile sez. lav., 14/05/2010, (ud. 13/04/2010, dep. 14/05/2010), n.11738

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. VIDIRI Guido – Presidente –

Dott. MONACI Stefano – Consigliere –

Dott. STILE Paolo – Consigliere –

Dott. IANNIELLO Antonio – Consigliere –

Dott. MELIADO’ Giuseppe – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

A.F., elettivamente domiciliato in ROMA, VIALE

GLORIOSO 13, presso lo studio degli avvocati BUSSA LIVIO e BUSSA

ANDREA, che lo rappresentano e difendo, giusta mandato a margine del

ricorso;

– ricorrente –

contro

A.U.S.L. ROMA – AZIENDA UNITA’ SANITARIA LOCALE – (OMISSIS);

– intimata –

sul ricorso 24669-2006 proposto da:

A.U.S.L. ROMA – AZIENDA UNITA’ SANITARIA LOCALE – (OMISSIS), in

persona

del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in

GUIDONIA – ROMA, VIA MARIA CALDERARA 4, rappresentata e difesa

dall’avvocato MESSA VITTORIO, giusta mandato a margine del

controricorso e ricorso incidentale;

– controricorrente e ricorrente incidentale –

contro

A.F.;

– intimato –

avverso la sentenza n. 4723/2005 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 29/08/2005 r.g.n. 2833/04;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

13/04/2010 dal Consigliere Dott. GIUSEPPE MELIADO’;

udito l’Avvocato ERMINI PAOLO per delega BUSSA LIVIO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

MATERA Marcello, che ha concluso per il rigetto di entrambi i

ricorsi.

 

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con sentenza in data 8.6/29.8.2005 la Corte di appello di Roma, in riforma della sentenza resa dal Tribunale presso la stessa sede il 12.3.2003, impugnata da A.F. e dalla ASL RM (OMISSIS), rigettava la domanda dal primo avanzata al fine , fra l’altro, di far dichiarare l’illegittimità della sospensione cautelare dal servizio per il periodo successivo alla revoca degli arresti domiciliari, disposta il 24.11.2000, con diritto all’integrale trattamento retributivo relativo al periodo dal 24.11.2000 al 31.7.2001.

Osservava in sintesi la corte territoriale che, in base alle disposizioni contrattuali applicabili, successivamente al venir meno dello stato di restrizione della libertà personale, il datore di lavoro poteva prolungare la sospensione dal servizio “alle medesime condizioni” previste per il caso di sospensione facoltativa e che tale disposizione doveva intendersi nel senso di riconoscere la possibilità di prolungare il periodo di sospensione sulla base delle specifiche condizioni attinenti alla natura dei fatti contestati (e cioè, per fatti direttamente attinenti al rapporto di lavoro o, comunque, tali da comportare, se accertati, la sanzione del licenziamento), senza che potesse configurarsi quale necessario presupposto l’avvenuta emanazione del provvedimento di rinvio a giudizio.

Per la cassazione della sentenza propone ricorso A.F. con tre motivi, illustrati con memoria. Resiste con controricorso e ricorso incidentale l’ASL RM (OMISSIS).

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo il ricorrente principale lamenta violazione e falsa applicazione degli artt. 1321 ss. c.c., artt. 1362, 1263 c.c., con riferimento agli artt. 30 e 32 CCNL Sanità, nonchè vizio di motivazione, ed, al riguardo, osserva che la sentenza impugnata, erroneamente interpretando la norma pattizia, aveva escluso che la stessa autorizzasse il datore di lavoro a sospendere cautelarmente il dipendente solo ove fosse stato rinviato a giudizio per fatti attinenti al rapporto di lavoro e talmente gravi da comportare la sanzione del licenziamento.

Con il secondo motivo, il ricorrente, prospettando la violazione degli artt. 1362 ss. c.c., con riferimento agli artt. 29, 30 e 32 CCNL Sanità, nonchè vizio di motivazione, soggiunge che, comunque, la corte non aveva considerato che, nel caso, nessun procedimento disciplinare era stato avviato, con la conseguente inconfigurabilità, anche solo in via astratta, di fatti suscettibili di sanzione.

Con l’ultimo motivo, infine, il ricorrente lamenta violazione dell’art. 112 c.p.c., in relazione all’art. 2697 c.c., rilevando che del tutto immotivatamente, pur in difetto del rinvio a giudizio e dell’avvio di un procedimento disciplinare, la corte territoriale aveva ritenuto che potessero attribuirsi al ricorrente fatti disciplinarmente rilevanti.

