Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 11725 del 27/05/2011

Cassazione civile sez. trib., 27/05/2011, (ud. 09/03/2011, dep. 27/05/2011), n.11725

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. D’ALONZO Michele – Presidente –

Dott. BOGNANNI Salvatore – Consigliere –

Dott. PARMEGGIANI Carlo – Consigliere –

Dott. FERRARA Ettore – Consigliere –

Dott. TERRUSI Francesco – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 24317-2006 proposto da:

AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore,

elettivamente domiciliato in ROMA VIA DEI PORTOGHESI 12 presso

l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende ope

legis;

– ricorrente –

contro

CAPITALIA SPA già BANCA DI ROMA SPA in qualità di incorporante

della BANCA MEDITERRANEA SPA, in persona del legale rappresentante

pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA VIA VENTIQUATTRO

MAGGIO 43 presso lo studio dell’avvocato GRANDE CORRADO, che lo

rappresenta e difende giusta delega in calce;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 36/2005 della COMM. TRIB. REG. di POTENZA,

depositata il 12/07/2005;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

09/03/2011 dal Consigliere Dott. FRANCESCO TERRUSI;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

ZENO Immacolata che ha concluso per l’improcedibilità, in subordine

il rigetto.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

L’agenzia delle entrate di Potenza recuperò a tassazione, per l’anno 1994, ai fini Irpeg e Ilor, alcune somme dovute dalla allora Banca di Roma s.p.a. (oggi Capitalia s.p.a.). Segnatamente (a) la somma di L. 612.894.000, quale quota di ammortamento del disavanzo di fusione per incorporazione della Banca Moldar s.p.a. in Banca Lucania s.p.a., poi divenuta, a seguito di ulteriore fusione. Banca Mediterranea s.p.a.

(infine incorporata nella medesima Banca di Roma); (b) la somma di L. 8.272.479.533 iscritta tra le passività di esercizio in un fondo di copertura della perdita delle partecipate.

Il relativo avviso di accertamento venne impugnato dalla Banca di Roma dinanzi alla commissione tributaria provinciale di Potenza, la quale, con sentenza 233/03/2001, accolse il gravame recependo la tesi della ricorrente secondo cui la posta sub (b) – ancorchè denominata “accantonamento per svalutazione su partecipazione” – configurava un costo certo di esercizio, alla stregua di debito nei confronti delle controllate, si da esser deducibile ai sensi del D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 75 (Tuir).

L’agenzia delle entrate propose appello su questo punto, ribadendo la tesi che trattavasi, invece, di accantonamento in senso proprio di somme finalizzate alla copertura di residue perdite emergenti dopo l’azzeramento del patrimonio (rectius, capitale) di due controllate , non rientrante, come tale, nel disposto ex art. 73, comma 4, ciyt.

Tuir siccome contenente, questo, un’elencazione tassativa degli accantonamenti deducibili. In ogni caso rilevò che il ripianamento del deficit patrimoniale, ai sensi dell’art. 61, comma 5 cit. Tuir, avrebbe comportato la deducibilità del costo nell’esercizio in cui questo fosse stato in effetti sostenuto, e non in quello di assunzione del relativo impegno di spesa.

La commissione tributaria regionale della Basilicata, con la sentenza n. 36/03/2005, rigettò l’appello de quo (nonchè l’appello incidentale della banca sul capo della sentenza di primo grado che aveva disposto la compensazione delle spese processuali).

Ritenne invero inammissibile la prima doglianza in quanto priva di specificità, stante che la stesa s’era risolta nella pedissequa riproposizione dell’argomentazione ripudiata dal giudice di primo grado con un ragionamento “non fatto oggetto di una censura mirata”;

e infondata la seconda, in ragione del principio, tratto dalla giurisprudenza evocata dallo stesso ufficio appellante (Cass. n. 5190/2000), che aveva statuito che ai fini dell’imputazione in bilancio dei conferimenti diretti a integrare il capitale perduto di un’altra società, così come deve prescindersi dalla data in cui questi siano stati materialmente eseguiti, non può aversi riguardo neppure al momento in cui si sia verificata la perdita, poichè quest’ultimo rappresenta il semplice presupposto dei conferimenti e rimane quindi estraneo alla realizzazione della loro fattispecie costitutiva e al dispiegarsi dei loro effetti.

