Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 11714 del 13/05/2010

Cassazione civile sez. I, 13/05/2010, (ud. 15/04/2010, dep. 13/05/2010), n.11714

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. VITTORIA Paolo – rel. Presidente –

Dott. SALVAGO Salvatore – Consigliere –

Dott. CECCHERINI Aldo – Consigliere –

Dott. RAGONESI Vittorio – Consigliere –

Dott. CULTRERA Maria Rosaria – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 15217/2005 proposto da:

COMUNE DI LETOJANNI (cf. (OMISSIS)), in persona del Sindaco pro

tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA PRINCIPE AMEDEO 126,

presso l’avvocato D’ELIA PAOLA, rappresentato e difeso dall’avvocato

TURIANO MANTICA Paolo, giusta procura a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

T.G. (C.F. (OMISSIS)), T.C.

(C.F. (OMISSIS)), R.G. (C.F.

(OMISSIS));

– intimati –

avverso la sentenza n. 105/2005 della CORTE D’APPELLO di MESSINA,

depositata il 31/01/2005;

udita la relazione della causa svolta nella Pubblica udienza del

15/04/2010 dal Presidente Dott. PAOLO VITTORIA;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

ABBRITTI Pietro, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

 

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

1. – Il tribunale di Messina ha accolto la domanda di risarcimento del danno da occupazione acquisitiva proposta contro il Comune di Letojanni da R.G., G. e T.C..

La corte d’appello ha confermato la decisione con sentenza del 22.2.2005.

La sentenza, notificata al Comune l’1.4.2005, è stata impugnata con ricorso notificato il 31.5.2005 agli attori presso il difensore per loro costituito in giudizio.

Non è stato notificato controricorso.

2. – I temi affrontati dal giudice di secondo grado, che tuttora costituiscono oggetto di dibattito, sono i seguenti.

Il Comune aveva sollevato un’eccezione di prescrizione del diritto al risarcimento del danno: i giudici l’hanno rigettata per aver attribuito natura di rinunzia tacita ad un atto indirizzato dallo stesso comune agli attori.

Il Comune discute la natura ed efficacia di tale atto.

Nel risarcimento del danno è stato compreso il deprezzamento derivato al fondo, una volta che sulle aree latistanti all’opera pubblica – una strada – è venuto a ricadere l’obbligo di osservarne le distanze nell’edificazione.

Il Comune sostiene che il risarcimento è stato erroneamente commisurato all’intero valore di tali aree.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. – Il ricorso contiene due motivi.

2. – Il primo denunzia vizi di violazione di norme di diritto e di difetto di motivazione (art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5, in relazione agli artt. 2937 e 2944 cod. civ.).

Il ricorrente svolge un primo argomento.

Lamenta che la corte d’appello abbia totalmente pretermesso ogni pronunzia in ordine alla questione se un comune possa efficacemente rinunziare ad una prescrizione maturata in suo favore.

Sotto questo aspetto il motivo è inammissibile.

La corte d’appello riferisce che l’eccezione era stata rigettata in primo grado e che nell’impugnazione della sentenza del tribunale il punto era stato criticato sostenendo che con l’atto indirizzato alle parti private il comune aveva inteso formulare una proposta di transazione, non riconoscere il proprio debito, come invece considerato dal tribunale.

Ora, questo capo della decisione lo si sarebbe potuto impugnare sotto una pluralità di aspetti diversi: negando e ciò è stato fatto in appello, che l’atto avesse la natura attribuitagli dal tribunale, di riconoscimento del debito; affermando che all’atto di riconoscimento del debito non si può attribuire in diritto un effetto di rinunzia alla prescrizione; sostenendo, come si è fatto con il ricorso per cassazione, che, in ogni caso, la rinunzia alla prescrizione è inefficace quando proviene da pubbliche amministrazioni, perchè queste non possono disporre della posizione di vantaggio, che deriva loro da una prescrizione del contrapposto diritto di credito, già maturata.

Non risulta, però, dalla sentenza che la seconda e comunque la terza questione siano state sottoposte all’esame della corte d’appello.

Nè esponendo il motivo – che peraltro denunzia nell’epigrafe una violazione di norme di diritto e di difetto di motivazione, quando si sarebbe se mai dovuto denunziare un vizio di difetto di corrispondenza tra chiesto e pronunziato – il comune specifica che appunto in quei termini la questione sia stata dedotta come oggetto di uno specifico motivo di appello.

