Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 11709 del 17/06/2020

Cassazione civile sez. lav., 17/06/2020, (ud. 28/01/2020, dep. 17/06/2020), n.11709

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. RAIMONDI Guido – Presidente –

Dott. NEGRI DELLA TORRE Paolo – Consigliere –

Dott. BLASUTTO Daniela – rel. Consigliere –

Dott. PATTI Adriano Piergiovanni – Consigliere –

Dott. GARRI Fabrizia – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 21868/2016 proposto da:

T.E., domiciliata in ROMA PIAZZA CAVOUR presso LA CANCELLERIA

DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE, rappresentata e difesa dagli

avvocati PASQUALE CAPUANO, GIANNICOLA SCARCIOLLA;

– ricorrente –

contro

FARMACIA C. S.A.S. del Dott. M.C., in persona del

legale rappresentante pro tempore e C.M., domiciliati

in ROMA PIAZZA CAVOUR presso LA CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI

CASSAZIONE, rappresentati e difesi dall’avvocato ANNAMARIA PASQUINI;

– controricorrenti –

e contro

MA.TI.;

– intimata –

avverso la sentenza n. 315/2016 della CORTE D’APPELLO di L’AQUILA,

depositata il 24/03/201 R.G.N. 680/2015.

Fatto

RILEVATO

che:

1. La Corte di appello di L’Aquila, con sentenza n. 315/2016, rigettava l’appello proposto da T.E. nei confronti della Farmacia C. s.a.s. del Dott. M.C. e di Ma.Ti., nonchè l’appello proposto da Ma.Ti. nei confronti della Farmacia C. del Dott. M.C. e di T.E. e così confermava la sentenza del Tribunale di Lanciano che, in accoglimento della opposizione a decreto ingiuntivo proposta dal Dott. C.M., nella qualità di legale rappresentante della Farmacia C., nei confronti della allora opposta T. e della allora chiamata in causa Ma.Ti., nella qualità di erede universale della Dott.ssa C.R.M.P., aveva: a) revocato il decreto ingiuntivo notificato al C. dalla opposta T.; b) condannato la chiamata in causa Ma.Ti. al pagamento in favore della opposta della somma dalla stessa reclamata a titolo di differenze retributive relative al rapporto di lavoro intercorso con la qualifica di farmacista alle dipendenze della Farmacia C. di R.M.P., di cui la Ma. era divenuta erede universale, successivamente ceduta alla Farmacia C. s.a.s. del Dott. M.C..

2. Nel respingere entrambi gli appelli e confermare la sentenza di primo grado, la Corte di appello, per quanto ancora qui rileva, in merito all’appello proposto dalla lavoratrice T., svolgeva – in sintesi – le considerazioni che seguono:

a) è infondata la censura secondo cui la sentenza di primo grado sarebbe carente di motivazione per avere il primo giudice richiamato per relationem il contenuto degli atti difensivi della allora opponente nonchè il contenuto di un’altra sentenza dello stesso Tribunale che aveva deciso per la prima volta la questione della inefficacia dell’atto di cessione della farmacia dalla Ma. al C.; dalla sentenza impugnata poteva comprendersi che le ragioni della decisione erano in ogni caso attribuibili all’organo giudicante ed erano enunciate in modo chiaro, univoco ed esaustivo; anche alla luce della giurisprudenza di legittimità, la predetta tecnica di redazione non può ritenersi in sè sintomatica di difetto di imparzialità del giudice, al quale non è imposta l’originalità nè dei contenuti nè delle modalità espositive;

b) nel merito, la fattispecie in esame riguarda un’ipotesi di trasferimento di farmacia, per la quale opera la L. 2 aprile 1968, n. 475, art. 12, comma 2, secondo cui il trasferimento della farmacia è subordinato alla condizione legale sospensiva del riconoscimento del medico provinciale, tenuto ad esercitare il controllo dei requisiti richiesti dalla stessa legge per la gestione del servizio farmaceutico, come già ritenuto da Cass. n. 6050 del 1995 e S.U. n. 6587 del 1983; ne deriva che, come correttamente ritenuto dal primo giudice, in applicazione principi generali del contratto sottoposto a condizione, artt. 1353 e 1361 c.c., in mancanza del rilascio del provvedimento amministrativo di riconoscimento del trasferimento della titolarità della farmacia in capo al cessionario, il contratto di cessione dell’azienda stipulato il 9 marzo 2010 deve essere ritenuto inefficace ex tunc, sicchè il cedente deve ritenersi unico soggetto titolare della farmacia e dunque obbligato per i crediti di lavoro dei propri dipendenti, fra i quali l’appellante, non operando il principio di solidarietà previsto dall’art. 2112 c.c., il quale richiede un valido ed efficace atto di cessione di azienda, presupposto insussistente nella specie;