Per la cassazione di questa sentenza, non notificata, l’agenzia delle entrate propone ricorso sorretto da due motivi. L’intimata resiste con controricorso.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. – La causa ha per oggetto la questione della deducibilità di somme, accantonate in apposito fondo, destinate a copertura di perdite di società partecipate.

La ricorrente deduce, col primo motivo, violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 53 e art. 62, comma 1.

Sostiene che la riproposizione delle difese già svolte nel precedente grado non significa mancanza di specificità dell’appello, come invece ritenuto dalla commissione regionale, “essendo ben possibile che l’appello riproponga in modo puntuale ed analitico le questioni già proposte nel precedente grado”; e che comunque, nel caso di specie, l’appello era stato altresì sostenuto “da numerose e analitiche argomentazioni, che hanno sviluppato ed ampliato le difese svolte in primo grado”.

Censura poi la sentenza, col secondo motivo – rubricato come “violazione e falsa applicazione del cit. Tuir, art. 61, comma 5, e art. 73, comma 4 (nel testo in vigore ratione temporis), e “omessa e insufficiente motivazione su punti decisivi della controversia”, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, e al D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 62, comma 1 nella parte in cui è stata considerata alla stregua di componente negativa certa – e perciò deducibile nell’esercizio di appostazione – la somma iscritta al fondo accantonamento per la copertura delle perdite eccedente il patrimonio netto delle partecipate.

2. – I due motivi, per connessione, possono essere esaminati congiuntamente.

E’ preliminare il rilievo che l’insegnamento delle sezioni unite di questa Corte, cui, in risposta al primo motivo, rinvia la banca controricorrente (sez. un. n. 16/2000), risulta progressivamente affinato a mezzo della considerazione che per la sussistenza del requisito di specificità dei motivi di gravame, prescritto dall’art. 342 c.p.c., occorre l’indicazione delle doglianze, anche mediante un’esposizione sommaria, in modo tale che il giudice del gravame sia posto in grado di identificare i punti impugnati e le ragioni di fatto e di diritto in base alle quali viene richiesta la riforma della pronuncia di primo grado. Non è necessario che gli errori attribuiti alla sentenza impugnata siano evidenziati con nuove argomentazioni, in quanto non esiste una stretta correlazione tra la specificità dei motivi e la novità degli argomenti addotti a sostegno di essi (cfr. tra le tante Cass. n. 22123/2009; n. 7190/2010), che semmai può collegarsì alla scelta dell’appellante di completare e integrare le difese nei limiti consentiti dall’ordinamento (v. in generale l’art. 345 c.p.c.).

In sostanza, il principio di necessaria specificità suppone semplicemente che la manifestazione volitiva dell’appellante, indirizzata a ottenere la riforma della sentenza impugnata, sia sorretta da una parte argomentativa idonea a contrastare la motivazione di quella sentenza, oltre che, ovviamente, proporzionata al livello di specificità della medesima, giacchè in finale il canone di specificità devesi comunque coordinare con il principio iura novit curia che, ai sensi dell’art. 113 c.p.c., presiede alla soluzione delle questioni di diritto.

Nel caso di specie, il diretto esame degli atti processuali, consentito al collegio in considerazione della tipologia di vizio (in procedendo) denunziato dalla ricorrente, porta alla conclusione che le censure contenute nei motivi d’appello consistettero nella contestazione della soluzione giuridica adottata dal giudice di primo grado – secondo cui l’accantonamento per svalutazione su partecipazioni configurava un costo di ripianamento delle perdite delle controllate deducibile fin dall’imputazione in bilancio, indipendentemente dall’esercizio in cui fosse stato sostenuto – ed erano pertanto idonee a introdurre, nel giudizio di appello, la relativa quaestio iuris.

3. – Per risolvere la questione detta, è utile sintetizzare il nucleo delle contrapposte tesi.

Secondo l’amministrazione finanziaria, la costituzione di un fondo di ripianamento del deficit patrimoniale delle partecipate, e l’imputazione di tale accantonamento al conto economico dell’esercizio di appostazione, integrano un comportamento corretto sul piano civilistico, siccome confortato dai principi contabili nn. 19 e 20 del c.n.d.c. e del c.n.r. in funzione dell’azzeramento del costo della partecipazione. Non rilevano invece sul piano della deduzione fiscale.