Deduzione invece necessaria, una volta che il tribunale aveva rigettato l’eccezione di prescrizione sulla base dell’atto indirizzato dal comune alle parti private, attribuendo all’atto il carattere di un atto di riconoscimento del debito e gli effetti di una rinuncia ad una prescrizione già maturata.

Deduzione necessaria, perchè, quando il giudice di primo grado appresta ad un fatto una qualificazione giuridica e da questa qualificazione fa derivare corrispondenti effetti egli giudica su ambedue i punti e, se la contestazione cade sul primo punto, ma non sul secondo, la circostanza che questo non sia impugnato non esclude che possa cadere se cade il primo da cui deriva, ma il giudice di appello dalla impugnazione del primo punto non è investito del potere di decidere anche del secondo.

Sono però possibili anche altre considerazioni.

Una costante giurisprudenza della Corte, che si è formata in tema di opposizione alla stima, ha dato luogo alla enunciazione del principio, che il decorso del termine di decadenza per l’opposizione alla stima dell’indennità di espropriazione deve essere rilevato anche di ufficio dal giudice, a prescindere da ogni eccezione dell’ente pubblico espropriante, nel caso in cui la opposizione sia proposta dagli espropriati, trattandosi nel caso di materia sottratta alla disponibilità delle parti, atteso che la posizione dell’ente pubblico che deve pagare l’indennità è indisponibile, non potendo detto ente, soggetto alle norme sulla contabilità pubblica, rinunciare alla decadenza dell’azione del soggetto privato, in considerazione degli interessi pubblici che presiedono all’erogazione delle spese gravanti sui pubblici bilanci (Cass. 8.5.2008 n. 11480).

Il comune, che ricorre, sembra sostenere che tale principio possa trovare applicazione, nel medesimo settore di esperienza giuridica, quello dell’espropriazione per pubblica utilità, nel non potere l’ente pubblico che l’ha promossa, rinunciare a valersi di una prescrizione dell’altrui diritto alla giusta indennità o al risarcimento del danno, trattandosi anche qui di impegnare risorse pubbliche.

L’assunto si imbatte peraltro in una giurisprudenza di segno contrario, anch’essa costante.

Come è stato ricordato nella sentenza 13.10.2007 n. 22018, a partire dalla decisione delle sezioni unite 21.7.1999 n. 485/S.U., circa la possibilità di qualificare i riconoscimenti di debito indennitario come atti interruttivi della prescrizione del diritto al risarcimento del danno, la giurisprudenza di questa Corte ha attribuito tale effetto all’offerta e al deposito dell’indennità, se intervenuti in epoca in cui, essendo maturata l’irreversibile trasformazione del fondo in assenza di un tempestivo decreto di esproprio, il debito a carico dell’amministrazione presentava carattere unicamente risarcitorio e solo a questo si poteva riferire un riconoscimento di debito.

Nè una posizione affatto contraria la Corte ha assunto nella sentenza 29.5.2008 n. 14350, che si è limitata a lasciare spazio ai risultati di un contrario accertamento del giudice di merito compiuto sulla concreta direzione della volontà.

Lo stesso principio la giurisprudenza prima richiamata ha enunciato in riferimento ad atti di riconoscimento sopravvenuti a diritto al risarcimento del danno oramai prescritto.

La ragione di tali orientamenti, in apparenza contrastanti, deriva dalla diversa disciplina della decadenza e della prescrizione.

Quanto alla decadenza, infatti, è stabilito che il giudice la deve rilevare di ufficio, se si determina in materia sottratta alla disponibilità delle parti (art. 2969 cod. civ.).

Quanto alla prescrizione, invece, se da un lato è previsto che i diritti indisponibili non sono soggetti a prescrizione (art. 2934, c.c., comma 2), dall’altro è previsto che alla prescrizione maturata in suo favore l’obbligato possa rinunciare mediante un atto dispositivo che opera sul piano sostanziale (art. 2937 cod. civ.), possibilità alla quale corrisponde sul piano processuale il fatto di non opporla, essendo negato al giudice di rilevarla di ufficio (art. 2938 cod. civ.).

Ma non bisogna confondere la imprescrittibilità di diritti, che da luogo alla irrilevanza del loro mancato esercizio e ridonda in legale inoperatività del fenomeno prescrizione, e va perciò dichiarata di ufficio, con la rinunzia a farla valere (regolata dall’art. 2937 cod. civ.), cui corrisponde la non rilevabilità di ufficio della stessa prescrizione (art. 2938 cod. civ.).

