Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 11675 del 04/05/2021

Cassazione civile sez. VI, 04/05/2021, (ud. 24/02/2021, dep. 04/05/2021), n.11675

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE T

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. GRECO Antonio – Presidente –

Dott. CATALDI Michele – Consigliere –

Dott. CROLLA Cosmo – Consigliere –

Dott. LUCIOTTI Lucio – Rel. Consigliere –

Dott. LO SARDO Giuseppe – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 31226-2019 R.G. proposto da:

P.F., rappresentato e difeso, per procura speciale in

calce al ricorso, dall’avv. Nicola GIORGINO, presso il cui studio

legale sito in Roma, alla via Filippo Civinini, n. 105 (Studio

Legale Avv. Renato Mele), è elettivamente domiciliato;

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE, C.F. (OMISSIS), in persona del Direttore pro

tempore, rappresentata e difesa dall’AVVOCATURA GENERALE DELLO

STATO, presso la quale è domiciliata in Roma, alla via dei

Portoghesi n. 12;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 708/05/2019 della Commissione tributaria

regionale della PUGLIA, depositata il 12/03/2019;

udita la relazione della causa svolta nella camera di Consiglio non

partecipata del giorno 24/02/2021 dal Consigliere LUCIOTTI Lucio.

 

Fatto

RILEVATO

che:

1. L’Agenzia delle Entrate, sulla scorta delle risultanze di una verifica fiscale condotta dal Nucleo di Polizia Tributaria di Bari, da cui emergeva che la Olearia Le Macine s.r.l., di cui era legale rappresentante P.F., aveva emesso nell’anno d’imposta 2005 fatture per operazioni inesistenti allo scopo di percepire aiuti comunitari per la produzione di olio di oliva e che il P., aveva lucrato una provvigione pari al 9 per cento dell’importo di ciascuna fattura e riportato condanna penale (con pena patteggiata di un anno e sei mesi di reclusione), emetteva a carico del predetto P. avviso di accertamento n. (OMISSIS) per recupero a tassazione della maggiore IRPEF non versata in relazione alle provvigioni conseguite.

2. Con la sentenza impugnata la CTR della Puglia rigettava l’appello del contribuente avverso la sfavorevole sentenza di primo grado ritenendo insussistente la dedotta decadenza dell’amministrazione finanziaria dal potere impositivo per decorso dei termini di accertamento, applicandosi nella specie il raddoppio dei termini previsto dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 43, e che era infondata anche la violazione del ne bis in idem lamentata dal contribuente per avere l’amministrazione finanziaria emesso un nuovo avviso di accertamento, in quanto tale nuovo atto impositivo era stato preceduto dall’annullamento in autotutela di quello precedente.

3. Per la cassazione della sentenza di appello ricorre con tre motivi il contribuente, cui replica l’intimata con controricorso.

4. Sulla proposta avanzata dal relatore ai sensi dell’art. 380 bis c.p.c. risulta regolarmente costituito il contraddittorio, all’esito del quale la ricorrente ha depositato memoria.

Diritto

CONSIDERATO

che:

1. Con il primo motivo di ricorso il ricorrente deduce la violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 43, comma 1, e della L. n. 208 del 2015, art. 1, commi 130-132, sostenendo che nella specie non operava il raddoppio dei termini in quanto la legge di Stabilità del 2016 (L. n. 208 del 2015), che aveva abrogato la “clausola di salvaguardia” di cui al precedente D.Lgs. n. 128 del 2015, contiene una norma transitoria che prevede che anche per gli anni d’imposta antecedenti al 2015 il raddoppio opera soltanto se la comunicazione di reato è stata inoltrata prima della scadenza dei termini ordinari.