2. I ricorsi principale e incidentale vanno preliminarmente riuniti, ai sensi dell’art. 335 c.p.c..

3. Va, quindi, disattesa l’eccezione di inammissibilità del ricorso per violazione dell’art. 366 bis c.p.c., trattandosi di norma inapplicabile nel caso ratione temporis, in quanto il provvedimento impugnato risulta pubblicato anteriormente al 2.3.2006, data individuata dal D.Lgs. n. 40 del 2006 (art. 27, comma 2) ai fini dell’operatività delle nuove disposizioni processuali dal testo stesso introdotte (cfr. Cass. n. 13067/2007).

4. Il primo motivo è infondato.

Prevede l’art. 32 del CCNL Sanità, la cui interpretazione viene qui in rilievo, che “il dipendente che sia colpito da misura restrittiva della libertà personale è sospeso d’ufficio dal servizio con privazione della retribuzione per la durata dello stato di detenzione o comunque dello stato restrittivo della libertà” (comma 1); che “il dipendente può essere sospeso dal servizio con privazione della retribuzione anche nel caso in cui venga sottoposto a procedimento penale che non comporti restrizione della libertà personale quando sia rinviato a giudizio per fatti direttamente attinenti al rapporto di lavoro o comunque tali da comportare, se accertati, la sanzione disciplinare del licenziamento ai sensi dell’art. 30, commi 6 e 7″ (comma 2); che l’azienda o l’ente, cessato lo stato di restrizione della libertà personale di cui al comma 1, può prolungare anche successivamente il periodo di sospensione del dipendente, fino alla sentenza definitiva, alle medesime condizioni di cui al comma 2” (comma 3).

Ha ritenuto la corte territoriale che il riferimento, contenuto nel terzo comma, alle “medesime condizioni” previste nel secondo non si estende, quale necessario presupposto, al provvedimento di rinvio a giudizio, ma è circoscritto alle specifiche condizioni attinenti alla natura dei fatti addebitati, tali da comportare la sanzione disciplinare del licenziamento.

La Corte condivide tale interpretazione, in quanto non solo compatibile col dato letterale, ma anche adeguata dal punto di vista sistematico.

Sotto il primo aspetto, basta osservare che la norma del comma 3, si ricollega ad una situazione (quella del dipendente che sia stato obbligatoriamente sospeso dal servizio, in quanto attinto da una misura restrittiva della libertà personale) che si differenzia, nella valutazione delle parti sociali, per la sua maggiore gravità, da quella prevista dal comma 2 (tanto che solo nella prima ipotesi la sospensione dal servizio assume carattere di obbligatorietà) e che, pertanto, non casualmente non richiama il provvedimento di rinvio a giudizio, ma solo le “condizioni” che ne qualificano l’adozione, sotto l’aspetto della connessione fra i fatti addebitati ed il rapporto di servizio o , comunque, per la loro obiettiva gravità, anche a prescindere da alcuna connessione col rapporto di lavoro, secondo le previsioni della stessa disciplina collettiva (art. 30, commi 6 e 7).

Non casualmente, del resto, la disposizione contrattuale fa riferimento, per come evidenzia l’uso del plurale, ad una pluralità di condizioni, e non anche ad una unica condizione, quale verrebbe ad essere,invece, il rinvio a giudizio, ove si ritenesse lo stesso presupposto necessario ed indefettibile per la sospensione, quasi che la norma prescrivesse che “l’azienda … può prolungare anche successivamente il periodo di sospensione del dipendente … a condizione che …” per gli stessi fatti fosse stato richiesto il giudizio.

Tale interpretazione trova, peraltro, ulteriore conferma, per come correttamente si avverte nella decisione impugnata, nella considerazione che la disposizione in esame, nel far riferimento al “prolungamento” della sospensione, considera come normale l’ipotesi che la sospensione facoltativa segua senza soluzione di continuità quella obbligatoria, e che proprio rispetto a tale evenienza appare incongrua l’individuazione nel rinvio a giudizio di un necessario presupposto del provvedimento cautelare facoltativo, che, data la peculiarità della fattispecie contemplata nel comma 1, il datore di lavoro può, invece, adottare “in prosecuzione” di quello obbligatorio.

Ma, a ben vedere, è l’utilità stessa della disposizione che risulterebbe sfuggente ove si ritenesse che il comma 3, richiama nella sua interezza la previsione del secondo, non potendosi certo dubitare, a fronte della possibilità, riconosciuta, in via generale, al datore di lavoro, in presenza di un provvedimento di rinvio a giudizio, di sospendere il dipendente dal servizio, che tale facoltà possa trovare limitazione, in relazione alla sua ratio, nei confronti di qualsiasi dipendente, sia stato o meno lo stesso in precedenza destinatario di un provvedimento restrittivo della libertà personale.

