Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 11705 del 13/05/2010

Cassazione civile sez. I, 13/05/2010, (ud. 23/03/2010, dep. 13/05/2010), n.11705

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. LUCCIOLI Maria Gabriella – Presidente –

Dott. CECCHERINI Aldo – rel. Consigliere –

Dott. NAPPI Aniello – Consigliere –

Dott. BERNABAI Renato – Consigliere –

Dott. DOGLIOTTI Massimo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 19751/2008 proposto da:

G.G. (c.f. (OMISSIS)), elettivamente

domiciliato in ROMA, VIALE DELLE MILIZIE 38, presso l’avvocato

MANCINI Andrea, che lo rappresenta e difende unitamente agli avvocati

DEFILIPPI CLAUDIO, CIANFANELLI DEBORAH, giusta procura in calce al

ricorso;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELLA GIUSTIZIA;

– intimato –

nonchè da:

MINISTERO DELLA GIUSTIZIA, in persona del Ministro pro tempore,

domiciliato in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA

GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende ope legis;

– controricorrente e ricorrente incidentale –

contro

G.G. (c.f. (OMISSIS)), elettivamente

domiciliato in ROMA, VIALE DELLE MILIZIE 38, presso l’avvocato

MANCINI ANDREA, che lo rappresenta e difende unitamente agli avvocati

DEFILIPPI CLAUDIO, CIANFANELLI DEBORAH, giusta procura in calce al

ricorso principale;

– controricorrente al ricorso incidentale –

avverso il decreto della CORTE D’APPELLO di TORINO, depositato

l’08/03/2008;

udita la relazione della causa svolta nella Pubblica udienza del

23/03/2010 dal Consigliere Dott. ALDO CECCHERINI;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

RUSSO Libertino Alberto, che ha concluso per l’inammissibilità del

ricorso principale, per il rigetto dell’incidentale.

 

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con ricorso alla Corte di appello di Torino in data 1 agosto 2007, il signor G.G. chiese che il Ministero della giustizia fosse condannato a corrispondere l’equa riparazione prevista dalla L. n. 89 del 2001, per la violazione dell’art. 6, sul “Diritto ad un processo equo”, della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, ratificata e resa esecutiva con la L. 4 agosto 1955, n. 848, in relazione all’eccessiva durata di un procedimento fallimentare aperto nei suoi confronti, quale socio accomandatario della società La Spezia di Gianfranco Gagliardi s.a.s. davanti al Tribunale di La Spezia con sentenza 11 febbraio 1999, e ancora pendente.

Con decreto dell’8 marzo 2008, la Corte di appello, esclusa l’esistenza di un danno patrimoniale, condannò l’amministrazione al pagamento, a titolo di equa riparazione del danno non patrimoniale, della somma di Euro 3.500,00. L’irragionevole durata della procedura fallimentare era stata già accertata dalla stessa Corte nel 2007, che aveva accolto una domanda di equa riparazione proposta dalla società, rappresentata dal G., a favore della quale aveva liquidato Euro 6.000,00 per cinque anni di ingiustificato prolungamento della procedura. La Corte ritenne che quella pronuncia non fosse di ostacolo alla proposizione della domanda da parte del G., in quanto a sua volta assoggettato in proprio a fallimento L. Fall., ex art. 147, ma impedisse un cumulo aritmetico degli indennizzi, perchè almeno una porzione dell’indennizzo riconosciuto alla società era da imputare al ristoro della sofferenza patita dalla persona fisica del suo legale rappresentante.

Avverso questo decreto, non notificato, il signor G. G. ha proposto ricorso per Cassazione notificato il 23 luglio 2008 al Ministero presso l’Avvocatura generale dello Stato, con tre motivi di ricorso. L’amministrazione resiste con controricorso e ricorso incidentale per tre motivi, notificato il 16 ottobre 2008, ed illustrato anche con memoria. Ad esso resiste il signor G. con controricorso.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

I ricorsi, proposti contro il medesimo ricorso, devono essere riuniti a norma dell’art. 335 c.p.c..

Il primo motivo del ricorso incidentale, vertente sulla nullità del decreto impugnato, sottoscritto dal solo presidente, per difetto della sottoscrizione del giudice relatore-estensore, deve essere esaminato con priorità.

Esso è infondato. In tema di equa riparazione per violazione del termine di durata ragionevole del processo, il provvedimento conclusivo del relativo procedimento è emesso nella forma del decreto immediatamente esecutivo, impugnabile per cassazione, ai sensi della L. n. 89 del 2001, art. 3, comma 6. Esso pertanto, nonostante la forma collegiale ed il contenuto decisorio, che lo rendono sostanzialmente assimilabile ad una sentenza, richiede la sottoscrizione del solo presidente del collegio e non anche la contestuale firma del giudice relatore, ex art. 135 c.p.c., comma 4 (Cass. 12 novembre 2002, n. 15.852). La regola della prevalenza della sostanza sulla forma vale, infatti, ad esimere dal vizio di nullità provvedimenti il cui contenuto intrinseco sia diverso da quello apparente, a condizione che siano rispettati i requisiti legali di forma propri del tipo legale correttamente adottabile. In tal modo, l’erroneità del nomen juris – di ordinanza o di decreto, in luogo di quello appropriato di sentenza – non inficia di nullità il provvedimento che, in concreto, sia stato sottoscritto anche dal relatore (Cass. 13 dicembre 2001, n. 15746; Cass. 29 agosto 1997 n. 8237). Non è però vero il principio inverso: e cioè che un provvedimento che formalmente rispecchi la forma prescritta sia egualmente nullo perchè mancante di un requisito confacente ad altro tipo legale, in ragione della maggiore affinità contenutistica con quest’ultimo (Cass. 29 gennaio 2010 n. 2134).