2. Il motivo è infondato e va rigettato.

3. Il D.L. n. 223 del 2006, art. 37, comma 24, convertito con modificazioni dalla L. n. 248 del 2006, integrando il comma 3 del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 43, ha stabilito che “in caso di violazione che comporta obbligo di denuncia ai sensi dell’art. 331 c.p.c. per uno dei reati previsti dal D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74, gli ordinari termini di cui ai commi precedenti (ovvero di notifica, a pena di decadenza, degli avvisi di accertamento) sono raddoppiati relativamente al periodo di imposta in cui è stata commessa la violazione”.

3.1. Analoga disposizione è stata introdotta dal medesimo D.L. n. 223 del 2006, art. 37, comma 25, in materia di IVA, previa modifica del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 57.

4. Orbene, ai sensi delle citate disposizioni, nei testi applicabili “ratione temporis” (e, quindi, prima delle modifiche apportate dal D.Lgs. n. 128 del 2015 e dalla successiva L. n. 208 del 2015, vertendosi nel caso di specie di avviso di accertamento emesso e notificato nell’anno 2014 – cfr., ex multis, Cass. n. 16728 del 2016, Cass. n. 26037 del 2016 e, più recentemente, Cass. n. 33793 del 2019) il raddoppio dei termini presuppone unicamente l’obbligo di denuncia penale, ai sensi dell’art. 331 c.p.p., per uno dei reati previsti dal D.Lgs. n. 74 del 2000, tanto da essere del tutto indifferente l’effettiva presentazione della denuncia (cfr. Corte Cost. n. 247 del 2011, Cass. n. 1171 del 2016 e n. 27629 del 2018) e non rilevando nè la configurabilità di una causa di estinzione del reato come la prescrizione, nè l’intervenuta archiviazione della denuncia, “nè l’esercizio dell’azione penale da parte del p.m., ai sensi dell’art. 405 c.p.p., mediante la formulazione dell’imputazione, nè la successiva emanazione di una sentenza di condanna o di assoluzione da parte del giudice penale, anche in considerazione del doppio binario tra giudizio penale e procedimento e processo tributario” (in termini, Cass. n. 9974 del 2015, n. 16728 del 2016 e più recentemente Cass. n. 22337 del 2018 e n. 5228 del 2019).

5. La Corte costituzionale nella citata sentenza n. 247 del 2011, ha evidenziato che l’unica condizione per il raddoppio dei termini è costituita dalla sussistenza dell’obbligo di denuncia penale, indipendentemente dal momento in cui tale obbligo sorga ed indipendentemente dal suo adempimento, sicchè “il giudice tributario dovrà controllare, se richiesto con i motivi di impugnazione, la sussistenza dei presupposti dell’obbligo di denuncia, compiendo, al riguardo, una valutazione ora per allora (cosiddetta “prognosi postuma”) circa la loro ricorrenza ed accertando, quindi, se l’amministrazione finanziaria abbia agito con imparzialità od abbia, invece, fatto uso pretestuoso e strumentale delle disposizioni denunciate al fine di fruire ingiustificatamente di un più ampio termine di accertamento”.

6. Precisato che nel caso di specie il contribuente non ha mai dedotto di aver contestato la carenza dei presupposti dell’obbligo di denuncia (cfr. Cass. n. 13481 del 2020), osserva il Collegio che diversamente da quanto sostenuto nel ricorso, le modifiche introdotte dalla L. n. 208 del 2015, art. 1, commi da 130 a 132, non incidono sugli atti impositivi già notificati, relativi a periodi d’imposta precedenti a quello in corso alla data del 31 dicembre 2016, com’è quello in esame, notificato il 3 dicembre 2014.

7. E’ orientamento consolidato di questa Corte, infatti, quello secondo cui “In tema di accertamento tributario, i termini previsti dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 43, per l’IRPEF e dal D.P.R. n. 633 del 1972, art. 57, per l’IVA, come modificati dal D.L. n. 223 del 2006, art. 37, conv., con modif., in L. n. 248 del 2006, sono raddoppiati in presenza di seri indizi di reato che facciano insorgere l’obbligo di presentazione di denuncia penale, anche se questa sia archiviata o presentata oltre i termini di decadenza, senza che, con riguardo agli avvisi di accertamento per i periodi d’imposta precedenti a quello in corso alla data del 31 dicembre 2016, già notificati, incidano le modifiche introdotte dalla L. n. 208 del 2015, art. 1, commi da 130 a 132, attesa la disposizione transitoria, ivi introdotta, che richiama l’applicazione del D.Lgs. n. 128 del 2015, art. 2, nella parte in cui sono fatti salvi gli effetti degli avvisi già notificati” (Cass. n. 11620 del 2018; conf. Cass. n. 33793 del 2019).