Ed, infine,ma non certo per ultimo, deve convenirsi che la norma, ove interpretata nel senso sostenuto dal ricorrente, presenterebbe indubbi profili di irragionevolezza, in quanto finirebbe per assicurare un trattamento più favorevole ai dipendenti nei cui confronti siano contestati fatti criminosi di maggiore complessità e per il cui accertamento si rendano necessari tempi più lunghi, idonei ad incidere sul rinvio a giudizio.

Deve, quindi, conclusivamente ritenersi che la disposizione in esame vada interpretata nel senso che il datore di lavoro, cessato lo stato di restrizione della libertà personale, può prolungare anche successivamente il periodo di sospensione del dipendente in presenza di fatti, oggetto dell’accertamento penale, che siano direttamente attinenti al rapporto di lavoro o, comunque, tali da comportare, se accertati, l’applicazione della sanzione disciplinare del licenziamento.

5. Anche il secondo motivo è infondato.

Tale mezzo, infatti, per la parte in cui non risulta connesso alle censure già esaminate, introduce censure non esaminate nelle precedenti fasi del giudizio, e, pertanto, in questa sede inammissibili.

Il ricorrente, pur rilevando la mancata instaurazione del procedimento disciplinare in ordine ai fatti oggetto dell’accertamento penale, non ha, tuttavia, documentato, in conformità al canone di necessaria autosufficienza del ricorso per cassazione, di aver prospettato, nella fase di merito, una questione di interpretazione delle norme contrattuali (art. 32, comma 5 e disposizioni ivi richiamate) che presiedono al rapporto fra giudizio disciplinare e sospensione cautelare, ed, anzi, tale circostanza appare esclusa dalla trascrizione stessa del ricorso di primo grado rinvenibile in seno al presente atto di impugnazione, ove espressamente si ricollega l’illegittimità del provvedimento sospensivo all’assenza del rinvio al giudizio e, comunque, all’assenza delle condizioni previste nell’art. 31 dello stesso contratto (sospensione cautelare in corso di procedimento disciplinare).

E cioè, a presupposti contrattuali del tutto distinti da quelli richiamati (solo) nel presente giudizio e che, peraltro, abbisognavano di puntuali allegazioni di fatto, ad iniziare dalle necessarie specificazioni in ordine all’esito del processo penale, data la rilevanza che tale esito assume rispetto sia al provvedimento cautelare (art. 32, comma 6) che al procedimento disciplinare (art. 30, commi 8 e 9).

6. Nel rigetto dei precedenti motivi resta assorbito anche il terzo mezzo di ricorso.

7. Infondato appare, infine, anche il ricorso incidentale, con il quale l’Azienda resistente lamenta l’immotivata compensazione delle spese del giudizio di merito. Per come ha, infatti, precisato la giurisprudenza di questa Suprema Corte, anche nel regime anteriore a quello introdotto dalla L. n. 263 del 2005, art. 2, comma 1, lett. a), il provvedimento di compensazione delle spese “per giusti motivi” deve trovare un adeguato supporto motivazionale, e, nondimeno, a tal fine non è necessaria l’adozione di motivazioni specificatamente riferite a detto provvedimento, purchè le ragioni giustificatrici dello stesso siano chiaramente desumibili dal complesso della motivazione adottata a sostegno della statuizione, come, a titolo meramente esemplificativo, nel caso in cui si dia atto, nella motivazione del provvedimento, di oscillazioni giurisprudenziali sulla questione decisa, ovvero di oggettive difficoltà di accertamenti di fatto, idonee a incidere sulla esatta conoscibilità a priori delle rispettive ragioni delle parti, o di una palese sproporzione tra l’interesse concreto della parte vittoriosa e il costo delle attività processuali richieste o ancora di un immotivato rifiuto di proposte transattive plausibili in relazioni alle concrete risultanze processuali (cfr. SU n. 20598/2008).

Nel caso in esame, la sentenza impugnata da conto delle diverse opzioni interpretative rinvenibili nella giurisprudenza in ordine alla questione interpretativa oggetto del ricorso principale e tale constatazione fornisce oggettiva giustificazione, sulla base dell’insegnamento giurisprudenziale richiamato, al provvedimento di compensazione adottato dal giudice di merito.

8. Entrambi i ricorsi vanno, dunque, rigettati.

Stante l’esito del giudizio, ricorrono giusti motivi per compensare pure le spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.

La Corte riunisce i ricorsi e li rigetta; compensa le spese.

Così deciso in Roma, il 13 aprile 2010.

Depositato in Cancelleria il 14 maggio 2010

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