In questo caso, stante il cd. principio del doppio binario, la regola cui occorre far riferimento va ricercata nel tuir, art. 61, comma 5, e art. 73, comma 4, Tuir (nel testo ovviamente rilevante pro tempore), a mente dei quali il presupposto è costituito dalla deduzione dei versamenti (e delle remissioni di debito) effettuati a copertura di perdite (per la parte eccedente il patrimonio netto dell’emittente risultante dopo la copertura); donde esso coincide col momento del versamento (nella specie avvenuto nell’anno 1995), e non con quello di appostazione contabile dell’accantonamento a ciò finalizzato (temporalmente collocabile nel 1994).

Tale accantonamento, invero, in virtù del principio di tassatività indicato nell’art. 73, comma 4, cit. Tuir, è assolutamente indeducibile.

A confutazione di questa tesi la controricorrente richiama, invece, il principio di tendenziale derivazione del risultato fiscale da quello di conto economico; sicchè sostiene che in mancanza di deroghe tassativamente previste dalla legislazione tributaria, la condotta civilistica del contribuente esplica immediata efficacia anche in ambito fiscale; e i redditi derivanti dall’esercizio di imprese commerciali, finanche in base alla legge delega per la riforma tributaria n. 825/1971 (art. 2, n. 16), sono determinati secondo criteri di adeguamento del reddito imponibile a quello calcolato secondo principi di competenza economica.

Reputa l’intimata di poter associare l’affermazione al principio di diritto sostenuto ‘ da questa Corte con la sentenza n. 5190/2000, citata dalla commissione regionale. E, al fine di dare maggior forza all’argomento, assume che se, invece, i costi in questione dovessero essere disconosciuti limitatamente all’anno 1994, non essendo i medesimi oneri stati dedotti nell’esercizio successivo (secondo il criterio sostenuto dall’amministrazione) ne deriverebbe il risultato di tassare una ricchezza del tutto inesistente, in violazione dell’art. 53 Cost..

4. – A giudizio del collegio la tesi sostenuta dalla commissione regionale, e qui ripresa dalla controricorrente Capitalia, si dipana da un presupposto errato. Il quale giustamente è censurato dall’amministrazione ricorrente a mezzo dell’affermazione che il regime fiscale (art. 61, comma 5, cit. Tuir) consente la deduzione dei versamenti (e delle remissioni di debito) effettuati a copertura di perdite (per la parte che eccede il patrimonio netto dell’emittente risultante dopo la copertura), non anche del semplice accantonamento a ciò finalizzato, sebbene già fatto oggetto – questo accantonamento – di appostazione contabile.

Da un punto di vista fiscale, cioè, il problema attiene alla necessità di individuare l’esercizio di deducibilità dei versamenti, a seconda che la ricapitalizzazione avvenga o meno nel corso dell’esercizio in cui la perdita risulti realizzata.

Ora, a scopo di inquadramento generale, va osservato che la reintegrazione di perdite delle controllate superiori al patrimonio netto contabile (cd. deficit patrimoniale) suppone il ricorso al procedimento di ricapitalizzazione dettato dal codice civile (per quanto qui interessa, dall’art. 2447 c.c.. nel testo anteriore alla riforma del diritto delle società, di cui al D.Lgs. n. 6 del 2003) per il caso in cui la perdita di oltre 1/3 del capitale abbia comportato la riduzione di questo al di sotto del minimo di legge.

Nondimeno è da tempo invalsa – ed è. ritenuta legittima – la non inusuale distinta prassi dei versamenti spontanei dei soci a fondo perduto: forme anomale, queste, ma comunque lecite, di apporto di capitale, finalizzate a evitare che la società venga a trovarsi nella situazione a cui all’art. 2447 c.c..

La fattispecie considerata dalla richiamata Cass. n. 5190/2000 rientra nell’alveo della prima situazione. Nel cui contesto può in effetti confermarsi che la reintegrazione del capitale, postulando in ogni caso nuovi conferimenti, complessivamente richiede il concorso della volontà della società (manifestata mediante la delibera di emissione delle nuove azioni: art. 2441 c.c. ancora nel testo in vigore ratione temporis) e dei soci (espressa con la sottoscrizione delle azioni emesse) – donde in tal senso si configura come di tipo consensuale (art. 1326 c.c.) si che il versamento del prezzo di emissione rileva quale adempimento dell’impegno negoziale assunto, non già quale elemento integrante della fattispecie costitutiva (v.