Deve inoltre escludersi la violazione del giudicato, oggetto del secondo motivo del ricorso incidentale, questione anch’essa pregiudiziale all’esame del ricorso principale. La distinzione della società, ancorchè di persone, dai singoli soci, compreso quello che ne ha la rappresentanza legale, non consente di estendere a questo, considerato quale autonomo centro di interessi, la pronuncia emessa nei confronti della società. Questa Corte, infatti, ha da lungo tempo riconosciuto che le società di persone, sebbene prive di un’articolata organizzazione interna, paragonabile a quella delle persone giuridiche, non sono prive di soggettività giuridica, costituendo un centro di interessi autonomo rispetto a quello dei singoli partecipanti.

Con il primo motivo del ricorso principale si denuncia la violazione della L. 24 marzo 2001, n. 89, art. 2 e art. 6, par. 1 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, per avere la corte del merito ridotto la riparazione del danno non patrimoniale in considerazione del danno già liquidato per il medesimo titolo alla società, e si pongono tre quesiti:

a) – se l’equa riparazione debba essere calcolata per il fallito persona fisica in modo indipendente dal fallito persona giuridica;

b) – se si debba tener conto dell’intera durata del procedimento e non del solo periodo di ritardo, e;

c) – se, qualora l’equa riparazione liquidata dalla corte territoriale non sia in ragionevole rapporto con quella accordata dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, il ricorrente possa pretendersi vittima di fronte alla giurisdizione italiana ed europea.

Ai quesiti deve darsi risposta negativa, per le ragioni appresso indicate.

a) La questione del rapporto tra indennità liquidata alla società e al socio è stata risolta correttamente dal giudice di merito, che ne ha ammesso il cumulo. La quantificazione della riparazione attiene invece all’accertamento del concreto danno non patrimoniale, nel caso di coincidenza tra legale rappresentante della società già indennizzata e parte istante, e non all’osservanza delle norme invocate, donde l’inammissibilità del quesito di diritto.

b) Il periodo di riferimento è quello, stabilito dalla L. n. 89 del 2001, art. 2, eccedente la ragionevole durata del giudizio presupposto. Sul punto v’è giurisprudenza consolidata (cfr. Cass. 19 novembre 2007 n. 23844; 13 aprile 2006 n. 8714; 23 aprile 2005 n. 8568), sicchè la questione è manifestamente infondata.

c) Che la liquidazione si sia discostata da quella della CEDU per casi simili dovrebbe potersi dimostrare con riferimento a casi di concorso tra equa riparazione a favore della società e del suo legale rappresentante, mentre la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, invocata nel ricorso, non concerne questo problema. Il quesito di diritto è inammissibile, vertendo su fattispecie diversa da quella di causa.

Con il secondo motivo si denuncia la violazione delle medesime norme di cui al motivo precedente, e si formula il quesito se il pregiudizio patrimoniale che – come si assume per quello indicato nell’atto introduttivo del procedimento – derivi direttamente dal prolungarsi del processo sia da comprendere nella liquidazione, eventualmente anche globale dell’equo indennizzo per irragionevole durata del processo.

Il ricorrente richiama a questo proposito una giurisprudenza della CEDU che, sulla premessa della mancanza di prova del danno patrimoniale, ha riconosciuto il diritto al risarcimento del danno non patrimoniale derivato dalla violazione di diritti garantiti dalla convenzione, tra i quali quello di ogni persona al rispetto dei suoi beni e della sua corrispondenza. Essa riguarda, dunque, il danno non patrimoniale derivante dalla lesione dell’art. 1 della Convenzione, al contrario di quanto è oggetto del presente motivo di ricorso (danno patrimoniale da lesione dell’art. 6 della Convenzione), ed è richiamata in modo non pertinente. La tesi, argomentata in relazione a domande diverse da quella proposta nel presente giudizio, è ininfluente nel presente giudizio. L’affermazione poi del ricorrente – di aver richiesto il ristoro di tutti i danni subiti in conseguenza del protrarsi del procedimento fallimentare, che prima della riforma del 2006 portava importanti conseguenze “puntualmente dedotte nell’atto introduttivo”, nonostante la sua inammissibile genericità (non riportando le affermazioni sulle quali si basa la censura), conferma che quelle conseguenze sarebbero state indicate sotto il profilo del danno prodotto dalla durata del processo, e non del comportamento lesivo denunciato, che rimaneva esclusivamente quello dell’irragionevole durata del processo, e non già della dichiarazione di fallimento per gli effetti che essa produce.

Con il terzo motivo si denuncia una violazione dell’art. 92 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5, per la disposta compensazione parziale delle spese, e si formula il quesito se vi siano stati vizi di motivazione sul punto, essendo la parte istante vittoriosa sulla domanda di liquidazione di un equo indennizzo.

La compensazione parziale delle spese del giudizio è espressione di un potere discrezionale del giudice di merito, nella fattispecie congruamente motivato con il rigetto di parte delle domande di riparazione formulate dal ricorrente.

Il motivo è infondato.

Il terzo motivo del ricorso incidentale verte su un vizio di motivazione nella valutazione della complessità della procedura.

Esso non è seguito dalla chiara indicazione – richiesta a pena d’inammissibilità – del fatto controverso in relazione al quale la motivazione si assume omessa, ovvero delle ragioni per le quali la dedotta insufficienza della motivazione la rende inidonea a giustificare la decisione. Il motivo è pertanto inammissibile.

Stante la reciproca soccombenza, le spese del giudizio di legittimità sono compensate tra le parti.

P.Q.M.

Riunisce i ricorsi e li rigetta. Dichiara compensate tra le parti le spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Prima Civile della Corte Suprema di Cassazione, il 23 marzo 2010.

Depositato in Cancelleria il 13 maggio 2010

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