c) è irrilevante che, a seguito della stipula dell’atto di cessione, il Dott. C. avesse inviato ai dipendenti una “comunicazione ai sensi dell’art. 2112 c.c.”, trattandosi di un atto in quel momento dovuto, salvo sempre l’avveramento della condizione sospensiva cui era sottoposta l’efficacia dell’atto di cessione; pertanto, venuta meno la cessione, erano venute meno retroattivamente tutte le conseguenze derivanti dalla stessa, previste dalla legge o dalle parti contraenti.

3. Per la cassazione parziale di tale sentenza, nella parte relativa all’esclusione della responsabilità solidale del Dott. C. ex art. 2112 c.c., ha proposto ricorso T.E. sulla base di tre motivi.

4. Hanno resistito la Farmacia C. s.a.s. del Dott. C. e il Dott. C. in proprio con controricorso, seguito da memoria ex art. 380-bis c.p.c..

5. Ma.Ti. è rimasta intimata.

Diritto

CONSIDERATO

che:

1. Con il primi due motivi si denuncia violazione ed erronea applicazione dell’art. 132 c.p.c. e art. 118 disp. att. c.p.c. e vizio di radicale nullità della sentenza con violazione del diritto di difesa e del principio del contraddittorio, in relazione al rigetto del motivo concernente la nullità della sentenza di primo grado per carenza di motivazione (art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5). Segnatamente, il primo motivo denuncia l’erroneo rigetto del relativo motivo di gravame e il secondo motivo investe direttamente la questione della nullità della sentenza di primo grado motivata per relationem ad atti di parte o a precedenti giurisprudenziali.

Il primo giudice aveva richiamato espressamente per relationem il contenuto degli atti difensivi della allora opponente nonchè altra sentenza dello stesso tribunale che aveva deciso per la prima volta la questione della inefficacia dell’atto di cessione dell’azienda farmacia tra la Ma. e il C.. Difettava una autonoma valutazione. Il giudice di primo grado aveva sostanzialmente emesso un provvedimento privo di motivazione, essendo state ignorate le ragioni della parte soccombente.

Del pari, la Corte di appello, nel rigettare il relativo motivo di appello, ha adottato una pronuncia laconica, dalla quale non è possibile comprendere come il giudice di appello abbia condiviso il giudizio di primo grado attraverso l’esame e la valutazione di infondatezza dei motivi di gravame. Il giudizio espresso è meramente assertivo, essendo mancato un esplicito riferimento al precedente giurisprudenziale, che non è stato trascritto nelle sue parti significative. Nè era possibile enucleare altrimenti il percorso logico-giuridico seguito per pervenire alla decisione.

2. Con il terzo motivo si denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 2112 c.c., omessa e/o insufficiente motivazione, quanto alla asserita inefficacia dell’atto di cessione di azienda in ragione del mancato riconoscimento amministrativo, da parte del medico provinciale, dei requisiti fissati dalla legge (art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5).

A fronte del contratto di cessione di azienda sussisteva la responsabilità solidale per i debiti dal lavoro nei confronti sia del cedente, sia del cessionario, ai sensi dell’art. 2112 c.c., norma imperativa e inderogabile, tant’è che lo stesso Dott. C. aveva compiuto atti di gestione, ordinaria e straordinaria, della costituita società successivamente al contratto di cessione della farmacia.

La Corte d’appello ha omesso di motivare sulle seguenti circostanze, decisive e mai contestate in giudizio: l’avvenuta assunzione della ricorrente alle dipendenze della Farmacia di R.M.P.; l’esistenza di residui crediti retributivi maturati durante tale rapporto di lavoro; l’avvenuta cessione alla Farmacia C. s.a.s. del Dott. C., sita in (OMISSIS), costituita in virtù di atto pubblico a rogito notarile del 9 marzo 2010; la continuazione del rapporto di lavoro a partire dal marzo 2010 alle dipendenze della società cessionaria; l’effettivo svolgimento, da parte del Dott. C., di atti di gestione ordinaria e straordinaria della costituita società e non solo di atti meramente conservativi; l’avvenuta corresponsione, da parte del Dott. C., delle retribuzioni maturate dal marzo 2010 fino al settembre 2010.