8. Con il secondo motivo il ricorrente deduce la violazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 43, comma 3, e violazione del principio del ne bis in idem, sostenendo che la CTR aveva errato a ritenere legittimo l’avviso di accertamento impugnato, perchè notificato successivamente ad altro atto impositivo emesso per il medesimo periodo di imposta ed annullato con sentenza della CTP di Bari n. 1619/10/2014.

9. Il motivo è infondato e va rigettato alla stregua del principio in base al quale “Il D.P.R. n. 600 del 1973, art. 43, nella parte in cui consente modificazioni dell’avviso di accertamento soltanto in caso di sopravvenienza di nuovi elementi di conoscenza da parte dell’ufficio, non opera con riguardo ad avviso annullato in sede di autotutela alla cui rinnovazione l’Amministrazione è legittimata in virtù del potere, che le compete, di correggere gli errori dei propri provvedimenti nei termini di legge, salvo che l’atto rinnovato non costituisca elusione o violazione dell’eventuale giudicato formatosi sull’atto nullo” (Cass. n. 25023 del 2016).

10. Orbene, nel caso in esame la circostanza che il primo avviso di accertamento sia stato annullato in autotutela risulta dal testo della sentenza impugnata e non è stata adeguatamente smentita dal ricorrente che si è limitato a dedurre la circostanza senza documentarla.

11. Ciò precisato, pare opportuno ricordare che in materia tributaria il potere della pubblica amministrazione di provvedere in via di autotutela all’annullamento di ufficio od alla revoca, anche in pendenza di giudizio o di non impugnabilità, degli atti illegittimi od infondati, è espressamente riconosciuto dal D.L. 30 settembre 1994, n. 564, art. 2 quater, comma 1, conv. in L. 30 novembre 1994, n. 656, e che l’istituto dell’autotutela ha come autonomo presupposto temporale, da un lato, la mancata formazione del giudicato sull’accertamento emesso dall’amministrazione e, da un altro, la mancata scadenza del termine decadenziale fissato per l’esercizio del potere di accertamento tributario dalle singole leggi d’imposta, cosicchè l’esercizio dell’autotutela può aver luogo soltanto entro il termine previsto per il compimento dell’atto, non può tradursi nell’elusione o nella violazione del giudicato eventualmente formatosi sull’atto viziato e dev’essere preceduto dall’annullamento di quest’ultimo, a tutela del diritto di difesa del contribuente ed in ossequio al divieto di doppia imposizione in dipendenza dello stesso presupposto (v. Cass. n. 6329 del 13/03/2013). Questa corte con sentenza n. 31467 del 2019 ha altresì chiarito che “l’esercizio del potere di autotutela non implica consumazione del potere impositivo, sicchè, rimosso con effetto ex tunc l’atto di accertamento illegittimo od infondato, l’Amministrazione finanziaria conserva ed anzi è tenuta ad esercitare – nella permanenza dei presupposti di fatto e di diritto – la potestà impositiva (cfr. Cass. 16115/2007, id. 14377/2007, entrambe in materia di imposte reddituali; Cass. n. 14219/2015) (…) e il potere di sostituzione dell’atto impositivo incontra i soli limiti del termine decadenziale previsto per la notifica degli avvisi di accertamento e del divieto di violazione od elusione del giudicato sostanziale formatosi sull’atto viziato (cfr. Cass. n. 11114/2003; Cass. n. 24620/2006; Cass. n. 14219/2015; Cass. n. 12661/2016), nonchè del diritto di difesa del contribuente (Cass. n. 7335/2010; Cass. n. 14219/2015; Cass. n. 12661/2016)”.