Ciò che è possibile affermare è solo che, comportando la rinuncia alla prescrizione maturata la disposizione di un diritto alla liberazione all’obbligo (art. 2937 c.c., comma 1), chi intende disporne è necessario che ne abbia la relativa capacità: ciò, rapportato ad un ente pubblico, equivale a dire che l’atto che ha il valore di rinunzia deve provenire da chi è legittimato a rappresentare l’ente nell’adempimento dell’obbligo, la cui vigenza risulterebbe ripristinata dall’atto che ne implica riconoscimento.

La questione della efficacia della rinunzia per poter essere conosciuta richiede quindi anche indagini di fatto e dunque, da parte di chi vuole negarne l’efficacia, la specifica contestazione della sua idoneità in relazione alla mancanza dei necessari presupposti di fatto.

Ma ciò non ha costituito oggetto di allegazione.

Il secondo argomento svolto dal ricorrente è il seguente.

L’atto indirizzato dal comune alle parti private poteva se mai valere come riconoscimento del debito indennitario, non di quello risarcitorio.

Si è appena veduto che l’argomento è in linea di principio contrastato dall’orientamento giurisprudenziale della Corte.

La ragione ne è che, nel quadro del fenomeno della occupazione acquisitiva, una volta che questa si è prodotta, l’emissione del decreto di espropriazione non è più possibile, perchè l’effetto cui dovrebbe essere legalmente rivolto si è già prodotto; ed allora, all’offerta di quella che avrebbe potuto essere la corrispondente indennità, fatta a chi ha subito la perdita del suo bene da chi avrebbe potuto profittare della espropriazione, si può giuridicamente attribuire solo il valore di un riconoscimento del persistente diritto del primo al ristoro del pregiudizio subito e quindi di rinunzia tacita ad eccepirne una già intervenuta prescrizione.

Se però si volesse assumere in diritto un diverso approccio, resterebbe che interpretare l’atto di cui è postulata l’efficacia di rinunzia attiene al merito e dunque, se il giudice del merito interpretasse la volontà manifestata nell’atto nel senso che si è indirizzata specificamente al debito risarcitorio o genericamente al ristoro del pregiudizio, subito dalla parte privata nella vicenda seguita all’occupazione, la decisione dovrebbe essere fatta oggetto di critica non con la postulazione della diversità intrinseca delle due posizioni creditorie e del relativo regime prescrizionale, ma con la specifica critica del ragionamento svolto dal giudice.

Ciò nel motivo è mancato.

E per altro verso, nella parte della missiva riportata nella sentenza appare fosse scritto: – “si assicura la disponibilità di questa Civica Amministrazione a versare quanto di Sua spettanza non appena il comune avrà avuto la disponibilità finanziaria da parte dello stesso Assessorato”.

Dunque un’espressione onnicomprensiva.

3. – Il secondo motivo denunzia ancora un vizio di violazione di norme di diritto e di difetto di motivazione (art. 360 cod. proc. civ., nn. 3 e 5, in relazione alle disposizioni in materia di liquidazione del danno da occupazione legittima).

Il motivo riguarda il ristoro del deprezzamento subito dalle aree latitanti alla fascia di terreno occupata, per il fatto che sono finite col rimanere interessate dal vincolo della distanza da osservare nell’edificazione.

Vi si sostiene che il risarcimento è stato rapportato alla intera perdita patrimoniale subita e non soltanto alla diminuzione di valore derivante dall’imposizione del vincolo.

Il motivo è infondato.

La corte d’appello ha detto una cosa diversa.

Ha affermato che il risarcimento deve essere determinato in somma pari all’intera perdita patrimoniale subita e perciò deve comprendere “anche la diminuzione di valore della residua proprietà del privato derivante dal vincolo di inedificabilità imposto dalla L. 6 agosto 1967, n. 765, art. 19, per le zone latitanti alla sede stradale”: dunque ha risarcito la diminuzione di valore della residua proprietà prodotta dall’incidenza del vincolo, non l’intero valore dell’area su cui è venuto a ricadere il vincolo.

4. – Il ricorso è rigettato.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Prima Civile della Corte Suprema di Cassazione, il 15 aprile 2010.

Depositato in Cancelleria il 13 maggio 2010

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