L’inefficacia dell’atto di cessione non avrebbe potuto opporsi all’attuale ricorrente, essendo questione interna riguardante il cedente e il cessionario, ma non il lavoratore ceduto. Il contatto di cessione di cui al rogito notarile del 9 marzo 2010, regolarmente registrato, era perfettamente valido e mai impugnato.

A fronte della gestione del rapporto e del subentro nella gestione della farmacia da parte del Dott. C., sussisteva la responsabilità ex art. 2112 c.c., per i crediti retributivi relativi al pregresso periodo di svolgimento del rapporto di lavoro.

3. Le censure mosse alla sentenza impugnata sono destituite di fondamento.

4. I primi due motivi, tra loro connessi, sono inammissibili.

4.1. Occorre premettere che la censura non può che attenere alla sentenza di primo grado, in quanto asseritamente motivata per relationem, e non anche la sentenza di appello che ha svolto un autonomo giudizio sul thema decidendum, nella parte in cui ha respinto il secondo motivo di appello, vertente sul merito della controversia e precisamente relativo alla esclusione della responsabilità solidale del Dott. C.. La censura processuale svolta nei confronti della sentenza di appello attiene invece al rigetto della eccezione di nullità della sentenza di primo grado.

5. Le censure sono innanzitutto inammissibili in quanto la Corte di appello, nel rigettare il secondo motivo di appello, ha pronunciato nel merito.

5.1. Costituisce principio cardine in tema di impugnazione che la sentenza d’appello, anche se confermativa, si sostituisce totalmente a quella di primo grado. A tale principio si associa quello che le nullità delle sentenze soggette ad appello si convertono in motivi di impugnazione (art. 354 c.p.c., comma 1, in relazione all’art. 161 c.p.c., comma 1), con la conseguenza che il giudice di secondo grado investito delle relative censure non può limitarsi a dichiarare la nullità ma deve decidere nel merito. Pertanto, non può essere denunciato in cassazione un vizio della sentenza di primo grado ritenuto insussistente dal giudice d’appello.

5.2. Come recentemente ribadito, in considerazione dell’effetto sostitutivo della pronuncia della sentenza d’appello e del principio secondo cui le nullità delle sentenze soggette ad appello si convertono in motivi di impugnazione, con la conseguenza che il giudice di secondo grado investito delle relative censure non può limitarsi a dichiarare la nullità ma deve decidere nel merito, non può essere denunciato in cassazione un vizio della sentenza di primo grado ritenuto insussistente dal giudice d’appello (Cass. n. 1323 del 2018; cfr. pure Cass. n. 11537 del 1996 e n. 17027 del 2007).

6. Va poi considerato, pur a fronte del carattere assorbente del predetto rilievo, che la Corte di appello ha dato atto – – come si evince dal tenore della sentenza ora impugnata – che il primo giudice non si era limitato ad un pedissequo recepimento di atti esterni, ma aveva svolto un autonomo giudizio, articolando una “puntuale ed autonoma decisione”. Nel ricorso per cassazione non solo non vi è censura sull’attività ermeneutica svolta dal giudice di appello, laddove questo ha espressamente dato conto, interpretando il contenuto della sentenza di primo grado, che la stessa conteneva un autonomo giudizio valutativo, ma parte ricorrente si è limitata ad opporre al giudizio espresso dalla Corte territoriale la propria opposta soluzione, svolgendo quindi una censura che si pone al di fuori del ristretto perimetro di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 (nel nuovo testo applicabile alla fattispecie ratione temporis).