12. In definitiva, deve riconoscersi all’amministrazione delle finanze il potere di adottare in via di autotutela sostitutiva atti modificativi di precedenti statuizioni favorevoli al contribuente risultate erronee, anche in caso di assenza di elementi sopravvenuti, in quanto, in ambito fiscale, tale potere va riguardato in un’ottica protesa a salvaguardare il soddisfacimento dell’interesse pubblico a reperire le entrate tributarie legalmente accertate nonchè il potere di emettere, nei limiti sopra indicati, un nuovo atto impositivo fondato sui medesimi presupposti di quello annullato.

13. Con il terzo motivo il ricorrente deduce la violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 38 e dell’art. 2695 c.c. (rectius: art. 2697 c.c.), sostenendo che la CTR aveva errato nel porre a carico di esso ricorrente un onere probatorio, relativo alla percezione di una provvigione su tutte le fatture emesse, gravante invece sull’amministrazione finanziaria “con la conseguenza che il reddito induttivamente accertato dall’Agenzia delle Entrate deve essere annullato per mancanza di elementi probatori giuridicamente validi” (ricorso, pag. 13).

14. Il motivo, oltre ad essere inammissibile per difetto di autosufficienza, per avere il ricorrente omesso di trascrivere sia il contenuto dell’avviso di accertamento che della sentenza penale di condanna del P., da cui l’amministrazione finanziaria avrebbe tratto gli elementi presuntivi del maggior reddito accertato a carico del medesimo, è anche manifestamente infondato avendo la CTR dato espressamente atto che l’operato dell’amministrazione finanziaria doveva ritenersi corretto per avere la stessa tratto detti elementi presuntivi “da dati e documenti incontroversi che l’Amministrazione finanziaria ha ricavato dal parallelo procedimento penale”, da cui emergeva che il P. aveva architettato un sistema in base al quale “per ciascuna delle decine di f.o.i. emesse” all’emittente spettava un corrispettivo “ragionevolmente commisurato al risparmio fiscale assicurato ai destinatari delle fatture” (sentenza, pag. 4).

15. Pertanto, non solo non vi è stata alcuna inversione dell’onere probatorio, ma l’atto impositivo risulta essere stato emesso in ossequio al disposto di cui al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 38, comma 3, che prevede che “L’incompletezza, la falsità e l’inesattezza dei dati indicati nella dichiarazione, salvo quanto stabilito dall’art. 39, possono essere desunte dalla dichiarazione stessa, dal confronto con le dichiarazioni relative agli anni precedenti e dai dati e dalle notizie di cui all’articolo precedente anche sulla base di presunzioni semplici, purchè queste siano gravi, precise e concordanti”, sicchè, muovendo dalla premessa che “Nel contenzioso tributario, la sentenza penale irrevocabile intervenuta per reati attinenti ai medesimi fatti su cui si fonda l’accertamento degli uffici finanziari rappresenta un semplice elemento di prova, liberamente valutabile in rapporto alle ulteriori risultanze istruttorie, anche di natura presuntiva” (Cass. n. 2938 del 2015; Cass. n. 28174 del 2017), l’Ufficio poteva correttamente fondare la ricostruzione del reddito del contribuente sugli elementi emersi dalla sentenza penale di condanna del contribuente, ritenendoli dotati dei requisiti indicati dal citato art. 38, spettando quindi al contribuente fornire la prova contraria. Onere nella specie non adempiuto.

16. In estrema sintesi, il ricorso va rigettato ed il ricorrente condannato al pagamento delle spese processuali nella misura liquidata in dispositivo.

PQM

rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del presente giudizio di legittimità, che liquida in Euro 10.200,00 per compensi, oltre al rimborso delle spese prenotate a debito.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, il 24 febbraio 2021.

Depositato in Cancelleria il 4 maggio 2021

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