Cass. 5190/2000 cit. e, conf., Cass. n. 611/1996).

Implicando il principio di “competenza” che gli elementi reddituali (attivi e passivi) derivanti da una determinata operazione siano iscritti in bilancio nel momento in cui l’operazione ha manifestato i propri effetti sul patrimonio dell’impresa, ne consegue che, in caso di assunzione di un obbligo di conferimento, diretto a reintegrare il capitale perduto, l’unico elemento da prendere in considerazione è effettivamente quello costituito dell’incontro dei consensi, dal momento che, come si è appena posto in evidenza, con il realizzarsi di tale situazione l’operazione (obbligatoria) assume effetti per le parti.

Diverso è il caso in cui, invece, al deficit di una controllata si ritenga di porre rimedio col ricorso al versamento spontaneo del socio a copertura della perdita, sì da evitare, giustappunto, che la perdita superi il limite rapportato al capitale.

In questo caso il versamento posto in essere a copertura della perdita non costituisce adempimento di un’obbligazione all’uopo contratta, donde l’accantonamento delle relative somme in un apposito fondo oneri non possiede natura di costo deducibile nell’esercizio di competenza della relativa appostazione.

Non possiede una siffatta natura in ragione della mera sua connotazione funzionale, rispetto alla componente negativa rappresentata solo dal versamento.

E non è deducibile in quanto non rientrante, come esattamente ritenuto dall’amministrazione ricorrente, tra gli accantonamenti previsti dal capo 6^ del Tuir (art. 73, comma 4 nel testo in vigore ratione temporis).

5. – Nel caso di specie non è dedotto – nè altrimenti si apprezza alla luce di quanto accertato dal giudice di merito – che, a base dell’accantonamento, vi sia stata l’assunzione della procedura di ripianamento per prima evocata ai sensi dell’art. 2447 c.c..

La quale del resto non giustificherebbe razionalmente la circostanza di somme accantonate in apposito fondo, anzichè direttamente versate quale prezzo di emissione delle nuove azioni.

Può quindi essere enunciato il seguente principio di diritto:

“Nell’ipotesi di costituzione di un fondo di copertura di perdite di società partecipate, la somma iscritta al fondo non è deducibile nell’esercizio di appostazione, divenendo deducibile, ai sensi dell’art. 61, comma 5 del Tuir, il solo versamento effettuato a copertura della perdita, nell’esercizio in cui è effettuato e per la parte che eccede il patrimonio netto della società emittente risultante dopo la copertura”.

6. – Non merita condivisione quanto obiettato dalla parte controricorrente a proposito della potenziale conseguenza del disconoscimento dei sopradetti oneri.

L’obiezione che, non essendo i medesimi stati dedotti nell’esercizio successivo, il disconoscimento comporterebbe il risultato di tassare ricchezza inesistente, in violazione dell’art. 53 Cost., non tiene conto dell’insegnamento secondo cui, ferma l’inderogabilità delle regole sull’imputazione temporale dei componenti negativi, funzionale a garantire che non sia alterato il risultato della dichiarazione annuale, ogni conseguenza a tipo di cd. doppia imposizione è comunque evitabile dal contribuente con la richiesta di restituzione della maggior imposta. La quale è proponibile, nei limiti ordinari della prescrizione ex art. 2935 c.c., a far data dal formarsi del giudicato sulla legittimità del recupero dei costi in relazione alla annualità non di competenza (v. Cass. n. 10981/2009; n. 6331/2008).

7. – Conclusivamente, e per le ragioni esposte, la sentenza di merito va cassata e, non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto, può la Corte decidere la causa nel merito, ai sensi dell’art. 384 c.p.c., comma 2, rigettando il ricorso avverso l’atto impositivo.

L’oggettiva complessità della questione di diritto induce alla compensazione delle spese processuali.

P.Q.M.

La Corte accoglie il ricorso; cassa l’impugnata sentenza e, decidendo nel merito, rigetta l’impugnazione avverso l’atto impositivo.

Compensa le spese.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della quinta sezione civile, il 9 marzo 2011.

Depositato in Cancelleria il 27 maggio 2011

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