7. Quanto al terzo motivo di ricorso, lo stesso è infondato per i motivi che seguono.

7.1. Innanzitutto, va ribadito quanto già affermato da questa Corte circa la subordinazione dell’effetto traslativo di una farmacia al riconoscimento del medico provinciale. Il provvedimento autorizzativo da parte della Pubblica Amministrazione (prima medico provinciale ora Regione) al trasferimento dell’azienda (come richiesto dalla L. 2 aprile 1968, n. 475, art. 12, comma 2) ha valore di condizione legale sospensiva (Cass. SS.UU. n. 6587 del 1983). In particolare, su tale solco interprativo, questa Corte, con sentenza n. 6050 del 1995, ha avuto modo di precisare che “poichè ai sensi della L. 2 aprile 1968, n. 475, art. 12, comma 2, il trasferimento della farmacia è subordinato alla condizione legale sospensiva del riconoscimento del medico provinciale, tenuto ad esercitare il controllo dei requisiti richiesti dalla stessa legge per la gestione del servizio farmaceutico la vendita, come più in generale, ogni atto traslativo, tra vivi o “mortis causa” di una farmacia non solo non consente all’acquirente prima del riconoscimento, l’esercizio della farmacia ma neppure produce il suo effetto reale del trasferimento della proprietà dell’azienda, che solo dopo il predetto atto amministrativo, avente la natura giuridica di un’autorizzazione costitutiva, si realizza con efficacia retroattiva”. (conforme, Cass. n. 12747 del 2014).

8. A ciò aggiungasi che è incontestato il mancato avveramento della condizione, da cui il venir meno con effetto ex tunc dell’effetto traslativo.

8.1. Ciò comporta che, non essendosi verificato l’effetto traslativo del contratto di trasferimento di farmacia, le vicende del rapporto di lavoro svoltosi medio tempore con il cessionario, in quanto instaurato in via di mero fatto, non sono idonee ad incidere sul rapporto con il cedente ancora in essere, sebbene quiescente fino alla declaratoria di nullità della cessione (cfr. Cass. n. 5998 del 2019). Il rapporto di lavoro permane con il cedente e se ne instaura, in via di fatto, uno nuovo e diverso con il soggetto già, e non più, cessionario, alle cui dipendenze il lavoratore abbia materialmente continuato a lavorare, dal quale derivano effetti giuridici e, in particolare, la nascita degli obblighi gravanti su qualsiasi datore di lavoro che utilizzi la prestazione lavorativa nell’ambito della propria organizzazione imprenditoriale (Cass. n. 21161 del 2019).

9. E’ dunque infondato l’assunto di parte ricorrente secondo cui l’instaurazione, in via di mero fatto, di un rapporto di lavoro con il Dott. C., mai divenuto in via di diritto cessionario della farmacia, comporterebbe comunque l’operatività della regola della responsabilità solidale del cessionario con il cedente ex art. 2112 c.c., comma 2, per i debiti contratti dal secondo durante il rapporto di lavoro svoltosi anteriormente al contratto di cessione, rimasto giuridicamente inefficace per il mancato avveramento della condizione cui era sottoposto.

10. Per completezza, quanto alla posizione processuale di Ma.Ti., che non ha proposto impugnazione e alla quale il ricorso per cassazione ora all’esame è stato notificato, giova precisare che tale originaria litisconcorte non è parte dell’attuale giudizio di cassazione.

10.1. Quando nel processo con pluralità di parti il soccombente notifichi l’impugnazione non solo alla parte vittoriosa nei suoi confronti e contro la quale l’impugnazione stessa è rivolta, ma anche ad altra parte che, invece, sia rimasta soccombente nei confronti dello stesso impugnante, tale ultima notificazione è atto rivolto soltanto a notiziare la parte soccombente, ai sensi dell’art. 332 c.p.c., del fatto che la sentenza è stata impugnata, così da consentirle di valutare se impugnare la statuizione a lei sfavorevole. Ne consegue che, non essendo detta notificazione diretta ad estendere l’impugnazione nei confronti di quella parte, quest’ultima assume la posizione di parte del giudizio di impugnazione esclusivamente nel caso in cui eserciti a sua volta l’impugnazione stessa (cfr. Cass. n. 20437 del 2008; conf. Cass. 2208 del 2012, n. 13355 del 2015, n. 5508 del 2016; cfr. da ultimo, Cass. 10171 del 2018).

11. Il ricorso va dunque rigettato, con condanna di parte ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate nella misura indicata in dispositivo per esborsi e compensi professionali, oltre spese forfettarie nella misura del 15 per cento del compenso totale per la prestazione, ai sensi del D.M. 10 marzo 2014, n. 55, art. 2.

12. Va dato atto della sussistenza dei presupposti processuali (nella specie, rigetto del ricorso) per il versamento, da parte della ricorrente, ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, in misura pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto (v. Cass. S.U. n. 23535 del 2019).

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento, in favore dei controricorrenti, delle spese del presente giudizio, che liquida in Euro 200,00 per esborsi e in Euro 2.500,00 per compensi, oltre 15% per spese generali e accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 28 gennaio 2020.

Depositato in Cancelleria il 17 giugno 2020

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